Il piccolo Hans - anno XII - n. 48 - ott./dic. 1985

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica 48 ottobre/dicembre 1985 Virginia Finzi Ghisi 5 Mario Spinella 7 Italo Viola 34 Ermanno Krumm 53 Sergio Finzi 85 Stefano Agosti 147 Stefano Agosti 154 Giorgio Orelli 165 Maurizio Perugi 175 Giuliano Gramigna 190 Il nome e la fobia <( Verità e poesia » Il diavolo e la lettera mancante Il disagio dell'alhero: dialogo parallelo di Hopkins li posto dell'Origine nel riconoscimento della psicosi La lettera, il testo, il senso La scrittura della catastrofe. Il sonetto mallarméano del naufragio Dall'Ariosto al Marino, dal Marino al Tasso 'La rima agra di Arnaut Il fondo del barile. (Per una lettura di « The cask of Amontillado ») fan Baetens 200 Uno scritto davvero à la page

Il piccolo Hans rivista di analisi materialistica direttore responsabile: Sergio Finzi comitato di redazione: Contardo Calligaris, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Mario Spinella, Italo Viola. a questo numero hanno collaborato: Stefano Agosti, Jan Baetens, Sergio Finzi, Virginia Finzi Ghisi, Giuliano Gramigna, Ermanno Krumm, Giorgio Orelli, Maurizio Perugi, Mario Spinella, Italo Viola. redazione: Galleria Strasburgo 3, Milano, tel.. 790517-795557 abbonamento annuo 1986: (4 fascicoli) lire 35.000, estero lire 52.500 � e.e. postale 11639705 intestato a edizioni Dedalo spa, cas. post. 362, 70100 Bari Registrazione: n. 472 del 7-5-74 del Tribunale di Bari Fotocomposizione e stampa: Dedalo litostampa spa, Bari.

Il piccolo Hans Revue trimestrelle d'analyse matérialiste Directeur: Sergio Finzi Rédaction: C. Calligaris, S. Finzi, V. Finzi Ghisi, G. Gramigna, E. Krumm, M. Spinella, I. Viola Abonement 1 an (1985): 4 numéros: lire 45.000 Edizioni Dedalo spa, casella postale 362, 70100 Bari

Il nome e la fobia Mentre Tristram Shandy è alle prese con un terribile errore della domestica che fa sì che egli debba portare tutta la vita proprio l'unico nome odiato dal padre, zio Tobia· è dunque alle prese, aiutato dal fido domestico, con l'individuazione del «dove» fu un giorno ferito. Ma come può accq.dere questo, che il sollecito zio Tobia sia così distratto e impegnato altrove, mentre il prediletto neonato invece del nobile nome di Trismegisto riceve quello infame di Tristram? Eppure nello scorso editoriale si puntava il dito (ricordate: Sei tu Sussi? Sei tu Biribissi? e la questione del disegno si allacciava all'identificazione, e il «dove» di zio Tobia, che faceva impallidire di pudore la matura fidanzata, appariva collegato con una certa mappa) su una prossima spiegazione. Forse, è vero, il successivo numero sul maestro ci chiarirà tutte le implicazioni della dedica Vergine di Sterne. Senza dubbio il non aver osato fare, per la sua dedica, un nome solo, sceglierne uno, buono o cattivo che fosse, ma una volta per tutte, può essere una delle cause dell'increscioso errore di trasmissione tra il pianterreno e il primo . piano da parte della domestica. Ma il numero che oggi esce, con il farsi strada non solo con la testa come ogni nascituro che si rispetti, e Tristram era di quelli, ma anche allargando i gomiti, del posto della psicoanalisi, ha un buon motivo per questo. 5

Un discorso sulla lettera non è per noi scindibile dal lavorio in fondo all'orto di zio Tobia, dal suo tracciar piante e fortificazioni, dal suo misurar distanze, e non più, simbolicamente, sulla coperta di piquet del suo letto di dolore, ma improvvisamente in grado di levarsi spinto da necessità più urgente, su un pezzo ben definito di terra scelto all'uopo. Senza la qual alternanza di capitoli, Tristram, insomma, non avrebbe potuto accedere al simbolico, e, quale che sia la grazia del suo nome, sarebbe stato ben più triste per lui continuare a gonfiare il discorso dell'isterico, piuttosto che essere partorito pagando un caro dazio. Virginia Finzi Ghisi 6

<<Verità e poesia >> La mia capacità di giudizio sulla poesia è scarsa... S. Freud*, ! 1. Un doppio (o triplo) lapsus di Freud. Nelle Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva (Caso clinico dell'uomo dei topi, 1909) (6,42), Freud riferisce, a proposito dell'onanismo, che il suo paziente, che lo aveva scarsamente praticato dopo la pubertà, provò una spinta irresistibile al masturbarsi a ventun anni, poco dopo la morte del padre. Ma la vergogna che ne provava lo fece smettere di nuovo. «Da allora ebbe qualche rara ricaduta in occasioni davvero singolari». «Secondo le sue parole [che Freud trascrive in discorso indiretto, pur mettendole tra virgolette] ciò avveniva quando viveva momenti o leggeva brani particolarmente belli». Una di queste occasioni fu rappresentata dalla lettura di un passo di Poesia e verità di Goethe. Del Caso dell'uomo dei topi ci sono stati conservati gli appunti di lavoro di Freud, ritrovati dopo la sua morte. «Questo ritrovamento -leggiamo nell'«Avvertenza editoriale» premessa al testo freudiano nel volume 6 dell'edizione Boringhieri delle Opere -costituisce un fatto eccezionale per gli scritti di Freud, in quanto egli aveva l'abitudine di distruggere le note che gli erano servite per un lavoro subito dopo la pubblicazione». Pubblicato dapprima da Strachey in traduzione inglese nello Standard edition (1955), il 7

