un'enorme riserva pronta per l'uso da convogliare alla scrittura poetica con l'aiuto di un apparato tecnico predisposto a reggere la pressione quantitativa del materiale, e la violenza qualitativa dell'abrupta rivelazione dell'inscape. Come nell'officina del dottor Frankenstein tutto è pronto per dare vita alla materia inanimata. Basta allora, dal cielo carico di elettricità, che un fulmine colpisca nel segno. La materia eufuistica - quello stile di cui parla Melchiori - dell'Hopkins manierista è pronta, con radici che affondano nell'ossessione dei materiali raccolti, nella complessità della lingua, nella ricerca studiata del ritmo del parlato, i salti, le spezzettature, le riprese, le ripetizioni. Intanto la tenacia con cui la descrizione ha continuato per anni a tradurre dati sensibili in rappresentazione linguistica, anche a prezzo dell'illegibilità, ha distillato un risultato prezioso. Ha tenuto lontana la difficoltà che Coleridge aveva incontrato nel suo tentativo di fare un libro di descrizione del suo viaggio in Germania. Di questa difficoltà parla Paolo Colaiacomo nel suo bel libro sulla teoria romantica del linguaggio poetico: L'incantesimo della lettera. Qualcosa si è annidato nelle impressioni di viaggio di Coleridge: il fatto che si erano troppo legate a un'emozione, a un punto nel tempo che egli non sapeva più staccare dalla cosa, ormai troppo carica, non rappresentabile con quella sua coda inesprimibile. (Per questo Wordworth ha introdotto il discorso sulla poesia come «emozione rivissuta in tranquillità»). Hopkins non ha incontrato come Coleridge «la divisione che presiede a ogni atto di parola», avendo isolato un nucleo figurativo, e avendo assegnata all'emozione la funzione di energia cui affidare il compito di portare a termine la raffigurazione della figura dentro cui era comparso l'inscape. Emozione ed inscape vanno perduti in ciò che è scritto, ma questo consente di scrivere. Sarà la poesia, una volta raggiunta, a dire tutta la potenza dell'inscape. Muto 78
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