donne chiesa mondo - n. 25 - luglio 2014

I donne chiesa mondo luglio 2014 Robert Peter Imbelli, sacerdote dell’arcidiocesi di New York, ha studiato a Roma negli anni del concilio Vaticano II . Ordi- nato nel 1965, ha conseguito la licenza in sacra teologia all’università Gregoriana e il Ph.D. in telogia sistematica all’università di Yale. Per ven- tisette anni padre Imbelli ha insegnato teologia al Boston College, dove è oggi professore emerito. Con Liturgical Press, ha appena pubblicato Rekin- dling the Christic Imagina- tion: Theological Medita- tions on the New Evangeli- zation . La trasformazione di R OBERT P ETER I MBELLI n un articolo apparso sull’«Osservatore Romano» dell’8 marzo scorso, Lucetta Scaraffia, a proposito della riflessione sul ruolo delle donne (e degli uomini!) nella Chiesa, ha scritto: «Al centro del problema non è la “modernizzazione”, ma qualcosa di più profondo e importante che tocca la natura spirituale della Chiesa». La sfida — prosegue — è quindi di «disegnare i tratti spirituali e teologici di una tradizione cristiana aperta al femminile». Questa serie di articoli pubblicati sull’Osservatore sono piccoli contributi verso tale obiettivo. Il presente contributo intende offrire una prospettiva sulla particolare natura spirituale della Chiesa. Prende come punto di partenza un’intuizione profonda di sant’Ireneo di Lione, citata da Francesco nell’ Evangelii gaudium . Ireneo dice del Signore Gesù Cristo che omnem novitatem attulit, semetipsum afferens , cioè che Cristo «nella sua venuta, ha portato con sé ogni novità». Il Papa insiste: «Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità». E aggiunge: «Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (n. 11). Il concilio Vaticano II , come è noto, ha dato inizio a un “ritorno alle fonti”, un ressourcement , che ne ha guidato le deliberazioni e influenzato profondamente i documenti da esso promulgati. Quel ritorno alle fonti è stato certamente un ritorno alle Scritture stesse, nonché agli scritti dei vescovi e dei teologi della Chiesa antica. Ma più nel profondo, il concilio ha rappresentato un nuovo ritorno all’unica fonte, che è Gesù stesso. Gesù, secondo lo stesso incipit di Lumen gentium , è la «luce delle genti». E Gaudium et spes , con frasi che risuonano, confessa: «Il Signore è il fine della storia umana, “il punto focale dei desideri della storia e della civiltà”, il centro del genere umano, la gioia d’ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni» (n. 45). Per Francesco, che riecheggia il Vaticano II , è Gesù stesso la gioia del Vangelo, la gioia che i cristiani cercano di condividere con gli altri. Egli è il Vangelo personificato, e «la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili», afferma il Papa. In ogni tempo la Chiesa è chiamata a sondare di nuovo la ricchezza inesauribile di Cristo e a considerare le sfide e le possibilità del presente alla luce del Vangelo che è Gesù Cristo. Le ben note parole dell’apostolo Paolo rivelano una dimensione costitutiva del mistero di Cristo: «Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» ( Galati, 3, 27-28). Gesù Cristo non solo è il nuovo Adamo, ma con la sua vita, morte e risurrezione, dà anche vita alla nuova comunità, la Chiesa, che è il suo stesso corpo. Tutti coloro che sono battezzati in Cristo diventano membra del suo corpo e, in tal modo, entrano nella nuova creazione dove l’appartenenza etnica, la cultura e la sessualità non vengono negate, ma trasformate e trasfigurate. Pertanto, una chiave per una teologia più profonda della persona, donna e uomo, è la comprensione più piena della trasformazione alla quale Cristo chiama i suoi discepoli. È lo stesso apostolo Paolo a offrire un’immagine senza eguali di ciò che comporta la trasformazione in Cristo. Quel che emerge dalla testimonianza e dagli scritti di Paolo è che la trasformazione in Cristo richiede agli uomini e alle donne un riorientamento radicale e una conversione costante ( metànoia ). Se il percorso trasformativo viene svolto con fedeltà, fiducia e paziente sopportazione ( hypomonè ), dà origine nientemeno che a un nuovo sé, ricreato a immagine di Cristo. Ricordiamo alcune tra le affermazioni di Paolo che più colpiscono. Nella stessa Lettera ai Galati , in cui Paolo sottolinea l’unità dei credenti in Cristo, dice di sé: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (2, 20). È proprio mettendo a morte così il proprio ego, costruito su desideri e impegni diventati idolatri, che egli si rende libero per una nuova vita in Cristo, la quale è, inscindibilmente, una nuova vita per gli altri, in comunità. Paolo lo approfondisce nel ben noto passo della Lettera ai Filippesi . Dopo aver elencato tutte le cose che aveva erroneamente considerato motivo di orgoglio e di vanto, cose che erano servite solo a separarlo dagli altri, ora le considera ostacoli alla vita vera. Paolo scrive del suo struggente desiderio di «conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (3, 10-11). E il conoscere Cristo in modo sincero è inscindibile dal servire coloro per i quali Cristo è morto. Inoltre, la configurazione a Cristo non è la vocazione solo di Paolo, ma è la grazia