testo tedesco apparve nel 1974 in edizione critica; e, da qui, nello stesso anno, in italiano nel già ricordato volume 6 delle Opere. In data 12 ottobre 1907, Freud vi riferisce l'episodio ricordato dal suo paziente; ma cita (6,80) il titolo del libro di Goethe come «Verità e poesia» (Wahreit und Dichtung); e ripete lo stesso lapsus di scrittura, alludendo ancora una volta al racconto del paziente, poche pagine dopo (18 ottobre), per ripristinare il titolo esatto nelle note del 17 novembre, ove il paziente ritorna su quell'episodio, e su quel testo, a proposito di un sogno erotico, riguardante la sorella Julie, e un suo comportamento successivo: «Svegliandosi fu felice che fosse stato soltanto un sogno. Va poi nella stanza dove lei dorme e le dà qualche colpetto sul sedere, sotto la coperta» (6,92). Ma, più che questa rettifica, nelle stesse note e poi nella rielaborazione successiva, ciò che fa problema, e suscita interesse è proprio il lapsus stesso, evidenziato, per di più, dalla sua ripetizione, ad alcuni giorni di distanza. Sappiamo troppo bene, da Freud stesso, che nessun lapsus è casuale; non può quindi valere la facile giustificazione che si tratta di appunti scritti in fretta; e tanto meno quella di una eventuale confusione (non «dimenticanza») da parte sua sul titolo di una celebre opera di un autore che conosceva e amava particolarmente. Al lapsus, quindi, come sappiamo, specificatamente dalla Psicopatologia della vita quotidiana, induce la presenza di un elemento perturbatore del discorso da individuarsi in un conflitto interiore (4,151; 5,243). Ripercorrere l'itine­ 'rario che conduce da questo lapsus di Freud alla specificità del conflitto che esso rivela, mi sembrerebbe - per quel poco che so di psicoanalisi - una mera prevaricazione. Se perciò il lapsus in questione fa problema è proprio in quanto suscita interrogativi, destinati, sì a rimanere senza risposta, ma tuttavia, forse, non del tutto inutili, gratuiti; non privi di una certa capacità di stimolazione e sollecitazione. 8

Nel contesto in cui troviamo la prima erronea citazione, «Verità e poesia», a differenza che nel testo definitivo, Freud� rafforzando l'aggettivo «singolare» - definisce «cosa incredibile» l'azione del masturbarsi dopo la lettura del passo di Goethe. Una «verità», dunque, cruda in opposizione alla «poesia» della narrazione goethiana, trascrivendo la quale Freud usa le espressioni «in un trasporto d'amore», «si libera dell'effetto della maledizione», «copre di baci l'amata»? O il presentarsi nella «inversione» cui il titolo viene sottoposto, di un'eco, della individuazione di una forte componente omosessuale nella nevrosi del suo paziente? O infine, sul filo della prima ipotesi, qualcosa che abbia in qualche modo a che fare con il ruolo rispettivo attribuito entro di sé da Freud alla scienza, come strumento inflessibile di ricerca della verità, e alla poesia, ·alla «letteratura» in genere; tanto più che Dichtung, Dichter hanno, in tedesco, una estensione semantica maggiore che in italiano «poesia» e «poeta», almeno al livello tecnico, critico? Non par dubbio, infatti, che, nel titolo goethiano la und, la e, ha significato congiuntivo; sicché i due termini, «poesia» e «verità» appaiono così strettamente connessi da costruire pressocché un'endiadi. Ma è così nel lapsus di Freud? Proprio perché di un lapsus si tratta, si ingenera almeno l'ombra del sospetto che la e si faccia disgiuntiva, che tra i due termini venga marcata la differenziazione, se non addirittura l'opposizione, e in un senso più ampio e meno specifico di quello cui sopra si alludeva: meno immediatamente legato al «caso clinico» dell'Uomo dei topi. Qualcosa, cioè, che abbia coinvolto, intricato - anche personalmente - Freud, almeno in una certa misura. Qualcosa che traspare in più di un'occasione ove, nei suoi scritti, entri in questione, appunto la «bellezza», la «poesia». Quella «bellezza» e quella «poesia» che il «medico» deve sacrificare alla verità. Leggiamo, in questa luce, quanto Freud scrive in Fram9

mento di un'analisi di isteria (Il caso di Dora), (4.349): «Devo ora parlare di un'altra complicazione a cui certo non dedicherei spazio alcuno se fossi un artista [Dichter] che deve inventare un simile stato d'animo in un racconto, invece che un medico che ne deve fare la dissezione. L'elemento cui ora alluderemo [le tendenze omosessuali di Dora] non può che offuscare e dissolvere la bellezza, la poesia del conflitto che abbiamo dovuto ascrivere a Dora: esso verrebbe a buon diritto sacrificato dalla censura del1'artista...». O consideriamo per un istante, in questa chiave, quanto, a proposito dell'artista, Freud più volte ha modo di affermare, e che esplicita a conclusione della ventitreesima lezione della Introduzione alla psicoanalisi: «Se uno è un vero artista... In primo luogo sa elaborare i propri sogni ad occhi aperti in modo che essi perdano gli elementi troppo personali e diventino godibili anche per gli altri. Sa inoltre mitigarli al punto che essi tradiscano facilmente la loro origine dalle fonti proibite. Possiede altresì il misterioso potere di modellare un certo materiale fino a renderlo fedele immagine della sua rappresentazione fantastica, e sa poi congiungere a questa descrizione della sua fantasia inconscia un tal conseguimento di piacere che le rimozioni ne vengono, almeno temporaneamente, sopraffatte e abolite. Se è in grado di fare tutto ciò, egli offre agli altri la possibilità di attingere nuovamente conforto e sollievo dalle fonti di piacere ormai inaccessibili del loro inconscio; si guadagna la loro riconoscenza e ammirazione, e ottiene ora per mezzo della sua fantasia, ciò che prima aveva ottenuto solo nella sua fantasia: onore, potenza, amore» (8,531). Ci si potrebbe chiedere donde Freud - tanto sobriamente scevro, di solito, dai facili entusiasmi - tragga una visione così ottimistica, quasi «trionfalistica» dell'umana vicenda degli scrittori. Questo suo atteggiamento appare, quanto meno, - e per adoperare il termine che egli attribuisce 10

all'agire erotico dell'«uomo dei topi» - «singolare». Ma forse ancora più «singolare» (se non, addirittura «incredibile») quanto Freud ebbe a scrivere a Arthur Schnitzler in almeno due occasioni: nella lettera dell'8 maggio 1906 («Spesse volte mi sono chiesto con meraviglia dove Lei potesse attingere a questa o quella segreta conoscenza che io ho acquisito attraverso una faticosa indagine dell'oggetto, e infine sono giunto al risultato di invidiare [sottolineatura mia, M.S.] il poeta che per altri versi ammiro»)2; o più ancora in quella del 14 maggio 1922 («Penso di averla evitata per una specie di «timore del sosia». Non perché io sia facilmente incline a identificarmi con qualcun altro o perché abbia voluto nascondere la differenza di talento che mi separa da Lei, ma perché sempre, quando mi sono immerso nelle sue belle creazioni, ho creduto di trovare dietro la loro parvenza poetica gli stessi presupposti, interessi e risultati che riconoscevo essere anche i miei propri ... Così ho avuto l'impressione che lei sapesse per intuizione - ma in verità a causa di una sottile autopercezione - tutto ciò che io ho scoperto negli altri uomini con un lavoro faticoso e paziente»)3. Il «sosia», lo si sa da Freud, appartiene al «perturbante», all'Unheimlich, a tutto ciò che - come egli ci dice nel suo saggio del '19 (9,86) sulla scorta di Schiller «avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato». Ma forse, di associazione in associazione, mi sono allontanato eccessivamente dall'Uomo dei topi. Torniamoci: e per segnalare un terzo lapsus, nelle stesse note, ove Freud, in data 26 novembre (6,99), scrive «pistola Flaubert» in luogo di pistola «Flobert». Ancora una volta uno scambio verbale, più che una mera sostituzione di lettere suscitata dall'omofonia; e, ancora una volta, qualcosa che ha a che fare con la letteratura, con uno scrittore. C'è da dolersi che Emma Bovary, per togliersi la vita, non abbia fatto ricorso a una pistola, bensì al veleno! 11

