l’ordine civile - anno I - n. 11 - 1 dicembre 1959

l'ordine civile E veniamo ai paesi del socialismo democratico ( al quale gruppo fa riferimento, in fondo, anche l'esperimento ingle– se su citato). In Norvegia ed in Svezia, paesi· che da molti anni sono retti da un governo laburista, i partiti dominanti ed i sindacati non hanno troppo favorito lo sviluppo dei Con• sigli di azienda (Svezia) e dei Comitati di produzione (Nor– vegia), a quanto pare per il timore che i particolarismi azien– dali turbassero i piani economici e sconvolgessero l'equilibrio dei salari; le speranze, pur ventilate all'inizio, di uno svi– luppo verso la gestione sociale delle aziende, sono tenute . in sordina. Passiamo oltre l'ex cortina di ferro. I Consigli polacchi, attorno ai quali si erano raccolte tante speranze nel '56, al · tempo della « r~volta » vennero naturalmente ac~usati di essere causa di disordine economico e politico. E con l'isti– tuzione delle Conferenze dell'autogoverno operaio, furono ricondotti sotto la sudditanza di quello stesso pa1·tito comu– nista, contro il quale erano stati strumento di opposizione. Anche in Jugoslavia, dove l'esperimento è stato portato tanto in là, che si può forse propriamente parlare ormai di « gestione sociale », si sono lamentati gli inconvenienti già incontrati nei paesi laburisti: particolarismi aziendali peri– eolosi per il successo dei piani economici, con ripercussioni immediate sui prezzi, e, per giunta, fomentazione di devia– zionismo ideologico. In Russia, infine, le Conferenze di pro– duzione gestiscono soltanto i servizi assistenziali e comuni– tari, ma sembrano esercitare un'utile funzione di controllo sull'attività della burocrazia aziendale. A tutt'oggi, sembrano del tutto dominati dal sindacato e dal partito. Quali conclusioni sono suggerite dal quadro che io ho cercato -di abbozzare? Apparentemente, in tutti i -paesi esami– nati, nelle tre diverse situazioni del capitalismo, del labu– rismo e del comunismo ( usiamo questi tre termini nel .senso definito dagli esempi citati), e malgrado la varietà delle for– mule di partecipazione usate, si è alzata una critica comune: la partecipazione porterebbe al particolarismo aziendale, disturbando ovviamente tutti i progetti di azione comune, si tratti di pianificazione economica ( paesi laburisti e comuni– sti), o di azione sindacale-politica (paesi di tutte e tre le situazioni). Si può aggiungere che gli .organi della partecipa– zione ( per esempio, Consigli d'impresa tedeschi, Comitati di consultazione mista inglesi, Consigli di azienda polacchi) hanno una inerente instabilità ideologico-poljtica; in realtà essi sono contesi tra le grandi forze id ologico-politiche in lotta (per esempio, Germania), o sono dominati dall'unica esistent_e ( per esempio, Polonia, Russia) e utilizzati per fini di controllo interno. A quest'ulti1no proposito si può aggiun– gere che essi sembrano utile strumento di « integrazione » aziendale e, quindi, nazionale, perchè annullano l'opposizio– ne operaia per mez.zo del processo di decisione co1nune e perchè possono dare falso sfogo ai bisogni di partecipazione degli operai. In questo senso vanno interpretati non solo le esperienze russe e polacche, ma anche quelle americane e. ancor più, quelle .tedesche. I Consigli d'amministrazione tede– schi con rappresentanti operai hanno in generale presentato decisioni comuni alle maestranze, sicchè ·queste si sono tro– vate disorganizzate, impreparate, e psicologicamente non in grado di opporsi: così si sono inserite disciplinatamente nel– la risoi:ta struttura economica e sociale della Germania del dopoguerra ( ma questa loro disciplinata collaborazione si spiega in realtà con tutta la storia dell'industria tedesca e della Germania moderna). In conclusione, dobbiamo rispondere che la partecipa– zione non ha mai portato ( se non. in momenti rivoluzionari, come nel 1956, in Polonia) una minaccia all'ordine esistente, e, in generale, non ha mai modificato la distribuzione del potere sul piano istituzionale; .anzi, è spesso servita come stru– mento per ritardare l'avanzata ideologica, economica e poli– ti.ca dei ceti nuovi. Dico subito, però, che vi sono altri van– taggi di cui dirò discutendo il prossimo punto ( che è il pri– mo da noi elencato). I vari organi di consultazione, di cogestione e di gestio– ne sociale hanno suscitato veramente la partecipazione dei lavoratori? E prima di tutto, sono stati proprio gli operai ad entrare in questi organismi, o dei loro rappresentanti che apartenevano ad altri ceti? Tutti i dati in nostro possesso sembrano indicare che la seconda è la risposta giusta. L'inchiesta dell'Istituto sinda– cale di scienza economica sulla M