e la chiamata di tutti coloro che sono battezzati in Cristo. Così egli esorta i Corinzi: «L’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» ( 2 Corinzi 5, 14-15). Il riorientamento radicale della persona a Cristo e alle membra di Cristo tesse vincoli spirituali tra i battezzati che sono sconvolgenti nelle loro implicazioni. Ogni riforma autentica nella Chiesa deve riscoprire la nuova realtà che il mistero pasquale del Signore porta in essere. Così Paolo ci insegna, come ha insegnato ai Corinzi, che «noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» ( 1 Corinzi 12, 13). Di fatto, «Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» ( 1 Corinzi 12, 24-26). La sfida evangelica a vivere questa visione della comunione, nel XXI secolo è tanto pressante ed esigente quanto lo era nel primo! Infatti, ovviamente il peccato s’insinua. E il peccato non solo aggredisce Dio, ma corrode anche sempre la comunità umana e la comunione. Il peccato lacera il corpo di Cristo. Da qui l’importanza della confessione sacramentale nella Chiesa, come insegna costantemente Papa Francesco sia con le parole sia con l’esempio. La lotta quotidiana per la fedeltà e la trasformazione è illustrata in modo commovente da san Paolo nel quinto capitolo della Lettera ai Galati . I desideri della “carne” e quelli dello “spirito” si combattono, e la posta è l’io che diventiamo. È ovvio, qui, che “carne” non si riferisce alle sole trasgressioni sessuali, ma ancor più al cuore indurito che erutta rivalità, gelosia, invidia e odio. La guida dello Spirito, al contrario, produce una messe generosa di amore, gioia e pace, che promuove e alimenta l’edificazione del corpo di Cristo. Riassumendo la nuova vita nello Spirito, Paolo afferma: «Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso». Ma poi, con un cri du coeur , avverte i Galati e noi: «Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (5, 14-15). Si percepisce in queste parole la descrizione di un’anti- eucaristia demoniaca. Infatti, proprio come la vera eucaristia unisce e alimenta il corpo di Cristo che è la Chiesa, il dissenso tra cristiani divide e avvelena il corpo. Potrebbe sembrare che sia stato detto molto poco in merito a un approccio alla valorizzazione del ruolo delle donne nella Chiesa e all’incorporare le vere sensibilità femminili. Certamente altre riflessioni di questa serie hanno offerto suggerimenti e approcci più pratici. Ma la mia argomentazione è che farlo con la profondità necessaria comporta il recupero della novità specifica del Vangelo di Gesù e della Chiesa, nata dal fianco del Crocifisso. Questo recupero è ancora più urgente in una cultura che non ha dimenticato le proprie radici cristiane, ma dà prova del frenetico desiderio di strappare tali radici. Papa Francesco, attingendo alla sua eredità ignaziana, ha evidenziato ripetutamente il ruolo indispensabile del discernimento spirituale nella Chiesa. Molto prima di Ignazio di Loyola, però, Paolo insisteva sulla necessità che i cristiani praticassero il discernimento per non adattarsi ai valori del mondo che sono antitetici al Vangelo (la “mondanità spirituale” contro la quale Francesco mette in guardia). Paolo scrive ai cristiani di Roma: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» ( Romani 12, 1-2). Quindi, mentre procediamo a dare forma a una teologia più inclusiva, è fondamentale che i nostri criteri di discernimento siano basati su valori evangelici e non mondani. Infatti, oggi come ai tempi di Ireneo, i cristiani si devono confrontare con un recrudescente gnosticismo che, pur strombazzando la “diversità” e la “differenza”, di fatto sovverte la distinzione fondamentale tra uomo e donna, i quali, insieme, comprendono l’immagine di Dio. Questo gnosticismo contemporaneo rispecchia in modo fin troppo fedele l’ideologia e gli imperativi della società capitalistica. Qui, spesso le persone vengono ridotte a funzionari intercambiabili, il cui unico scopo è il servizio a Mammona. La visione gnostica, nelle sue molteplici vesti, è quella di una fusione androgina, mentre il novum cristiano è quello di comunione, di persone distinte in relazione, ognuna delle quali contribuisce con le proprie capacità e i propri doni. Anche qui Paolo insegna in maniera esemplare: «Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi» ( Romani, 12, 4-6). Mentre procediamo verso una Chiesa più inclusiva, una Chiesa che apprezza, più che in passato, i doni unici di ognuno, sia i laici sia le persone ordinate devono essere radicati in quella «spiritualità di comunione» che Giovanni Paolo II ha evocato nella Novo millennio ineunte . Faremmo bene a scolpire queste sagge parole di Papa Wojtyła nelle nostre menti e nei nostri cuori: «Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità. Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper “fare spazio” al fratello, portando “i pesi gli uni degli altri” ( Galati, 6, 2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita» (n. 43). l’autore Pasquale Cati, «Il Concilio di Trento» (1588, particolare) Ivan Rabuzin, «Paesaggio con case» (1973) El Greco, «San Paolo Apostolo» (1610-1614)

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