2. Freud e le lettere Su «Freud e la letteratura» esiste ormai una imponente bibliografia, che non mi propongo certo di ripercorrere qui. Semmai mi limiterò, invece, traendo spunto, se occorre, da talune «voci» più recenti di tale bibliografia, a cercare di mettere in luce alcuni punti, o questioni, particolari, al livello più assai dell'empiria che della teoria. Colpisce anzitutto il fatto che Freud, sia stato forse tra tutti gli scienziati - ivi compresi gli scienziati-umanisti del seicento e del settecento - quello che maggiormente abbia tenuto presente la produzione letteraria, non soltanto esemplificando o rafforzando questa o quella sua affermazione con citazioni da poeti, narratori, e drammaturghi, ma avvalendosi della produzione letteraria come oggetto diretto di studio e di interpretazione, o addirittura come occasione di ulteriori sviluppi e precisazioni della propria teoria: non solo quindi come conferma della esperienza clinica - che è quella, ovviamente, fondante - ma come messa a fuoco, sia pure sempre, altrettanto ovviamente, soltanto ipotetica, in attesa di conferma, di tale esperienza. Si può anzi avanzare la supposizione che, in una temperie che proprio le sue opere avrebbero contribuito, se non a rompere, certo ad elidere, proprio il suo così frequente ricorso alle «fole», o addirittura «corbellerie»• degli scrittori abbia ulteriormente contribuito - come concausa certo minore - a quelle Resistenze alla psicoanalisi che egli ha preso in esame nel suo scritto del 1924 sulla «Revue Juive» (1O, 45-48). Le recenti ricerche critiche e teoriche sulla letteratura mirano a distinguere in maniera· sempre più netta tra testo narrativo, testo teatrale, testo poetico, fornendo basi rigorose a quella tripartizione che, del resto, il buon senso aveva sempre compiuta5. Freud, che muoveva da altri interessi e preoccupazioni, tendeva a unificare il fatto lettera12

rio sotto il segno - e la terminologia - della Dichtung, della poesia; e, se mai, a individuare, secondo linee che sono state definite la sua «estetica», i processi psicologici che sono sottesi alla produzione artistica in generale; una ricerca sempre, in lui, accompagnata da una forte sottoli- . neatura del fatto che «Purtroppo davanti al problema dello scrittore l'analisi deve deporre le armi». (Dostoevskji e il parricidio, 10, 521), che cioè le modalità specifiche attraverso cui l'artista trasforma le sue fantasie in opere d'arte rimane, come abbiamo letto or ora nella citazione dalla Introduzione alla psicoanalisi, un potere «misterioso», o, come è detto in Il Poeta e la fantasia (5, 383), «il suo particolarissimo segreto». E tuttavia, utilizzando euristicamente questa tripartizione, o distinzione, è forse possibile mettere meglio a fuoco almeno alcuni aspetti della tematica inerente all'uso che Freud ha fatto del materiale letterario, e di quanto - al di là anche delle sue stesse cautele - ha contribuito e può ancora contribuire a disvelarne il segreto; le modalità specifiche, cioè, attraverso cui la «fantasia» - «chiusa all'interno di un scena dove destinatore e destinatario coincidono» - si fa «azione» nel testo, se vogliamo, appunto, parafrasare alcune indicazioni freudiane7 • Si è già detto dell'uso eccezionalmente ampio che Freud fa di testi e citazioni di carattere letterario: a uno sguardo appena un po' ravvicinato, ci si avvede della prevalenza spiccata di riferimenti a opere teatrali, da Sofocle a Shakespeare al Faust a Schiller, a Ibsen, giù giù sino ad autori assai minori, o talvolta drammi e commedie di scrittori più noti per la loro produzione narrativa e poetica, come ad esempio Schnitzler. Questo privilegiamento, del resto, è stato sottolineato dallo stesso Freud, allorché, invitato a rispondere, nel 1907, a un questionario «sulla letteratura e sui buoni libri», enumera tra le «dieci opere più grandi» (della letteratura mondiale), «Omero, le tragedie di Sofocle, il Faust di 13

Goethe, l'Amleto e il Macbeth di Shakesperare...» (5, 367). Ed è ribadito, ventanni più tardi, quando, in Dostoevskji e il parricidio leggiamo: «Quello che desta meno dubbi è lo scrittore: il suo posto viene subito dopo quello di Shakespeare. I fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che mai sia stato scritto, l'episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale, un capitolo di bellezza inestimabile» (10, 521); e più avanti, nello stesso saggio: «Non è certo un caso che tre capolavori di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il parricidio: alludiamo all'Edipo re di Sofocle, all'Amleto di Shakespeare e a/ fratelli Karamazov» (10, 532). Termini di riferimento espliciti a quel «capolavoro» che è I fratelli Karamazov sono appunto, come per Omero nella citazione del Questionario, opere scritte in forma drammatica. E si potrebbe, forse, ulteriormente rilevare che, nella ammirazione per Dostoevskji, entri in gioco anche il fatto che questo scrittore - non solo in maniera evidentissima in Delitto e castigo, ma in tutta la sua opera narrativa - proceda assai spesso per grandi «scene» ove i suoi personaggi si affrontano e si scontrano come su un palcoscenico. Attribuire questa specifica curvatura freudiana verso le opere teatrali a una mera questione di educazione o di «gusto» mi sembrerebbe del tutto semplicistico, sino alla tautologia. Non può non colpire, infatti, che - con l'eccezione, appunto dei Karamazov, di Hoffmann (Il perturbante) e di quel «pretesto» costituito dalla Gradiva, il romanzo da lui stesso considerato mediocre, di Jensen, o di quello singolare, di difficile collocazione, che sono le Memorie del presidente Schreber - Freud tragga pressocché sempre spunto nelle sue ricerche e nei suoi scritti - ove faccia ricorso alla letteratura - da grandi testi teatrali: l'Edipo, appunto, di Sofocle, l'Amleto, il Macbeth, mentre il libro da lui maggiormente citato nelle più varie occasioni è il Faust di Goethe. Non sembra invece eccessivamente azzardato avanza14

