donne chiesa mondo - n. 25 - luglio 2014

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne Il romanzo eremitico di Adriana Zarri Teologia totale di G IULIA G ALEOTTI «U n giorno, tra queste pagine, è caduta inattesa la nar- razione di un miracolo; e mi sta anche bene perché in esso intendevo celebrare la fantasia di Dio. Però è la normalità la mia vera passione: l’ovvio dell’esistenza quotidia- na in cui “non succede niente”, ma succede tutto: succede la vi- ta». Se a parlare è Benedetto, lo scrittore protagonista di Dodici lune (1989), si tratta però di una frase capace di ritrarre, tanto la rispecchia, anche l’incredibile autrice del romanzo, Adriana Zarri. Negli anni, abbiamo imparato a conoscere questa eremita cat- tolica, nata nel 1919 a San Lazzaro di Savena (vicino Bologna), figlia di un mugnaio (ex bracciante) e nipote di un capomastro. Dirigente dell’Azione cattolica prima e giornalista poi, dopo aver vissuto in diverse città italiane (tra cui soprattutto Roma), dal settembre 1975 Adriana Zarri sceglie la vita eremitica, prima ad Albiano, quindi a Fiorano Canavese e, infine, da metà anni No- vanta, a Strambino, in provincia di Torino. Nei suoi eremi, Adriana prega, coltiva, si dedica agli animali, accoglie quanti passano, e scrive. Teologa conciliare già prima del concilio Vaticano II , autrice prolifica, voce profondamente cattolica e profondamente dissen- ziente, prima laica ammessa nel direttivo dell’Associazione teolo- gica italiana nel lontano 1969, eremita per trentacinque anni, Adriana Zarri è stata una donna libera, legata forse solo a un senso del sacro restituito dall’intreccio tra fede nuda, giustizia so- ciale, femminismo e amore per gli indifesi, i deboli, i perseguita- ti. Così questa teologa — che negli anni, ha sostenuto, da cattoli- ca, posizioni controverse, scomode, clamorose — è andata peren- nemente all’incontro con la Parola, trasmessa dal suo eremo a un’umanità libera di credere, e di non credere. Ma tra le tante parole lasciateci nei saggi, nelle memorie e ne- gli articoli (per «L’Osservatore Romano», «il Manifesto», «Il Regno», «Concilium», «Rocca» e tanti altri ancora), le pagine del diario di Bruno sono davvero una meravigliosa perla impre- gnata di vita («Un tempo — scriverà anni dopo Adriana — ero un’intellettuale pura; oggi sono un’intellettuale incarnata, conta- minata, sporcata di vita materiale»). È, dunque, eremita da nemmeno quindici anni quando Zarri firma quello che rimarrà il suo unico romanzo teologico. Lei, co- sì convinta che «una teologia impura, contaminata, compromessa col vivere è una teologia piena di passioni, di eventi, di topi, di tutto; una teologia totale perché il discorso su Dio è il discorso su tutto», in Dodici lune racconta l’anno di fuga sabbatica dello scrittore Bruno, arroccatosi in un piccolo borgo di montagna, so- lo con la governante e il gatto Mimmo. Riflettendo di amore, fe- licità, perdita, morte, risurrezione, Dio, sesso, differenza tra don- na e uomo, paternità, solitudine, senso della vita, teologia, signi- ficato dello scrivere, concilio (inascoltato) e misoginia (troppo ascoltata, invece, specie nella Chiesa), il tempo di Bruno è come sospeso. Lui, rimasto letteralmente travolto dalla morte della mo- glie Lia — ricordate Lia nella Bibbia o Lia in Dante? — e dalla perdita del figlio non nato (due morti che si sveleranno con cal- ma, nella narrazione), circondato da una natura fortissima (ora amica, ora inclemente), è impregnato del suo dolore. «L’esperienza dello scrivere è, essa pure, in qualche modo, ere- mitica, in quanto avviene — ha scritto Adriana — in una solitudi- ne totale, in cui l’autore è solo con se stesso e con Dio, se ci cre- de; e la pagina bianca è una sorta di tacito deserto che va fioren- do di parole». La donna che ha trovato nell’eremitismo la sua strada di vita, crea la figura di un uomo che, sebbene eremita a tempo, riuscirà a trovare