Il piccolo Hans - anno XII - n. 48 - ott./dic. 1985

Forse il vero problema - questione aperta da tutto il romanticismo - è quello di riportare insieme alla scena il suo spettatore. Ma questo non è possibile, non in quel momento (solo ai grandi sonetti gloriosi riuscirà, e non sul piano della descrizione). Hopkins inverte la direzione, prende quanta più distanza può: i suoi appunti sulla natura, scritti lontano dall'immediatezza del ricordo, sono preziosi ma quasi al limite dell'illeggibile, almeno finché non interviene un minimo passo narrativo, una qualche inclusione del quadro enunciativo. I suoi stati di natura sono raggelati, sbalzati dietro uno sfondo che li isola, vere silhouettes ritagliate dal complesso delle cose: «non per effetto della luce, ma per effetto dell'oscurità più intensa dello sfondo». Come «quegli alberi 'disegnati' sul fiume piatto, giù in basso»'4 • La descrizione, con le sue pieghettature in dettaglio, con la sua analitica dell'inanimato, è ormai solo natura morta. La poesia di Hopkins esce infine come un guerriero vittorioso da questo periodo. Non più sfondi marmorizzanti, ma l'animarsi di ogni cosa sotto l'effetto di uno stillante incremento (49): Dio è entrato nel quadro, la visione si è scoperchiata per chi può facilmente vedere scena e spettatore nell'energia che promana da Lui su tutto. C'è una nuova posizione della .scrittura dietro la straboccante riuscita dei sonetti della natura e di Dio. Un primo nucleo è stato individuato da Miller nello scritto giovanile su «Parmenide»25 : Hopkins di fronte alla profondità di uno inscape, al senso fulmineo del suo possedere la cosa, sente che «niente è più pregnante e più calzante con la verità di un semplice sì e è». C'è in questa lettura dell'essere parmenideo un permearsi di natura e linguaggio che Hopkins perfeziona con la conversione al cattolicesimo, e la dottrina del Cristo incarnato ed eucaristico. La teoria della nuova poesia si trova però tutta nelle 74

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