re, sia pure cautamente, l'ipotesi che alla base di tali privilegiamenti, possa esservi una componente più specifica, una sorta di omologia tra le procedure teatrali e quanto, in Freud, fu alle origini della elaborazione dell'intera psicoanalisi: l'esperienza dell'isteria. Questa curvatura «teatrale», questa modalità di «drammatizzazione», è presente sin dal primo scritto accolto nelle Opere, la Relazione sui miei viaggi di studio a Parigi e a Berlino (1866), ove si accenna alla diffidenza dell'ambiente clinico austriaco verso il lavoro di Charcot e degli studiosi francesi, cui si muoveva il rimprovero «per lo meno di una certa predilizione per lo studio di fenomeni strani e rari da loro poi drammaticamente elaborati» (1, 6) [sottolineatura mia, M.S.], sia pure per sorvolare, certo a ragion veduta, proprio su quelle caratteristiche della consultation externe, compiuta, sui pazienti ambulatoriali, alla presenza di assistenti e studenti - e delle quali abbiamo un resoconto fedele in quelle Lezioni del martedì della Salpetrière che Freud tradusse e presentò nel 1893, non senza un accenno al ricordo della «voce e della mimica del Maestro» (1, 154). Non è certo senza una precisa intenzionalità che Jean Paul Sartre, nella sceneggiatura per un film su Freud preparata per il regista John Huston, e ora pubblicata8 introduce (parte I, scena 11) la finzione di una di queste lezioni e configura, proprio dopo di essa, un Freud «entusiasta» che dice a Charcot: «Lei mi ha svelato un mondo. Io.. .io sono in grado di lavorare, adesso»; proprio come se la «rappresentazione» dell'isteria avesse assolto a quella funzione liberatoria, «catartica» che Aristotele aveva attribuito alla tragedia, e su cui Freud insisteva almeno in una certa fase della elaborazione della sua tecnica terapeutica (il metodo che egli chiama, appunto, «catartico») traendola dalla nota definizione aristotelica della tragedia•. Del resto, in molti tra gli scritti freudiani, ricorrono metafore linguistiche che rimandano al teatro. È vero che l'espressione specifica «teatro privato», a proposito del «so15

gnare ad occhi aperti» di Anna O., negli Studi sull'isteria (1, 190,207), è di Breuer, ed è ancora di Breuer l'osservazione che la stessa Anna O., vivendo le sue sensazioni angosciose e le sue assenze allucinatorie, «le declamava come una tragedia» (1, 195); ed è altresì vero che il termine «scena» (Szene) cui Freud fa così spesso ricorso ha in tedesco un significato assai più estensivo dello specifico «Biihne», che ha un preciso riferimento al teatro; ma è indubbio che l'enucleazione di «azioni serie e compiute», esattamente delimitate e isolate in quello che si suol chiamare non senza ambiguità, il «flusso» della memoria, richiama in ogni caso, analogicamente, alle modalità strutturali dei · testi teatrali, caratterizzati, tra l'altro, dalla netta prevalenza della mimesi sulla diegesi, normalmente dominante nei testi narrativi. Riprendendo, o parafrasando liberamente, taluni concetti messi a fuoco da Cesare Segre in Teatro e romanzo' 0 , si potrebbe dire, che «il teatro tende a evidenziare quelli che sono definiti 'episodi principali'». Ne consegue che «Nell'opera teatrale... i procedimenti con cui vengono distribuiti gli elementi dell'evento narrativo sono affini a quelli, propri dell'intreccio, con cui si distribuiscono le unità di contenuto, infrangendo l'ordine logico o cronologico per ottenere particolari effetti», sicché «è indubbio che la forma teatrale presenta sulla scena parole e azioni di una eccezionale 'densità'». Infine - e potremmo dire, ai fini del nostro discorso, last but not least - Segre richiama alla pregnanza dell'elemento spaziale, di uno spazio definito, ritagliato, sottolineato dal palcoscenico, e la cui «identificazione ... è operata in modo da segnalare per coincidenza o per evidenziato contrasto, gli spazi semantici». Né, vorrei aggiungere, ma ciò andrebbe verificato «sperimentalmente» sui testi, tale spostamento verso l'intreccio, sarà senza conseguenze sugli aspetti anche sintattici del discorso: per esempio sul rapporto tra paratassi e ipotassi. Ma quella che qui si vorrebbe avanzare è piuttosto 16

un'ipotesi, anch'essa tutta da verificare, su una maggiore «affinità» del funzionamento del discorso teatrale con la topologia dell'apparato psichico, in particolare quale è descritto da Freud nel Progetto di una psicologia, e della rappresentazione teatrale con talune modalità del sogno. Né si può trascurare - anche sulla scorta di quanto ha osservato recentemente Romana Rutelli11 , che il motto di spirito, il Witz, oggetto del saggio di Freud più prossimo ai temi della individuazione delle fonti del piacere estetico, si manifesti, di fatto come una forma di performance, di rappresentazione. Il Witz è fatto per essere «recitato» - anche se, ovviamente, può essere trascritto, ma, quando lo è, lo è quasi sempre in forma diretta, per «mimesi», appunto: è questo, per esempio, il caso del primo Witz esaminato da Freud in Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio, quello, riferito da Heine, dei modi del tutto familionari con cui il barone Rotschild avrebbe trattato un modesto «ricevitore del lotto e callista». Anzi, la sua efficacia è strettamente legata alla capacità di chi lo enunzia di assumere talune caratteristiche dell'attore, e considera il destinatario, o meglio i destinatari, come un «pubblico». Del resto molti Witz nascono nel vivo della conversazione, con lo scopo di richiamare l'attenzione su chi li pronunzia, di farlo emergere come «protagonista» o «antagonista» e ciò vale in particolare per il motto «tendenzioso» («ostile» e/o di «denudazione») che, come sottolinea Freud «richiede generalmente la presenza di tre persone», una «distribuzione delle parti». Ma, ancora dal Motto di spirito, è possibile ricavare un'altra traccia che, se da un lato ci riporta esplicitamente al teatro, dall'altra costituisce il punto di partenza di una serie di nessi che, più generalmente, ineriscono a quanto si potrebbe definire (ma, in un senso del tutto specifico, con quello spostamento radicale che in tutti i casi la psicoanalisi rappresenta nei rispetti dalla «filosofia») !'«estetica» di Freud. 17

