Una città - anno V - n. 40 - aprile 1995

di un libro B Il male è un ineluttabile, necessario destino naturale che va solo riconosciuto, oppure è scelta, è colpa, è qualcosa che potrebbe non essere? La questione fondamentale della libertà originaria, finora mai pensata da una metafisica che faceva coincidere il male con il nulla. L'unicità di Auschwitz è forse quella volontà del male per il male. La solidarietà nella colpa, l'espiazione che apre all'altro e al mondo. La risposta più difficile: quella al dolore del bambino e dell'idiota, al dolore dell'innocente. Intervista a Sergio Givone. Sergio Givone insegna Estetica all'Università di Firenze. Il libro cui sifa riferimento nell'intervista è Storia del nulla, edizioni La terza. Il tema che volevamo affrontare con lei è quello del rapporto fra il male e la libertà. Ad Adorno, che sosteneva che dopo Auschwitz non si poteva più fare filosofia o poesia, Luigi Pareyson ribatteva che, invece, quello che si impone dopo Auschwitz è cominciare a pensare nella presenza dell'orrore ... La filosofia, nella sua storia, non ha mai elaborato gli strumenti per penetrare l'orrore estremo e non è un caso che alla filosofia, cioè a un discorso razionale, concettuale, il male appaia in termini di orrore, cioè di qualche cosa che lascia inorriditi, paralizzati. Tuttavia si potrebbe anche chiedere che cosa può pensare la filosofia se non il male, che è un dato primario di cui tutti facciamo esperienza, ed è per questo che molti spiriti pensosi, forse più pòeti che filosofi, hanno pensato questo legame per cui il male è connaturato inestricabilmente, in modo assoluto, con l'esistenza. Per Leopardi -che scrive è funesto il dì natal- nascere è patire, ma in Leopardi non c'è che una lontana eco di quella che gli antichi greci chiamavano "la sapienza del Sileno", il semidio che insegna all'uomo che nascere è male e che la cosa più bella che si possa augurare a colui che è nato è di morire presto, cui fa eco la sentenza di Anassimandro, per cui nascere significa pagare il debito che ciascuno di noi ha contratto con la natura: siamo nati, quindi dobbiamo morire. Il legame tra esistenza e male è stato quindi sempre riconosciuto, ma è stato inteso come un legame costitutivo ed è pei: questo che, in definitiva, per la filosofia non ha fatto problema. Sembra un para-· dosso, ma se il male è necessario la filosofia non può che prendere atto di questa necessità, ed infatti c'è una lunga tradizione filosofica - quella che in termini molto banali può essere definita come il pessimismo filosofico che dati' antica Grecia arriva fino a Schopenhauerche pensa il male come un peso necessario, in una sorta di esorcismo per cui l'accettazione del male .com~ destino serve a liberarsi da quest.o pensiero. C'è però una tradi2ione filosofica, che è quella inauguràta dal cristianesimo, che rompe col pessimismo pagano e chiede unde malum?, cioè se questo che noi viviamo come un destino del1'esistere sia davvero tale o non derivi da qualcosa d'altro. Lasciamo stare che il cristianesimo, essendosi trasformato in una religione filantropica, tutta spesa sul sociale, abbia a sua volta dimenticato questa domanda, ma nel suo cuore c'è l'affermazione che il male è certo qualche cosa che incombe su di noi come un destino, nascere vuol certo dire patire, ma è un destino di cui siamo responsabili. . ' s1puo essere responsabili di un destino? Questo è il grande paradosso di quello che chiamerei "cristianesimo tragico" e che si ricollega non al pensiero pre-socratico, non alla sentenza di Anassimandro, ma alla tragedia. La tragedia, si pensi a Edipo e alle grandi figure tragiche, insegna che il destino, che pure incombe su di noi al di là della nostra volontà, è qualcosa di cui noi tuttavia siamo responsabili. · Questo è il primo nodo filosofico da sciogliere, perché dobbiamo ricorrere alla filosofia come a quel discorso razionale che cerca di universalizzare i suoi asserti, ma che interroga qualche cosa che si dà non nel concetto, ma nel mito, nel1'esperienza rei igiosa. La filosofia deve fare questo perché è la pratica che interroga, che cerca di tradurre in un linguaggio in cui tutti ci si capisca, i contenuti del mito, strappando il mito al suo valore chiuso in se stesso. Nel mito si rivela qualche cosa di fronte a cui la filosofia sbalordisce, perché in esso è come se il principio di non contraddizione saltasse. Come si fa, infatti, a dirsi nello stesso tempo responsabili e "destinati a"? Come si fa ad essere responsabili del