proprio in questa dimensione la strada per rinascere. «Giunto a un editore — si legge nel prologo delle Dodici lune — il diario parve testimoniare una singolare storia senza storie, anche se intercalata da racconti che viaggiano in parallelo col diario stesso, quasi a rilevarne, per contrasto, la nudità». Questi racconti che intervallano il diario — come regali che, qua e là, Bruno fa a Lia — sono parabole moderne. C’è la parabola del ga- leotto, e del gesto di preghiera che, letteralmente suo malgrado, gli sfugge di mano («si guardò il braccio, come se fosse di un al- tro, a fare quel gesto antico che gli era rimasto come scritto nei muscoli, da secoli, senza che neanche lo sapesse»); la parabola del vagabondo, morto con gli occhi aperti per guardare subito Dio; quella sulla terza età, e sul senso autentico della fede e del pregare; e ancora l’infertilità, la fantasia di Dio, la maternità, con i terribili echi della sua assenza nel figlio. Rapisce il fluire di questo diario teologico (e quindi umano, nell’ottica di Adriana), in cui Bruno fa un passo avanti e tre in- dietro; Dio sta sulla soglia, entra, tace, risponde; Bruno torna e ritorna sugli stessi dettagli, letti e vissuti ogni volta in modo di- verso. Argomenta in un modo, e poi, l’indomani, sostiene il con- trario. L’interlocutore è Lia, a volte è Dio, a volte è indistingui- bile. Si distingue solo il percorso di un uomo che impara a leg- gere la solitudine che nei mesi, tra ottobre e luglio, diventa «un vuoto pieno». Sembrano pagine delle grandi mistiche del passato. Ma sem- bra anche, in qualche passaggio, di leggere Niente e così sia di Oriana Fallaci. Perché, per molti versi, anche il diario di Bruno è un diario di guerra. Di una guerra vinta, però. «Mi ha levigato il dolore, mi ha levigato l’amore, mi ha leviga- to la vita; e adesso — scrive Bruno, ma in controluce è il sorriso radioso di Adriana — rotolo verso l’immenso mare: il tuo grem- bo, il grembo materno di Dio: il seno di Abramo, come dicevano gli Ebrei». Amica di Gesù Marta, la santa del mese, raccontata da Mariapia Veladiano N on mi son persa una parola. Arrivavano da tutte le parti le parole su di lui: ha guari- to un lebbroso, un indemo- niato. Ha detto che il Figlio dell’uomo deve soffrire, morire e risorgere. E poi lo ha detto ancora, soffrire, morire, risorgere. I miracoli non mi impressiona- vano molto, quanti maghi, millantatori, spacciatori di miracoli passavano per la strada e stregavano le piazze. Tutti poi a discutere sul niente per giorni. Tutti con l’anima appesa al desiderio del messia promesso. Deve essere re. Fare i miracoli. Cacciare i nemici. Restituire la terra. Altro che morire. Perché le parole si possono ben ascoltare senza intendere. Ma si pensa meglio quando intanto le mani lavorano e a me sembrava che proprio questo fosse promesso, un messia che sa la nostra pau- ra di soffrire, di morire e che nulla abbia avuto senso. Ne parlavo con Maria che mi aiutava e si incantava ogni tanto, a guar- dar lontano. Era arrivata anche la novità di una gua- rigione strana e piena di scandalo. La sto- ria era confusa, i viaggiatori la infioretta- vano. Era un uomo con la mano secca, di- cevano, forse tutte e due e anche i piedi, un paralitico. Ma poi era stato chiaro che era una, la mano destra, e lui l’aveva gua- rito di sabato, dentro la sinagoga, in mez- zo, davanti a tutti. E tutti a farsi meravi- glia per il sabato e per la sinagoga, be- stemmia dentro il giorno consacrato, e io invece mi guardavo la mano destra amica mia che mi obbediva in tutti i movimenti fini del lavoro, mille e mille volte al gior- no e all’ora, e la immaginavo morta, iner- te, innaturale le dita distese, lontane, non potevano prendere il pane o pettinare la piccola Maria sorella mia. E poi invece la peste finiva e la mano tornava viva viva viva. E se poteva far questo di sabato in sinagoga era lui, era lui e come facevano a non capire gli