Il riferimento è al paragrafo 2 del quarto capitolo, ove si tratta della «storia evolutiva o psicogenesi del motto». Proprio all'inizio di questo paragrafo leggiamo «Prima che vi sia motto, vi è qualcosa che possiamo definire come giuoco o scherzo. Il giuoco - teniamoci a questo termine - compare nel bambino nel periodo in cui egli apprende a usare le parole e a collegare tra loro i pensieri. Questo giuoco risponde probabilmente a una delle pulsioni che obbligano il bambino a esercitare le sue facoltà; così facendo egli s'imbatte in effetti piacevoli risultanti dalla ripetizione di ciò che è simile, dal ritrovamento del già noto, dall'omofonia eccetera, che si spiegano come risparmi insospettati di dispendio psichico. Non c'è da meravigliarsi che questi effetti piacevoli spingano il bambino a darsi tutto al giuoco, incitandolo a proseguirlo senza curarsi del significato delle parole e della coerenza delle frasi. Il primo grado preliminare del motto sarebbe quindi il giuoco condotto mediante parole e pensieri, motivato da certi effetti piacevoli del risparmio» (5, 115). Più tardi - Freud vi ritorna in Il poeta e la fantasia - il giuoco verbale del bambino (nel quale, potremmo dire, egli tratta appunto le parole come «cose») si caratterizza per il fatto che «distingue assai bene il mondo dei suoi giuochi dalla realtà e appoggia volentieri gli oggetti e le situazione da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale. Questo appoggio e null'altro distingue il «giocare» del bimbo dal «fantasticare» (5, 376). E, subito dopo, nel paragonare il gioco del bambino all'attività creativa del «poeta», Freud mette in evidenza, in maniera specifica, la particolare affinità tra il gioco e «quelle produzioni poetiche che richiedono un appoggio a oggetti tangibili e che sono suscettibili di essere rappresentate». Ma è il caso di citare tutto il passo, per la sua rilevanza ai fini del nostro itinerario. «La lingua tedesca ha preservato l'affinità che sussiste tra il giuoco dei bimbi e la creazione poetica, indicando con la stessa parola i lavori 18

teatrali (Spiele) ossia, quelle produzioni poetiche che richiedono un appoggio a oggetti tangibili e che sono suscettibili di venir rappresentate, e i giuochi (Spiele). Donde, a indicare la commedia e la tragedia, Lustspiel (letteralmente: recita o giuoco piacevole) e Trauerspiel (recita o giuoco luttuoso), e l'attore è lo Schauspieler (giocatore che dà spettacolo)» (5, 376). Sono temi che Freud aveva anticipato, circa due anni prima, in Personaggi psicopatici sulla scena: «L'assistere come spettatore al 'ludo' scenico dà all'adulto ciò che il «giuoco» dà al bambino, la cui esitante attesa di poter emulare l'adulto trova in tal modo soddisfazione»... «e gli autori e attori teatrali glielo consentono, permettendogli di identificarsi con un eroe...di sfogarsi in tutte le direzioni nelle varie scene grandiose [sottolineatura mia, M.S.] di cui si compone la vita colà rappresentata» (5, 231-232). In particolare, rispetto alla lirica e all'epica - aggiunge Freud - «il dramma... mira a scandagliare più nel profondo le possibilità affettive... Si potrebbe addirittura caratterizzare il dramma mediante questa sua relazione con la sofferenza e l'infelicità...» (5, 232). Su questo sfondo sembra assumere una sua pregnanza e significatività l'uso linguistico, da parte di Freud, di tutta una serie di espressioni connesse al teatro e alla sua tecnica differenziata nell'ambito della produzione letteraria. Così l'impiego frequentissimo di «scena» (Szene) nella descrizione di casi clinici, a partire da quello della «Signora Emmy van N» negli Studi sull'isteria (1,217), ove anzi Freud riferisce che la sua paziente «durante la narrazione vede davanti a sé le scene corrispondenti, plasticamente e a colori naturali, ... con tutta la vivacità della realtà», e insiste su questa caratteristica («assicurandomi di nuovo " di vedere spesso davanti a sé quelle scene vivacemente e a colori» (1, 218), sottolineando che «questo ricordare con 19

immagini visive vivaci ci venne riferito da molte altre isteriche con particolare riguardo per i ricordi patogeni» (1,217, nota 1). Ricordiamo che Emmy von N. rievocava questi episodi sotto ipnosi; non così, invece, la Dora del Frammento di un'analisi d'isteria, ove a isolare le «scene» (del bosco, del lago, del bacio), e nei casi successivi, è il decorso stesso dell'analisi. Ciò rinvia ad un uso, questa volta più tecnico e specifico del termine, quale si ha nel composto Urszene («scena primaria») che, adombrato una prima volta nella lettera a Fliess del 2 maggio 1897, troverà la sua definitiva sanzione come parte integrante del vocabolario psicoanalitico (e dei concetti corrispondenti) in un capitolo - il quarto - di Dalla .storia di una nevrosi infantile (caso clinico dell'uomo dei lupi), scritto nel 1914, ove ne vengono posti in rilievo i rapporti con «il sogno dei lupi» e con la sua interpretazione. E ancora: se, in tutte queste occasioni il termine Szene può avere - come si avvertiva - un significato estensivo, pur nel suo inequivocabile richiamarsi al teatro e alla teatralità, diverso è il caso di un'altra espressione freudiana - che egli stesso dice di aver tratta, e isolata, dall'opera di Fechner: ein andere Schauplatz, sulla cui rilevanza ci ha resi avvertiti Lacan12 , come quella che designa «le lieu de l'inconscient», il luogo dell'inconscio. Nella Interpretazione dei sogni, infatti, è proprio dalla definizione di Fechner, che egli fa propria, che Freud muove, dapprima con un accenno nel primo capitolo («La letteratura scientifica sui problemi del sogno», paragrafo E) (3, 54), e poi più ampiamente nel paragrafo sulla regressione del capitolo 7, per inoltrarsi nella topologia dell'apparato psichico e individuare nel sistema inconscio l'«avvio alla formazione del sogno», «il punto di partenza della formazione del sogno» (3, 489). Può emergere da questo insieme di dati e di materiali, sebbene più affastellati che portati a un grado di sufficiente elaborazione, una convalida dell'ipotesi di cui ci si è 20

