che inaugura una tradizione di compassione e di umorismo, ma anche di violenza su di sé e sugli altri. L'automutilazione non è vana, perché Bodhidharma mostra di commuoversi; ma sembra trasformarsi in una beffa atroce perché il maestro con un breve dialogo tipicamente zenista mostra al discepolo che noo;,.vj è nessuna «pace della mente» da ottenere. E tuttavia tutto rientra nella· logica del sistema: nulla richiede tanta determinazione come l'apprendere che non vi è nulla da apprendere; ma poi il premio è subitaneo e inatteso e infatti Hui-k'o ottiene subito l'illuminazione, preludio immediato alla dignità patriarcale. Beninteso, un maestro zen alzerebbe le spalle con sufficienza davanti alla precisazione di queste antinomie: spontaneità e disciplina; libertà e repressione possono ben coincidere quando la «permanenza dell'io» va compiutamente in fumo attraverso un processo che porta alla curva limite le premesse poste dai padri fondatori indiani. Le cose sono in ogni caso più complesse di quanto non amino immaginare Suzuki e i suoi discepoli californiani; esse danno ragione piuttosto a Hu Shih e confortano il suo richiamo all'esigenza di vedere serripre lo zen nel contesto di tutta la storia e l'esperienza culturale est-asiatica'0 • Si pensi, d'altronde, al secondo ordine di paradossi: quello per cui lo zen, contestatore della lettera e del testo, diviene in Giappone per un lungo periodo strumento di trasmissione e di sviluppo di molte, diverse esperienze culturali. Questo è vero non solo per il teatro no e per l'arte di disporre i fiori, per la diaristica e per l'arèhitettura dei giardini; ma persino per il pensiero dei maestri neo-confuciani che i monaci introducono dalla Cina e propongono all'attenzione della classe colta locale educata da loro, praticamente in esclusiva, lungo l'arco di più di tre secoli. Estremo paradosso: il neo-confucianesimo si rivelerà una serpe in seno e agli inizi del XVII secolo manderà in frantumi il monopolio culturale zenista. Il Giappone cono138
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