Il piccolo Hans - anno XIII - n. 49 - gen./mar. 1986

suo girare intorno al proprio oggetto, il discorso si sia immerso in esso, afferrandolo dentro di sé. L'orecchio così fine da sentire il silenzio del greco antico, ne ha inseguito a ritroso un suono più segreto e più grave; fino a incontrare il registro nel quale percezione sensibile e percezione testuale si fondono, in un tessuto fitto e indistricabile. In quel profondo, è arrivato ad udire distintamente l'usignolo che canta nell'Elettra «l'usignolo il cui canto echeggia, nel suo greco natìo, attraverso tutta la letteratura inglese» (p. 5), e gli è giunto il suono delle parole degli attori tragici. «Le loro voci risuonano limpide e nette» (p. 5), può scrivere da un certo momento in poi Virginia Woolf, in aperta contraddizione con la dichiarazione iniziale di impotenza a conoscere il suono del greco antico, perché nel frattempo, silenziosamente e impercettibilmente, ella ha attuato lo spostamento dalla tongue, dalla lingua come pura vocalità fisica, alla language, alla lingua-non lingua della poesia, ed è «l'insolubile questione della poesia e della sua natura», ciò che, da quel momento, la «rende perplessa» (p. 5). Nella lingua della poesia il greco e l'inglese incessantemente comunicano, versandosi l'uno nell'altro: «nonostante tutto è la lingua», the language, «l'elemento che più ci avvince; il desiderio di quanto continua ad attirarci per sempre all'indietro» (p. 11). Che proprio nei mesi intorno al cambiamento di residenza si collochino alcune scoperte fondamentali per Virginia Woolf sul proprio rapporto con la scrittura, ce lo conferma ancora una volta il diario: «Quanto al lavoro, ho finito il capitolo del dottore nel mio romanzo, e sto dando gli ultimi ritocchi ai 'Greci'; la consueta depressione mi assale. A volte, i miei saggi mi appaiono del tutto futili. Ma per me non c'è altra via che seguire, passo passo, questo mio cervello estroso, pareggiare le parti che non combaciano fintantoché non ottengo la forma esatta, e, se poi non vale niente, in fin dei conti la colpa è di Dio» (p. 299). Solo 174

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