mossi, di un «privilegiamento», in Freud, del teatro rispetto alle altre modalità dell'espressione letteraria? E per ragioni non semplicemente «di gusto», ma strettamente connesse all'orientamento generale della ricerca che lo ha condotto alla scoperta, e ai successivi sviluppi, della psicoanalisi? Credo che la risposta possa essere, sia pure con le necessarie cautele, affermativa. Freud viene così, per motivi suoi propri, ad assumere una posizione che coincide con il giudizio aristotelico sulla superiorità della tragedia nei confronti dell'epopea che conclude (1461 b - 1462 a, b)' 3 quanto ci è rim_ asto alla Poetica. E si ricordi ancora l'affermazione della stessa Poetica che il poeta tragico deve ricercare le «catastrofi» che «avvengono tra persone legate da vincoli di parentela, come quando, per esempio, un fratello uccida o mediti di uccidere il fratello, o un figlio il padre, o una madre il figlio, o un figlio la madre» (1453 b)'4 : un'affermazione che Aristotele ampiamente esemplificava sull'Edipo re. Ma si può dire di più: sulla definizione aristotelica del dramma, che - come si è ricordato - viene citata nelle prime righe di Personaggi psicopatici sulla scena, Freud innesta un interrogativo essenziale per la sua ricerca: perché avvenga, appunto, che la rappresentazione di eventi che suscitano pietà e terrore provochi una «purificazione degli affetti». Se è vero che la risposta - le risposte - a questo interrogativo non può che esser data dall'insieme delle scoperte di Freud, dalla psicoanalisi, anche sotto questo profilo si può affermare che il «teatro» assuma un ruolo centrale in quanto Freud trae dalla letteratura, e sulla letteratura ci dice. Ciò nulla toglie, ovviamente, a quanto, anche recentemente, si è scritto - e ancora si scriverà non senza profitto conoscitivo - sugli effetti della funzione specificamente narrativa soggiacente alla stesura dei «casi clinici» e di taluni altri scritti freudiani, sino a quel Mosé che egli stesso ebbe a definire un «romanzo storico». E, tanto più, nul21

,la toglie a quelle più generali qualità di scrittura che la motivazione del Premio Goethe ha a suo tempo sottolineato - e che si rivelano già in talune delle lettere alla fidanzata per poi assumere una più che mai specifica determinazione in scritti come Caducità, o Un disturbo di memoria sull'Acropoli, ove, come nelle lettere, Freud parla e scrive di se stesso in prima persona. Ma la nostra tematica, Freud e la letteratura, richiede un ulteriore capitolo. Si sa che Freud in molte occasioni ha scritto di non volersi inoltrare nel «mistero» della creazione poetica. Eppure alla delucidazione di tale «mistero» egli ha dato un contributo che sempre più ampiamente gli viene riconosciuto, anticipando, o meglio «aprendo la strada», come ha sottolineato a suo tempo Lacan nel suo «L'istanza della lettera nell'inconscio» (Ecrits, p. 513) alle formalizzazioni della linguistica e il là che ad essa ha dato l'opera di Ferdinand de Saussure. Un tema, anch'esso, sul quale non poco si è scritto negli ultimi anni, e che qui si riprende, ancora una volta, solo in guisa di ulteriore esemplificazione. 3. Freud e la lettera a) Gisela. Nella «Premessa» al caso di Dora, Freud scrive tra l'altro: «Tutti i casi clinici che avrò eventualmente occasione di pubblicare saranno protetti con analoghe garanzie di segretezza, anche se, per qualche motivo, l'utilizzazione del mio materiale dovrà subire una limitazione davvero straordinaria» (4, 307). Una riprova di questo scrupolo deontologico, e soprattutto delle «limitazioni» che esso comporta, ce la offre il modo con cui nel caso clinico d�ll'uomo dei topi viene riferita la singolare «formula magica» adlottata dal suo pa22

ziente «contro tutte le tentazioni». «Non posso riferire questa parola per motivi che appariranno subito chiari», leggiamo. E il motivo di fondo è che l'espressione «costituiva di fatto un anagramma del nome della donna amata»: nelle sue fantasie masturbatorie il paziente, con la sua formula magica, che conteneva una S e si concludeva con un amen «aveva messo il proprio Samen (seme) in contatto con la donna amata» (6,58). Ma, negli appunti presi da lui seduta per seduta, e destinati a rimaner riservati, o ad essere addirittura distrutti, Freud esplicita, in data 21 novembre [1907] (ma riferendosi certamente a qualche giorno prima, come risulta dal contesto; e soprattutto dal fatto che già il 20 novembre Freud ne aveva dato notizia nella seduta della società del mercoledì)'5 tanto la «preghiera» - come ivi, e negli appunti, la chiama - del paziente, che «il nome dell'amata, Gisela». Tale parola era stata in un primo tempo (11 ottobre) provvisoriamente trascritta da Freud con «qualcosa come Hapeltsamen», ma senza che egli fosse del tutto convinto che sanasse davvero così, tanto da aggiungere «(chiedere precisazioni)», e da sottolineare «egli [la] pronuncia tanto rapidamente che nulla può frammettervisi»; ma non si può neanche escludere che il paziente ingarbugliasse volutamente le lettere da cui era composta. Ma nella già ricordata riunione del mercoledì 20 novembre, Freud - che aveva illustrato il caso dell'uomo dei topi nella stessa sede il 30 ottobre («Inizio di un caso clinico» (pp. 231-241) - ma sulla «preghiera» del suo paziente non si era soffermato (altrimenti non si sarebbe ripetuto) - interviene su una relazione di Stekel. Il verbale suona così: «Il nevrotico· ossessivo che già conosciamo dalla sua analisi, si è costruito una propria tecnica per preghiere efficaci; affinché non vengano disturbate o annullate dalla sua contraddizione ossessiva, egli abbrevia quanto più possibile le sue preghiere (spesso solo una parola, la prima) e 23

quindi le isola (per impedire che il successivo pensiero si allacci ad esse). Così in seguito egli ha preso di ogni preghiera solo le lettere iniziali costruendone una breve parola (esorcistica). Questa formula che impiega quando comincia a masturbarsi è: Glej(i) samen. Gl, egli dice, deriva dalla parola iniziale di una preghiera: Glii.ckliche (=beglii.cke) [felici ( = rendi felici)]; e viene dalla parola alle [tutti]; j (i) da jetzt e immer [ora e sempre]; amen è la formula finale. Egli ha dimenticato l'origine della e e della s. Ora, se ne può indovinare che la donna da lui corteggiata e di cui finora non ha detto il nome, si chiama Gisela: le preghiere formano un anagramma del nome dell'amata, Gisela». Il testo degli «Appunti», lievemente diverso, contiene tuttavia, in più, il riconoscimento, da parte del paziente, della validità di questa interpretazione: tanto è vero che talvolta «la formula in effetti gli si è presentata secondariamente come Giselamen», con riferimento del tutto esplicito, al nome della donna (6,94). b) La danza della lettera. Se, per fornire un esempio specifico dell'attenzione e del rilievo attribuito da Freud alla lettera e alle sue combinazioni, spostamenti e trasmutazioni, ho fatto ricorso all'«uomo dei topi», è perché qui, in Glej(i)samen, le manipolazioni linguistiche del suo paziente si presentano particolarmente complesse. Da un lato, infatti, questi estende sino alle «lettere» quella tecnica dell'«isolare» che Freud ha indicato come propria della nevrosi ossessiva in Inibizione, sintomo e angoscia (10, 269/270). Dall'altro sostituisce con una formula verbale ripetitiva una di quelle «azioni motorie che obbediscono a un intento magico» su cui si insiste nelle pagine precedenti di questo saggio freudiano. Infine, «prelevando», per così dire, queste singole lettere (o gruppi di lettere: gl) dal contesto della «preghiera» pronunziata - come esorcisma? - nel corso della masturbazione, per costruire, al limite, a quan24

