Il piccolo Hans - anno XII - n. 48 - ott./dic. 1985

Ma PUN, oltre che essere la microsequenza iniziale di «punish» o intermedia di «impunity», può inalberare un significato proprio, autonomo: «pun», sostantivo o verbo («to pun»), designa qualcosa di molto familiare non solo alla letteratura ma al costume inglese: il gioco di parole, il qui-pro-quo, l'arguzia verbale, insomma il Witz in una forma determinata. Lascio da una parte qualsiasi digressione sul pun e il suo impiego, per cui si ha abbondanza di contributi specialistici; e naturalmente su quel maestro in tale campo che è Shakespeare. Ma appunto, il pun può fare vedere anche soltanto la coda, come il diavolo. Nel terzo atto del King Lear, quando Cornwall fa malignamente saltare fuori dal1'orbita anche il secondo occhio di Gloucester, la battuta: «Out, vile jelly», Via, vile gelatina! è nella sua struttura ultima un Witz, così contratto e veloce da riuscire quasi impercettibile, specie se lo si leghi al seguito: «Were is thy lustre now?», con l'ambiguo valore di «lustre», fra gloria, splendore e dunque anche vista. Del resto, per «Metzengerstein», racconto forse trascurato, la battuta si situa addirittura fuori dalla soglia - in epigrafe: la frase di Lutero «Pestis eram vivus, moriens tua mors ero» è a buon diritto un'agudeza, esaltata dal chiasmo. «Metzengerstein» andrebbe tutto riletto, intanto per scoprirvi, dentro la favola anche questa di vendetta ma supernaturale, l'iscrizione dell'omosessualità. Per riprendere con «The cask of Amontillado». Avanzo temporaneamente questa ipotesi di lavoro. Il trigramma PUN non solo è il significante che, riassumendo il significato complessivo del racconto («punire impunemente»), ne configura la cellula generativa e dunque il primo motore del processo di significazione; ma inserisce nel racconto un'altra interpretazione, o lettura, di tale processo - insomma influisce tanto sull'asse verbale che sull'asse emozionale o se si preferisca ideologico. 193

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