itbestimmung ha dimostra- BibliotecaGino Bianco pag. 5 to che i rappresentanti operai erano 1n generale economisti, giuristi, etc.; insomma, degli intellettuali e -dei borghesi che conducevano lo stesso genere di vita dei dirigenti industriali. L'inchiesta dell'Accademia delle scienze di Varsavia trovò che nei consigli operai da essa studiati tra il 1956 e il 1958 gli operai erano in minoranza, ed erano quasi assenti dai Comitati direttivi dei consigli. D'altra parte, tanto in Svezia che in Inghilterra una delle difficoltà più grosse allo sviluppo della partecipazione operaia venne dal disinteresse dall'in– capacità ,de,gli operai di ·p·o,rtare un contributo effettivo :alla discussione: per cui nacquero· in entrambi i paesi corsi per la prepar.azione degli operai ( e anche -degli industriali, che ne avevano bisogno in un altro senso) alle rispettive forme di partecipazione. Più in generale, sembra che la massa degli operai si sia sempre e dappertutto disinteressata di queste cose - tran– ne nei momenti rivoluzionari, o quasi ( per esempio, in Po– lonia nel 1956). Risultati analoghi danno altri studi, per esempio quello polacco già citato, ( che vede l'approvazione per i consigli operai" decrescere rapidamente dal 1950 al 1958: ma bisogna tener conto della involuzione politica) e lo studio norvegese di H. Gullivag et alii ( dove, tra l'altro, un'alta percentuale degli intervistati non sa cosa faccia il Comitato di produttività mentre il 40 per cento di loro pen– sa che « n~n faccia niente del tutto »). Dunque sembra che questi tentativi di portare gli operai a partecipare attivamente alla vita dell'azienda non abbiano portato i risultati- voluti in nessuna delle tre situazioni. Ui rincalzo vanno ricordati gli studi americani che tendono a dimostrare l'esistenza di tipi cli personalità che rifuggono dalle responsabilità. Tuttavia, queste conclusioni vanno esaminate attenta– mente. Gli studi e l'esperienza inducono infatti a ritenere che, per quanto alta possa essere la percentuale <li coloro che non desiderano veramente il peso delle responsabilità, ( anche il Tavistock lnstitute di Londra ha messo in rilievo questo fatto), la grande maggioranza degli uo1nini normali desidera qualche forma di partecipazione, se ha fiducia che sia una cosa seria e se ha delle ragioni di scontento e delli ri-vendicazioni da avanzare ( il disinteresse degli operai sve– desi potrebbe essere legato anche all'assenza di quest'ulti– mo stimolo). Ed eccoci all'ultimo punto. Quali risultati pratici hanno prodotto •questi tentativi? Per rispondere a questa domanda occorre prima tracciare una grossolana divisione tra i risul– tati che si riferiscono primariamente alla produzione e quelli che si riferiscono primariamente alla struttur.a sociale della azienda. Devo confessare che, per quel che si riferisce ai risultati produttivi, non sono in grado di rilevare una tendenza che, come per i punti precedenti, valga in tem·pi diversi nelle tre situazioni esaminate - e questo anche perchè la diversità dei compiti e della struttura <legli organismi di partecipa– zione fa sentire in questa sede la sua importanza. Sembra comunque che nella maggior parte dei paesi citati i cons.igli e le indicazioni forniti dagli operai siano stati utili per la produzione ( e. sulle condizioni affinèhè la partecipazione rie• sca efficace sul piano produttivo, vedi molto gli studi ameri– cani degli scolari di Lewin e di altri psicosociologi). Circa i risultati rilevanti per la struttura sociale della azienda, di nuovo gli studi americani, inglesi e scandinavi· mi vengono in aiuto; sono pochi, ma non ho sottomano rna-· teriale di altri paesi su questo punto, che mi sembra di importanza primaria. Per esempio, uno studio di Fue,rsten– berg sul materjale di un Comitato .di consultazione mista in Inghilterra, per un periodo di quattro anni mette in luce, chiaramente lo sforzo dei rappresentanti operai per modifica! re la struttura sociale dell'azienda. Secondo Feurstenberg, il loro primo obiettivo era quello di essere riconosciuti come: eguali, il che significa che ogni atto che implicasse o sem– brasse implicare superiorità dei dirigenti era combattuto. 11 · secondo obiettivo era l'aver complete informazioni sulla vita della fabbrica, perchè altrimenti si sentivano -esclusi e infe– riori. Il terzo obiettivo era quello di indurre i dirigenti a compiere certe azioni anzichè altre, grazie al potere loro riservato di far intervenire l'istanza superiore in caso di « differenza » tra le due parti in sede di Comitato : in que– sto modo la consultazione si trasformava, sino ad un certo punto almeno, in decisione comune. • \

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