to risulta, tra coscienza e rimozione, e cioè in un quadro di ambiguità, l'anagramma di Gisela-samen: «unisce il suo Samen al corpo dell'amata, cioè, per dirla rozzamente, si masturba pensando a lei» (6.94). Ci troviamo perciò in presenza di una molteciplità di operazioni verbali (parole e lettere) che rimandano a quanto Freud osserva (e riprenderà in seguito più ampiamente il tema nel Motto di spirito) nella Interpretazione dei sogni (3, 313). «In alcuni casi, lo scambio di espressione serve alla condensazione del sogno in modo ancora più rapido, facendo cioè trovare una struttura verbale che, in quanto ambigua, permette a più di un pensiero del sogno di esprimersi. Tutto il campo dei giochi di parole viene così posto al servizio del lavoro onirico. Non ci deve meravigliare la parte che tocca alla parola nella formazione del sogno. Come punto nodale di molteplici rappresentazioni, la parola è, per così dire, un polisenso predestinato e le nevrosi (rappresentazioni ossessive, fobie) si servono, non meno arditamente del sogno, dei vantaggi che la parola offre in questo modo per la condensazione e il travestimento». E subito prima, nel periodo che precede immediatamente, ha avvicinato questi procedimenti verbali - sottolineando la funzione distributiva e selezionatrice a un tempo della rima - al modo di operare dei poeti'5 • Freud stesso rimanda, nell'edizione del 1909 della Traumdeutung al suo Motto di spirito. Qui, sin dalle prime pagine, nel capitolo dedicato alla «Dimenticanza dei nomi propri» riprende e sviluppa quanto aveva scritto, nel 1898 nell'articolo Meccanismo psichico della dimenticanza e il relativo schema dei processi di ricostruzione del nome dimenticato, che qui riportiamo, dato che in esso, più che in un lungo discorso, sono evidenziati i passaggi sillabico-fonici, nonché le associazioni che portano al rinvenimento finale di «Signorelli» e viene illustrato « il nesso che si è stabilito tra il nome cercato e l'argomento rimosso (morte e sessualità)». 25

Signor le11i !lf e (Herr = Signore) Sigaore,I che ho da dire? ecc. Morte e sessualità (Pensieri � Trafoi � rim? «La sostituzione di Signor con Herr è avvenuta - commenta ancora Freud - come se si fosse operato uno spostamento entro i nomi collegati di Herzegovina e Bosnia, senza riguardo al senso né alla delimitazione acustica delle sillabe. I nomi insomma sono stati trattati in questo processo in maniera analoga agli ideogrammi di una frase da trasformarsi in rebus». Altrove ancora (L'interpretazione dei sogni, 3, 458) leggiamo; «Volgendomi alla ricerca di un qualche cosa che sia paragonabile alla struttura definitiva del sogno, quale risulta dalla cooperazione del pensiero normale, non trovo altro che quelle enigmatiche iscrizioni, con cui i «Fliegende Blatter» hanno divertito per tanto tempo i lettori. Una certa frase, di àmbito dialettale per amore di contrasto, e di significato il più scurrile possibile, deve far credere di racchiudere un'iscrizione latina. A questo scopo le lettere 26

delle parole vengono strappate alla loro connessione sillabica e disposte in un nuovo ordine. Qua e là si forma un'autentica parola latina, in altri punti crediamo di trovarci di fronte ad abbreviazioni di parole latine e in altri punti ancora dell'iscrizione, l'apparenza di parti disgregate o di lacune ci maschera la mancanza di significato delle lettere isolate. Se non vogliamo cader vittima dello scherzo, dobbiamo rinunciare a qualsiasi requisito di iscrizione, di prendere in considerazione le lettere e, senza curarci dell'ordine prestabilito, comporle in parole della nostra madre lingua». Si potrebbe continuare ancora a lungo con citazioni analoghe dai testi freudiani. Ma, a questo punto, appare sufficiente sottolineare che: I) «I pensieri onirici che svolgiamo per primi nell'analisi ci colpiscono infatti spesso per la loro insolita veste; non sembrano dati nelle sobrie forme linguistiche di cui il nostro pensiero si serve di preferenza, ma sono piuttosto esposti in modo simbolico, per mezzo di paragoni, e metafore, come in un'immaginosa lingua poetica» (Il sogno, 4, 26-27); II) che a tali procedimenti si accompagnano, con altrettanta e forse maggiore frequenza «scambi» linguistici al livello della sillaba e della lettera: omofonie, assonanze, iterazioni, bisticci, isotopie, ossimori, paronomasie, allitterazioni, anagrammi, ecc. Aggiungiamo - tra parentesi - che Freud coglie e sottolinea la stretta parentela tra questi procedimenti e quelli dell'enigmistica, sì da lasciare aperta, ulteriormente, la questione di talune similarità tra motto di spirito, sogno, gioco, poesia, da un lato, enigmistica, appunto, dall'altro; tanto da far desiderare un'indagine su quest'ultima che, analogamente a quella sul Witz ci dia conto della modalità specifica del «piacere» che da essa deriviamo. Tra le varie forme in questi interventi sulla parola e sulla sua struttura al livello fonico e morfematico, l'anagramma, decomponendo la parola nei singoli morfemi e ricomponendoli secondo un ordine del tutto diverso, ma 27

non casuale, gioca un ruolo, per così dire, estremo. Da quarido Jean Starobinski ha tratto alla luce le ricerche di De Saussure sugli anagrammi e ipogrammi, che ampliano l'anagramma dalla singola parola all'intero enunziato, l'attenzione degli studiosi del testo poetico vi si è particolar- - mente rivolta, con implicazioni che ne sottolineano l'effetto di comunicazione transcontestuale, o, in altri termini, l'instaurarsi di una rete di «ossessioni inconsce, che si rea- � lizzano mediante il dominio della lingua sull'autore»17. Gli esempi (citati da Cesare Segre) di disseminazione anagrammatica della parola hystérie nel verso che conclude Ue sentls ma gorge Serrée per la main TERrlblE de l'hystérie) la poesia del Vieux saltimbanque di Baudelaire, o dell'anagramma Silvia/salivi con cui, come ha individuato e commentato Stefano Agosti, si apre e si chiude la prima strofa del leopardiano A Silvia, costituiscono modelli di questa pregnanza significativa e delle maniere del suo occultamento/disvelamento1 •. 4. Il poeta e la lettera: una glossa Alcuni anni fa, nel 1976,19 mi accadde, su questa stessa rivista, di arzigogolare sulla r ariostesca soffermandomi sull'ottava che apre il poema è sul suo primo verso in particolare. Accennavo anche, sul finale, all'ipotesi che la passione che mi. lega, sin dall'inizio dell'adolescenza a questo poema e al suo autore avesse anche a che fare con un anagramma che direttamente mi coinvolge: Mario Spinella, il mio nome e l'inizale del mio cognome contengono, e nello stesso ordine, ben cinque delle sette lettere da cui è composto il cognome di Ariosto. E mi riferivo, in esergo, a un'osservazione critica di Freud sugli autori delle «patografie», contenuta nel suo scritto su Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (6, 269), piegandola tuttavia a un significato più generale: «Spesso l'hanno fatto oggetto dei loro 28