destino? E invece nei miti, sia nei miti tragici dell'antichità classica sia nel "mito" cristiano, viene in primo piano questo paradosso per cui siamo responsabili di un destino. Se le cose stanno così è chiaro che la categoria attraverso cui la filosofia ha solitamente pensato il male, cioè la necessità, il nesso "vivere uguale patire", non è più quella decisiva e la necessità si rivela come qualcosa di opposto, cioè la libertà, la responsabilità. E' la responsabilità che va colta, pensata, al suo livello più alto, cioè come qualcosa che certo riguarda l'uomo e le sue scelte, ma prima ancora riguarda l'essere. Se le cose stanno così, occorre allora fare una distinzione fondamentale tra male e sofferenza, e in questo la filosofia ci aiuta perché in una filosofia del la necessità, in una filosofia per cui il male è il retaggio inevitabile del1' esistere, male e sofferenza sono la stessa cosa, quindi non c'è differenza tra fare il male e patirlo. In definitiva nascono da qui tutte quelle forme di esorcismo del male, come ad esempio la psicoanalisi o la sociologia, che riportano il male che si fa al male che si è patito: perché uno fa il male? Perché ha patito il male. Perché uno ammazza? Perché ha vissuto una vita miserabile, non è stato amato da bambino, eccetera, eccetera. Sono tutte cose giuste, per carità, sono cose che aiutano a capire le dinamiche che stanno dentro questa realtà tremenda che è la realtà del male, ma che, tuttavia, nascondono l'essenziale, cioè la differenza che c'è tra male e sofferenza. Per Leopardi o Anassimandro, che pensano il male stazioni LA RAffRISl'ANl'E CRUDELl'A' In uno dei fogli del suo diario, poco tempo prima di essere trasferita come ebrea dal campo di Westerbork a quello di Auschwitz dove morirà, Etty Hillesum scrive: "... E' dunque così che vivono gli esseri umani, usano gli altri per farsi convincere di qualcosa in cui in fondo credono; cercano negli altri uno strumento per coprire la propria voce interiore". E' il compito più difficile: non azzerare questa libertà, impedire che su di noi si accatastino in fretta ottusità e abitudine. E' stata una delle perversioni del nazismo, uno dei suoi crimini più gravi farsi strumento, essere il vuoto rintocco che confonde la vera voce degli umani. Le urla di Hitler erano il suono metallico e disumano che convinceva, il fischio di morte, la sirena notturna senza corpo e pensiero. Non stupisce che il Nazismo avesse come nemico la cultura ebraica, che opponesse l'orchestra alla parola, la marcia alla scrittura e chiamasse la folla a infittire il deserto. E' il chiasso che rassicura più del silenzio, il conformismo travestito da fedeltà, la melodia che trascina e stordisce come i topi ingannati dal flauto. Gran parte dell'Europa, tranne casi come quello della Danimarca e della Bulgaria, diffidò del proprio silenzio interiore, scelse di coprirlo con il frastuono della guerra, accettò di lasciarsi convincere da una minoranza di assassini, da "macellai", per usare l'espressione di Hannah Arendt, senza nessuna grandezza demoniaca, tesi alla realizzazione di un unico • piano: rendere gli esseri superflui in quanto esseri umani. Forse è vero che ad Auschwitz non è fallito Dio ma il cristianesimo, nel senso che nei cristiani, in molti cristiani ha taciuto la libertà e la possibilità. Perché una rivolta era possibile, è stata possibile: quando i tedeschi invitarono i danesi a introdurre il distintivo giallo, essi fecero presente che il re sarebbe stato il primo a portarlo e che qualsiasi prowedimento antisemita avrebbe provocato le immediate dimissioni dei ministri. Nessuna voce interiore era stata soffocata, nessuno aveva acconsentito a usare gli altri per lasciarsi convincere. L'unica strada della terra è quella di non abbandonare il male a se stesso, ma restituirlo al bene cui in fondo appartiene; un'eversiva mitezza: ma è una strada lunga che inizia da ciascuno di noi. Ieri gli alunni, giovanissimi, di una mia collega hanno dichiarato che la bomba-giocattolo data ai piccoli zingari era stato un gesto giusto, una giusta intimidazione. Come reagire senza indietreggiare davanti a una simile affermazione, come far capire che anche una sola parola di morte semina morte in chi la pronuncia. Il lampo che acceca, il suono che stordisce e scaccia il pensiero. Al fischio di morte, a quella che Mandel'stam chiamava la "rattristante crudeltà" degli aguzzini, Paul Celan ha risposto insegnando l'ombra: "Wahr spricht, wer Shatten spricht'', Dice verità chi dice ombra. Antonella