l’ordine civile - anno I - n. 11 - 1 dicembre 1959

Rèaltà di Cesàre La pigrizia dei cristiani si dispone sostanzialmente di buon grado - anche se con qualche formale impuntatura dovuta, più o meno consciamente, a ragioni di prestigio - ad accettare se non le soluzioni per lo meno i problemi così come vengono proposti dalla predominante « cultura laica »~ Così, si accetta tranquillamente il problema dei « rap– porti fra Stato e Chiesa », o anche la soluzione della « libera Chiesa in lihero Stato )>. E' innegabile che queste formule si applichino a una realtà effettiva e indiehino contenuti che non si possono ignorare. Ma un primo slittamento sta proprio nel– l'accettare, insieme al contenuto, la formula, il linguaggio. « Os loquitur ex abundantia cordis »: la parola rivela molto più di quanto è contenuto nel suo significato letterale, e il l_inguaggio ~rivela molto più di quanto è contenuto nella con– catenazione puramente logica dei suoi termini. Accettare un linguaggio significa_ accettare una mentalità, una cultura, e la impostazione di un problema vincola -a priorj le possibilità di soluzione. Nel proporre la questione dei « rapporti fra Stato e Chie– sa », i termini del rapporto non sono, cristianamente, con– frontabili in modo diretto. Non sono omogenei, stanno ·su due piani diversi. Lo Stato appartiene alle potenze del vec– chio tempo che è destinato a scomparire dinnanzi all'avvento dei nuovi cieli e delle nuove terre. La formula « rapporti fra Stato e Chiesa » tende insen~ibilmente a limitare il problema alle contingenze, a vederlo come ·un problema di convivenza in relazione a questa o a quella situazione storica. Mentre il problema ha dimensioni e profondità enormemente più gran– di, ed è insieme all'origine e al centro della fede cristiana. « Per causa mia sarete condotti davanti ai governatori e ai re per rendermi testimonianza davanti a loro e davanti ai popoli » ( Matteo, 10-18). Da una parte S. Paolo ammonisce « ciascuno sia sottomesso alle autorità » ( Rom, 13-1), e dal– l'altra l'Apocalisse ci mostra lo Stato sotto l'aspetto della be– stia che sale dall'abisso: in entrambi i casi ci si riferisce allo stesso Stato romano. Soltanto attraverso una chiara presa di coscienza dei rapporti fra « Dio » e « Cesare », fra « Regno >; e << mondo »; soltanto a partire da questo linguaggio cristiano che ci manifesta tutta l'estensione del problema dei rapporti fra i due ordini, lo spirituale e il temporale, sarà possibile esaminare e impostare in modo adeguato il problema dei « rapporti fra Stato e Chiesa ». Problema che, dal punto di vista cristiano, è privo di soluzioni se viene amputato della fondamentale dimensione che lo inserisce nel centro vivo del– la rivelazione di Cristo. Restringere il problema al piano della politica, o al piano del diritto, significa negarlo sul piano della religione, significa passare dal piano del « Regno ». che viene e del « mondo >> che passa al piano neutro dei « liberi >> istituti che stabiliscono regole di coesistenza ( dove il termine « libero » è usato in un senso assolutamente diverso da quello in cui è usato nell'espressione evangelica « la verità vi farà liberi »). Un problema relativo alle regole di convivenza fra la Chiesa e gli Stati esiste certamente, ma è incluso in un pro– blema infinitamente più g-rave, per il quale i cristiani sembra vadano perdendo ogni sensibilità via via che ne acquistano in relazione al problema particolare. Per citare un 'opera recentissima, Heinrich Rommen pro– spetta, nel suo libro su « Lo Stato nel pensiero cattolico » ( Giuffrè, 1959), una visione dello Stato come « organismo morale ». Tale visione si colloca nell'ambito di una sintesi fra tradizione scolastica e pensiero romantico, dove non si trova Biblioteca·Gino Bianco e realtà di, Dio di Giosuè Gorinzi alcuna diffic_oltà ad inquadrare lo Stato in una concezione metafisica vitalistico-organica - contrapposta a una conce– zione meccanico-individualistica - che sarebbe senz'altro la metafisica racchiusa nel cristianesimo. Il parallelo stabilito dal 1Rommen fra lo Stato come ·« organismo :morale » e g1i organismi biologici ( distinguendo poi tra finalismo normativo e finalismo ,di natura) apre la strada verso una concezione evoluzionistica di chiaro sapore romantico, che, pur non pro– ponendo necessariamente tesi incompatibili, palesa un orienta– mento, un tono di fondo, un modo di sentire la storia troppo diversi da quelli che caratterizzano il messaggio di Cristo. Il linguaggio tradisce le intenzioni. Ammesso che il Rommen sfugga alle tentazioni del temporalismo e dell'integrismo, sfug– ge certamente per la tangente di un moralismo che ben poco conserva della tensione verso il Regno di Dio che è la sostan– za stessa del cristianesimo. Abituati co1ne siamo a una civiltà produttivistica, dove per ogni richiesta esiste u·n prodotto capace di soddisfarla, e quindi per ogni domanda una risposta, siamo piuttosto restii ad accettare un discorso fatto soltanto di domande. Siamo, paradossalmente, assai più disposti ad accettare i discorsi fatti soltanto di risposte, magari di risposte chiare e semplici, con– formi al « buon senso », sciorinate disinvoltamente in un arti– coletto. Per noi cattolici, poi, c'è la grossa tentazione di con– fondere il possesso della verità ( di questa verità che è, in noi, ancora adombrata e misteriosa, in via di farsi pienezza di luce) con l'assenza di rischio. Un'altra condizione parados– sale, perchè dovremmo sa pere che solo chi perde la sua anima la salverà, e che la suprema salvezza è di là dal supremo rischio. Per costruire delle vere risposte è necessario prima costruirsi un vero linguaggio; solo un linguaggio cristiano, che . abiamo in gran parte perduto, può dare risposte davvero cristiane. Se non ci rifiutiamo alla visione di due ordini, quello spirituale e quello temporale, tanto confusi da negarsi entram• bi nella loro autenticità, o tanto separati da restare entrambi incomprensibili, per accogliere la visione cristiana di un rap– porto necessariamente drammatico tra la potenza che deve ma– nifestarsi e le potenze che devono scomparire, i~sensibilmente dimentichiamo quella verità di cui continuiamo a professare le formule. _La realtà del mondo e di ciò che è nel mondo è, anzitutto, una realtà il cui destino è di scomparire; il suo rapporto con la realtà del .Regno è, dunque, la « provvisorie– tà ». Una provvisorietà di cui è arduo e necessario stabilire il perchè e il senso; una condizione provvisoria in cui lo Stato può configurarsi come autorità voluta da Dio e come bestia apocalittica ascendente dall'abisso. In ogni caso, una condizione che del provvisorio· ha tutta· la tragicità e tutta· l'an·goscia. E' molto •probabile che queHa eultura laica moderna ohe troppi cristiani cercano ora di accogliere e di comprendere, mutuandone il linguaggio e le impostazioni, abbia ormai un vivissimo anche se oscuro bisogno del linguaggio e delle im– postazioni che stanno nell'intimo della verità cristiana, non deturpate dalle stanchezze che i secoli hanno accumulato. For– s.e, per il drammatico confronto fra la realtà di Dio e la realtà di Cesare, fra il Regno e il mondo, i cuori degli uomini, e proprio degli uomini più lontani, sono preparati. Esiste in luoghi lontani una speranza ( o una disperazion.e) di cui non si è mai visto l'eguale in Israele. Noi dobbiamo tentare un discorso, leggero e nuovo, per quella.

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