Critica Sociale - Anno V - n. 18 - 16 settembre 1895

2i8 CRITICA SOCIALE però due mezze definizioni 1 per lo stesso oggetto. Corno facemmo pel concetto del valore, noi dovremo fonderle per cavarne la vera, quella che scaturisce dalla evoluzione della cosa definita e che pel'tanto no abbraccia tutta la pratica esplicazione. La ren– dita è il rapporto che corre fra la produttività del terreno, l'elemento naturale (chea sua volta consta delle reracità nalw·ale e della coltivazione, ossia del lavoro umano rivolto al miglioramento del rondo), e l'elemento umano, cioò la concorrenza. Crollino pure il capo gli economisti su questa de– finizione: vedranno, a loro confusione, ch'essa ab– braccia tutto ciò che si riferisce alla cosa. li proprietario terriero non ha alcun rimprovero da muovere al mercante. Egli ruba quando monopolizza il terreno. Rubi\ quando sfrutta a proprio benefizio l'aumento della popolazione, che eleva la concorrenza e quindi il valore del suo fondo; quando muta in una fonte di suo vantaggio personale ciò a cui personalmente non ha punto confribuito, ciò che è per lui del tutto accidentale. Ruba, se affilia i fondi, quando si appropria le migliorie introdotto dal fittaiuolo. t questo il segreto d<!llasempre crescente ricchezza dei grandi proprietari fondia1·'ì. Noi non facciamo nostri gli assiomi che qualin– cano come furto il guadagno dei proprietari col dire che ciascuno ha diritto sul prodotto del pro– prio lavoro, o che nessuno può raccogliere dove non ha seminato. Il primo di quelti assiomi esclude il dovere di alimentare i ranciuHi,e il secondo esclude ogni generazione dal diritto all'esistenza, inquanto– chò ogni generazione s'impossessa dell'eredità della generazione precedente. Questi assiomi sono piut– tosto conseguenze della proprietà pri\•ata. O di questa bisogna accettare le conseguenze o convien rinunciare a porla come premessa. Perchè anche la originaria appropriazione viene appunto giustificata adducendo il preesistente CO· m.une diritto di possesso. Cosi, da qualunque parte ci volgiamo, la propriet..'l pri\ 1 ata ci conduce a con– traddizioni. L'ultimo passo verso l'alienazione di sè stessi fu appunto l'alienazione della terra, Ja quale è il nostro tutto, la condiziono prima della nostra esistenza; fu questa ed è ancor oggi una immoralità, che solo è superata dall'immoralità de11aalienazione di sè stessi. E l'appropriazione primitiva, la monopo– lizzazione della terra da parte di un piccolo nu– mero, la esclusione degli altri dalle condizioni della 101•0vita, non la cede in nulla, quanto ad immo– ralità, alla alienazione avvenuta di poi. Togliamo via la proprietà privata, ed ecco la renilita ridursi a quello ch'è realmente, al ragio– nevole concetto che ne sta alla base. Il valore del suolo, che se ne separa come rendita, ritot'na a cadere nel suolo. Questo valo1•e, che risulta dal confronto della produttività di uguali superficie sulle quali si impiega uguale la\'oro, entra indub– biamente come parte delle spose di produzione nolla determinazione del valore dei prodotti, ed è, come la rendita, il rapporto fra la produttività e la concorrenza; ma la ve,-a concorrenza, quale a suo tempo si svolgerà. . .. Vedemmo come capitale e lavoro siano origiua– l'iamente identici; ,·ediamo poi, dagli sviluppi degli stessi economisti, come il capitale, ch'è il risultato del laroro, nel processo della produzione ridh•enla tosto il substrato, il materiale del la, 1 oro, e come quindi la momentanea separazione del capitale dal lavoro si risolva subito in una nuova loro mede– simezza: eppure l'economista li disgiunge, e man• tiene la disgiunzione, senza più riconoscerne la identità fuorchè nella derìnizione del capitale: «. la– voro accumulato >. La separazione del lavoro dal capitale, effetto della proprietà privata, non è altro so non la scissione del lavoro in se stesso, corrispon– dente a quella separazione e da essa prodotta. E mentre questa separazione si effettua, il capitate a sua volta si divide nel capitale 01•iginario e nel profìtto, nell'incremento cioè che il capitale riceve dal processo della produzione, benché la stessa pra– tica ricongiunga tosto questo profitto al capitale mettendolo in circolazione con esso. li profitto poi si divido di nuovo in interessi e profìtto propria– mente detto. Negli interessi la assurdità di questa divisione ò spinta agli estremi. L'immoralità del– l'interesse, del reddito sem.a lavoro, pel semplice fatto del prestito, benchè sia la naturale conse– guenza della proprietà privata, pul'e dallo sp1•egiu– dicato intuito popolal'e, che in queste cose per lo più ,•ede giusto. è da lungo tempo riconosciuta. 'l'uUe queste sottili divisioni e separazioni nascono dalla originaria separazione del capitale dal lavoro e dal coronamento di questa separazione coJla di– visione deJl'umanità in capitalisti o lavoratori, di– visione che tutti i giorni si fa più aspra e che, come vedremo, non potrà. che sempre aumentare. Ma questa separazione, come quella, che già con– siderammo, della terra dal laroro e dal capitale, finisce per urtare nell'impossibile. i'~ assolutamente impossibile determinare quale sia, in una produ– zione, la parte della terl'a, quella rlel capitale e quella del lavol'o. Le tre quantità non sono com– misurabili. La terra dà il mate1·iale greggio, ma non lo dà senza capitale e senza lavoro; il capitale presuppone la terra ed il lavoro; e il lavoro pre– suppone almeno la terra, e per lo pitt anche il capitale. Le rispettive funzioni di questi tre elementi sono di natura affatto diversa e non possono essere adeguate a una quarta comune misura. Perciò, negli attuali rapporti, quando si tratta di ripartire il reddito fra i tre elementi, manca una misura ad essi inerente, e convien l'ico1•1•erea una misura ad essi a0i\tto straniera ed accidentale: la concor– renza, ossia il raffinato diritto dei pili forti. La l'endita fondiaria implica la concol'renza; il prontto del capit..'lle non è determinato che dalla concor– renza; quanto alla mercede del lavoro, or ora ne tratteremo.

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