Anedda 14 UNA CITTA' o in termini di necessità, alla fine patire e far patire sono la stessa cosa poiché è chi ha patito che fa patire, in una sorta di circolo vizioso da cui non si esce. Se, invece, alla radice dell'esistenza, dell' essere stesso, noi collochiamo la libertà, quindi la responsabilità che è dell'uomo ma è anche dell'essere stesso, cioè del Dio cristiano che liberamente sceglie questo mondo, allora male e sofferenza si rivelano come due cose completamente diverse. O meglio: sono in rapporto perché stanno dentro la categoria della negatività, male e sofferenza sono due forme del negativo, ma mentre il male è il negativo che vuole se stesso, che si conferma nella negatività e che quindi ha valore autodistruttivo, la sofferenza è un elemento di svolta, è ciò che trasforma l'esperienza della negatività nella via alla positività. Questa è l'idea fondamentale di Pareyson, che è venuta in chiaro soprattutto nei saggi raccolti in Ontologia della libertà, ma più ancora è chiara in frammenti trovati dopo la sua morte. In essi Pareyson insiste sul fatto che il male e la sofferenza pensati a partire dalla libertà danno luogo a una separazione dei due momenti e, mentre il male si rivela come negatività che continuamente si nutre di se stessa, la sofferenza si rivela come quella via alla positività che si ottiene attraverso l'espiazione. Questo è anche quanto ci dice il mito religioso ed è per questo che la filosofia, pur necessaria, non basta a se stessa. Quello che il mito religioso ci dice, e che la filosofia deve cogliere, è che solo attraverso la sofferenza noi ritroviamo la libertà per il bene e qualche cosa come la gioia, qualche cosa come la liberazione dal male. Il mito religioso ci dice che a Dio, alla salvezza, alla liberazione dal male, si arriva soltanto attraverso l'espiazione, cioè attraverso il riconoscimento del peccato. Tutte queste sono categorie religiose, ma la dialettica del male non può essere compresa se non a partire da queste categorie religiose ed è solo il pentimento, è solo il riconoscimento che siamo comunque tutti peccatori, ciò che mi espone a un'esperienza di libertà, ciò che mi tira fuori da quel la logica perversa, da quella condizione ineluttabile per cui aver patito il male mi porta a rifarlo. Il venir progressivamente meno della credibilità di orizzonti retribuzionisti, non rischia di rendere sovrumano un discorso di espiazione? Lei parla di orizzonte retribuzionista, a significare un dio che retribuisce con il bene colui che gli è fedele, che accetta questa logica, ma credo che su questo vadano dette alcune cose. Il termine "retribuzione" è stato certamente usato dalla tradizione teologica, come anche dalla dogmatica, ma parlare in termini di retribuzione non si presta a spiegare quello che sto tentando di dire poiché è una sorta di irrigidimento, di dogmatizzazione, dell'esperienza di cui sto parlando. In questa logica è come se ci fosse una sorta di teatro metafisico dove l'uomo sta qui, Dio sta là, l'uomo è peccatore secondo un determinato codice che Dio ha dato all'uomo il quale, peccando, deve farsi perdonare affermando in qualche modo la sua obbedienza, pentendosi della sua disubbidienza. Ma questo dio così antropomorfizzato, così pensato in termini di superego, non è il dio di cui sto parlando. Il dio di cui sto parlando è il dio in tutto e per tutto identico con la libertà, quindi non il dio pensato nei termini con cui lo ha pensato la metafisica, cioè come essere necessario, ma come quell'essere che è la libertà, che cioè rende possibile pensare il male non come assurdità, non come necessità, ma come elemento di una dialettica superiore. Il dio di cui parlo è il principio di questa dialettica superiore a partire dal quale è possibile pensare il male secondo libertà piuttosto che secondo necessità, in una scelta che ciascuno di noi può fare al di là della professione o non professione di una fede. Indipendentemente dal fatto che io professi o non professi una fede sono infatti chiamato alla scelta se il male sia assurdo, cioè non spiegabile, privo di senso e connaturato alla vita stessa, oppure devo chiedere unde malum? e capire che nel cuore del male c'è ciò che noi chiamiamo, con un termine in fondo debole, responsabilità. Addirittura bisogna dire che il male è, e appare, quell'orrore che si diceva prima proprio in rapporto alla libertà, al suo possibile non esserci, poiché se pensassimo che il male non può non esserci non ci apparirebbe così orrendo. E' stato osservato da