Il piccolo Hans - anno XIII - n. 49 - gen./mar. 1986

Ma ecco che, ultimo della fila forse a meditare, rimane questa volta il Maestro. I discepoli camminano sereni, quand'ecco che un terribile urlo giunge sino a loro. Essi si guardano costernati. Pur senza parlare, è chiara la domanda. Il Maestro è stato attaccato dalla tigre, è evidente. Ma quell'urlo? Ha voluto il Maestro distruggere con sé tutto il suo insegnamento? O ha invece cercato di mettere per l'ultima volta alla prova la loro attitudine a non sorprendersi? Queste le due ipotesi classiche. Per scegliere, bisogna forse chiedersi che cosa è un maestro. Che cosa è una didattica. Che cosa è un allievo. Eccovi il numero. Ma qualcosa voglio dire. Le due ipotesi della storiella si adattano troppo bene a Jacques Lacan per non ricordarlo qui. Il mio ideale di maestro è invece diverso. Anche il mio, per dirla brechtianamente, accompagna i discepoli durante un periglioso passaggio in India. Anche il mio a un certo punto se ne sta indietro. Anche il mio urla. E allora la differenza? La differenza sta che in questa storia, le due ipotesi formulate dai discepoli sono, lacanianamente, già implicite nell'urlo. Vuol dire insomma che in realtà la tigre che ingoia il Maestro sono proprio loro, i discepoli, benché si siano precostituiti l'alibi di camminare avanti come i chierichetti e anche di sacrificare uno o due inter pares per rendere più veridico il fatto. Ma non gli va bene. Perché non gli resta in mano se non da una parte la distruzione, dall'altra la sorpresa. Che, dopo aver cercato di imparare a evitarla per un'intera vita, non è un gran che. Non a caso mi ricordano quel tipo di analizzanti rotti a tutto ma sorpresi dalla folgorazione delle loro stesse trovate, atteggiamento che Freud avrebbe brutalmente denominato resistenza. Il mio maestro dunque non appartiene all'ipotesi. Posi­ . zione non facile per lui, giacché, oltre che sorprendersi, è delizioso, come provano i rotocalchi, farsi ipotizzare. La differenza non è da poco. Essa coinvolge i cosiddetti 6

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