Il piccolo Hans - anno XIII - n. 49 - gen./mar. 1986

zione mistico-quetista accreditata dai successivi sviluppi della scuola e suggerisce una prospettiva diversa. Per quanto riguarda in particolare il sapere e la sua trasmissibilità si tratta di stabilire se alcune ben note e paradossali espressioni del Tao Te Ching debbano essere ·intese come una condanna diretta e complessiva di ogni tipo di conoscenza (perché fallace e/o perché dannosa), oppure come la condanna del tipo di conoscenza che i confuciani predicavano: libresca e quindi astratta, indebitamente condizionata da esigenze di ordine etico-sociale, preoccupata dell'ordine umano più che dell'ordine naturale. Elementi di entrambe le interpretazioni possibili sono forse presenti nel composito mondo dello zen. «Colui che sa non parla, colui che parla non sa»: queste parole tratte dal capitolo LVI del Tao Te Ching riecheggiano con insistenza nella letteratura zen. È chiaro che il testo cinese ha una pregnanza ben maggiore di quella del proverbio, ricorrente in tante lingue e in tante culture, che constata la verbosità degli allocchi e la dignitosa riservatezza del saggio. Qui si allude in modo diretto al magistero del silenzio che è il punto stesso di partenza della tradizione zen, la cui «storia sacra» inizia con un episodio particolarmente significativo che ha al centro la figura stessa del Buddha Sakyamuni5. Invitato a illustrare la sua dottrina, il Buddha si limita a rimanere in silenzio, sfiorando solo un fiore ricevuto in omaggio. Uomini e dei raccolti ai suoi piedi non sanno intendere e restano interdetti. Sr;lo il venerabile Mahakasyapa annuisce leggermente con un sorriso. Ed a lui vengono dunque trasmessi la lampada della Legge e le insegne del Patriarcato. È questo notissimo episodio (cinese, ma che si vuole vissuto in India) a fondare la contrapposizione di cui si è detto all'inizio: solo il silenzio esprime la verità, ma tuttavia la verità si tramanda attraverso una ininterrotta dinastia patriarcale, che in India avrebbe com134

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