più parti che, in fondo, il cristianesimo ha una concezione del male molto più orrorifica che non il paganesimo. certo, della Bosnia • siamo tutti colpevoli Per il paganesimo, infatti, il male era la natura e quindi c'era poco da fare: chi entrava nel gioco della natura doveva soffrire, anche se questo metteva angoscia. Nella concezione pagana del male non c'è scandalo, ma c'è la saggezza, la sapienza, di chi pensa che tutti noi siamo legati al carro della sofferenza e accetta che la nostra scelta stia tutta o nel lasciarsi trascinare da tale sofferenza oppure nel seguirla docilmente. C'è scandalo per tutto questo, invece, nel cristianesimo, che pure ha questa struttura retribuzionista e che, alla fine, sembra rimettere tutte le cose a posto. E' il cristianesimo che di fronte al male leva una voce di scandalo molto più forte di quanto non levasse il pagano perché, essendo la libertà che governa il tutto, il fatto che le cose siano così e non cosà crea un sentimento di orrore. L'orrore di Auschwitz, in definitiva, è un sentimento giudaico-cristiano. Ma nel dolore dell'altro, nella sofferenza che annichilisce e a cui quindi non riusciamo a dare senso, in ultimo nel dolore inutile, nel dolore dell'innocente, del bambino, come possiamo parlare di espiazione? Questa è la domanda più difficile, perché rispetto al bambino che non solo non sa espiare, ma non si sa che cosa dovrebbe espiare, la domanda che sorge è se anche per lui valga questa logica dell'espiazione. Per questa domanda mi pare che l'unica risposta possibile sia ancora di tipo mitico-religioso, cioè una risposta che sposta il problema dal piano dell'esperienza umana, e soltanto umana, al piano ontologico, cioè al piano in cui è in questione il senso dell'essere stesso, cioè di Dio. C'è un mito cristiano (io continuo a parlare di mito, intendendolo in senso forte, non semplicemente come fantasticheria che copre una verità nascosta) che dice tutto ciò, ed è quello dell'incarnazione, di Dio che scende e si fa uomo. Nel cristianesimo non è che il Dio "prenda figura" come nell'antichità classica, in cui il dio appare come uomo pur restando dio, ma proprio si fa uomo ed è lui, l'innocente per definizione, che si fa maledetto e che espia l'inespiabile. Dio, l' innocente, che si fa colpevole è una figura di questo carattere trascendente dell'espiazione, cioè del fatto che l'espiazione non è comprensibile soltanto sulla base di quella che Dostoevskij chiamava "logica euclidea". Per questa logica, per cui tanto mi dà tanto, la domanda resta senza risposta: perché deve soffrire l'innocente, perché devono soffrire i bambini, gli idioti? Soffrano gli adulti, soffrano coloro che possono trasformare il peccato di cui sono portatori in una esperienza di libertà, che sanno dire sì alla vita nonostante il dolore, la sofferenza e il male che la vita comporta, ma perché dovrebbe espiare il bambino? Ali' opposto, secondo Dostoevskij, occorre un "pensiero di altri mondi", in cui la figura del dio che si incarna e che viene a espiare qualche cosa che non ha da espiare, è una sorta di paradigma di ciò che accade là dove incontriamo lo scandalo degli scandali, cioè la sofferenza inutile. Ed è proprio a fronte di questo scandalo degli scandali che la grandiosità di questo movimento si lascia cogliere come movimento di liberazione dal male attraverso l'esperienza del male. Un movimento così grandioso da innestarsi proprio in quello che è il ganglio terminale e originale, là dove, per l'appunto, non si può che parlare di libertà dell'essere, una libertà dell'essere all'origine talmente libera da non ritrarsi di fronte a nulla. Nella sofferenza dell' innocente vediamo, e il mito ce la indica, sempre anche la colpa di qualcuno, non fosse altro che la colpa di omissione. Di fronte a un innocente che soffre in realtà siamo tutti colpevoli: l'innocente che soffre, soffre per noi, quindi la sua sofferenza non è inutile, e se con la sua sofferenza ci risveglia al senso del nostro peccato è giusto che noi soffriamo per lui, che ci riconosciamo colpevoli nei suoi confronti. E' Dimitrij de / fratelli Karamawv di Dostoevskij, che accetta la condanna non perché abbia commesso il fatto di cui è accusato, ma perché ha provocato il dolore di un bambino ... La colpa che Dimitrij sente di dover espiare nei confronti del bambino è di aver umiliato il padre di fronte a lui ed è appunto l'innocenza del bambino a fargli capire che la sua innocenza non è veramente

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==