altri? Solo chi non sa quan- to sia preziosa una mano. Mano di Dio. Destra di Dio che fa meraviglie. Anche di questo ho parlato con Maria, mentre facevamo insieme i lavori, il pane da domare con le nostre quattro mani be- nedette. Lazzaro ascoltava e ci raccontava quel che raccoglieva. Poi un giorno ha detto che stava arrivando. Non era solo, c’era un gruppo impreciso di persone con lui. Io lo volevo vedere. Ascoltare quel che diceva e vederlo. Avevo capito che era lui. Cielo se erano tanti quelli che lo se- guivano, chi lo amava, chi era curioso, chi stava a vedere. Ma ho fatto sapere chiaro chiaro che sarebbe stato il benvenuto da noi. Mi son preparata, ho fatto lievitare pane per tanti il giorno prima, insieme a Maria, e sono arrivati, mamma quanti. Non ci stavano, dentro casa. Molti erano fuori, davanti, ospiti nostri però. Non si accoglie un maestro e lo si lascia da solo e Maria è rimasta con lui, con loro e io ho portato il pane e l’acqua, per tutti. Certo che ero stanca ma non lo sentivo, come capita quando si è felici, solo che non ar- rivavo a servire tutti. E Maria poi si sareb- be dispiaciuta di non aver aiutato. La co- noscevo bene. Per questo l’ho chiamata. Ma andando e venendo ascoltavo e lo guardavo mentre mangiava e però perde- vo qualche parola. Amiche di Gesù eravamo dopo quell’in- contro. E anche Lazzaro. Per sempre amici. Così quando si è ammalato Lazzaro glielo abbiamo fatto sapere. Non ci sem- brava grave, era per dire che il suo amico era malato, ne aveva guariti tanti. Non si pensava alla morte. Neanche si affacciava questa parola. E invece Lazzaro fratello nostro è morto, e la pietra è rotolata a se- pararci per sempre dal corpo suo ancora bello, le nostre mani lo avevano lavato e lo sapevano. Chi ha fratelli può capire lo spazio intorno che ancora si piega a la- sciar posto al suo corpo che manca. Così quando ho sentito che veniva ver- so Betania son corsa da lui. Aveva anche risuscitato qualcuno. Ma non si sa che co- sa si dice quando il vuoto per chi non c’è più è tutt’intorno e anche in cielo. «Risorgerà» me lo ha detto subito. E anche qui ho capito. «Io credo», l’ho det- to subito anch’io. Io credo. Ma gliel’ho fatto ripetere più chiaro. Risorgerà non solo nell’ultimo giorno ma oggi. Questo volevo sentire. E quando l’ha detto ho chiamato Maria. Sorelle sia- mo. Diverse, un amore a volte sghembo, per lasciare spazio e trovare spazio. A pre- starci le parole qualche volta, a dire a sor- presa le stesse parole uguali: «Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto». Anche lei. Lui può, Lazzaro risor- gerà, lui è il messia. Poi al sepolcro ho sentito l’odore e ho avuto paura che capitasse e paura che non capitasse. Paura di sperare e di non poter sopravvivere dopo. Come si può sopravvi- vere dopo aver visto Dio? Lazzaro è tornato. E anche Lui ha sa- puto nell’amico suo Lazzaro che sarebbe tornato e che la morte non è l’ultima pa- rola. Chissà se questo lo ha aiutato sulla croce. Amiche di Gesù. Libere di servire. Li- bere dall’essere serve. Libere di ascoltare. Libere di raccontare. Sono Marta amica di Gesù e sorella di Maria e di tutte le Marte di nome Maria, Lucia, Valentina, Debora, Alberta, Elisabetta, Giulia. Amica di Gesù. Laureata in filosofia e con la licenza in teologia fondamentale, la scrittrice Mariapia Veladiano (Vicenza, 1960) ha insegnato lettere per più di vent’anni in un istituto professionale. Attualmente è preside a Rovereto. Tra i suoi libri, La vita accanto (2011), Il tempo è un dio breve (2012), Ma come tu resisti, vita (2013), Parole di scuola (2014). Per noi ha scritto santa Teresa Benedetta della Croce (agosto-settembre 2012) Johannes (Jan) Vermeer, «Cristo nella casa di Marta e Maria» Al sepolcro ho avuto paura che capitasse e che non capitasse Paura di sperare e di non poter sopravvivere dopo Come sopravvivere dopo aver visto Dio?

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