studi perché, sin dal princ1p10, per motivi attinenti alla loro vita emotiva personale, hanno sentito per lui una particolare affezione»: e quanto ognuno di noi sia «affetto» dal proprio nome la psicoanalisi ce lo ha insegnato da tempo. Mi soffermavo poi sulla particolare frequenza delle ricorrenze della lettera r nell'ottava (27 volte su 234 lettere complessive), e sulla sua prevalente collocazione in posizione vocale + r (18 volte e con tutte le vocali, ma anche qui prevalenza del gruppo OR: 7 ricorrenze). Notavo, sulla scorta delle indicazioni fonologiche di Ivan F6nagy, l'alternanza della r liquida- (lettera della fluidità, della dolcezza, dell'armonia) e della r apicale, lettera, invece, dell'aggressività, della collera, e, specie se «arrotata», vera e propria «performance simbolica del combattimento»20 , che fa esatto riscontro fonetico già nel quasi anagramma arme/amori, e poi in tutta l'ottava _alle due componenti arturiane (amori) e carolingie (arme) del poema. Sottolineavo infine tutta la pregnanza della variante del 1532 Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori rispetto a Di donne e cavallier li antiqui amori che trasforma il primo verso del poema in un chiasmo che, includendo «i cavallier, l'arme» entro «Le donne...gli amori», testimonia - credo - non solo di una semplice giustapposizione e fusionè dei temi dei due cicli, ma della scelta ariostesca per quello arturiano, amoroso. Accennavo, ancora, a un possibile funzione anagrammatica del gruppo AR di ARme, nuovamente introdotto, con le lettere iniziali del cognome dell'autore. Sul piano dell'intertestualità21 tra le varie possibili fonti dirette del verso (Virgilio, Dante, Boiardo...) privilegiavo, per le ricorrenze foniche della lettera, quella virgiliana. 29

Infine indicavo, nel già ricordato prevalere del gruppo OR, possibili risonanze con la moria (follia) amorosa di Orlando (cui il poeta, nell'ottava successiva, paragonava la propria - «in furore e mattoi, ... «tal quasi m'ha fatto» - per Alessandra Benucci, la donna amata); e con la morte, che troviamo nel settimo verso. Aggiungerei oggi, glossando, che il richiamo specifico a Virgilio mi sembra rafforzato ulteriormente dalla considerazione del ricorrere, proprio nel primo verso dell'Eneide («Arma virumque cano Troiae qui primus ab oris) della nostra lettera r. Una considerazione che forse induce a prendere in esame talune affinità più di insieme: la µoi.pa., il destino che contrappone all'amore la guerra; il duello, in posizione significativamente determinante, tra Enea e Turno da una parte, Ruggero e Rodomonte dall'altra; la stessa follia amorosa, pur con diversi esiti, della regina Didone e del paladino Orlando per la perdita della persona amata; la stretta analogia tra i versi che chiudono i due poemi. Quanto al risaputo riferirsi del titolo del poema all'Hercules furens di Seneca, non si tratta solo, mi sembra, di un semplice calco di traduzione; ma di nuovo di un'esibizione ulteriore di valori fonici, determinati dalla r preceduta da vocale: hERcules fURens si riflette in ORlando fURioso, mentre la doppia accentuazione piana anticipa l'uso costante, in rima, dell'ottava ariostesca, elemento non ultimo della sua «fluidità», «scorrevolezza». E si noti anche il ritorno della OR (e del suo rovescio) subito all'inizio della seconda ottava, quasi una ripresa, dopo il bianco della pausa, dell'effetto fonico: «DiRÙ d'ORlando in un medesmo tratto», che fa eco immediata (e invertita) con l'ultimo verso dell'ottava precedente, ove leggiamo: «sopra re Carlo imperatOR ROmano». Aggiungerei ancora la singolarità, rafforzata dalle consonanze ideali e foniche («che 'l poco ingengo ad or ad or mi lima»), dell'iperbato (qui come figura del discorso, e non solo della frase) che introduce in prima persona l'auto30

re e i suoi affetti. E aggiungerei infine, con le dovute cautele22, che oltre al gruppo iniziale AR del primo verso, di cui si è detto, troviamo IO nel secondo verso, S inizale. nel quinto, TO in finale e in rima, e nel sesto: AR-IO-S-TO: un possibile anagramma della stessa tipologia di quelli individuati da De Saussure. Abbiamo dunque, in un implicit che si segnala proprio per l'assoluta assenza di quei tratti metaforici e metonimici variamente implicati e implicanti nel discorso poetico, tutta una «ridonanza» di elementi che, per dirlo con Agosti23 fanno «capo alla materialità (e matericità) del linguaggio, della violenza eversiva del significante, alla sua 'logica'». Una matericità che qui non solo si rivela al livello degli effetti del ritmo, della rima di fine verso, della forma strofica, ma trae intensificazione dalla presenza delle forme anagrammatiche, dalle assonanze e omofonie interne («amori... furo... mare...ire... lor re... morte», ecc.), da allitterazioni (AFRica, FRAncia, AGRamante: il primo e il terzo a inizio di verso, tutte maiuscole!), e particolarmente, come si è detto, dalla ricorrenza significativa della lettera r. Insieme con queste strutture del significante mi sembra infine che vada sottolineato l'intreccio delle «figure di pensiero»24 : il chiasmo del primo verso, l'iperbato della seconda ottava, entrambi generatori di significati a loro volta strutturanti dell'intero movimento del Furioso. I due piani: piano dei fonemi e del loro gioco, piano delle figure di pensiero con la loro «enigmatica» condensazione di senso, instaurano un campo di continuità tra il fare poetico da un lato, il linguaggio del sogno, il sintomo, il motto di spirito, le loro «relazioni con l'inconscio» dall'altro, ampliando così la capacità di meglio intendere, scientificamente, gli effetti di «verità» della «poesia». Mario Spinella 31

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