Una città - anno V - n. 40 - aprile 1995

• storie Cooperazione senza cooperanti, la scelta fatta tanti anni fa, ai tempi del Concilio, da persone che si autotassano per sostenere piccoli progetti nel Terzo Mondo. L'esperienza edificante degli incontri con le persone di là. Senza che manchi nulla uno stile di vita un po' più sobrio, meno consumista, simile, in fondo, a quello di una certa borghesia austera che oggi no-:, c'è più. Intervista a Maria Picotti. Maria Picotti insegna in una scuola media inferiore di Verona. La rete nazionale di solidarietà di cui si parla nell'intervista, che conta centinaia di aderenti in tutta Italia, si chiama Radié Resch ed è stata fondata da Ettore Masina e da un gruppo di cattolici ai tempi del Concilio. La nostra "rete" non si basa su un generico "vogliamoci tutti bene", su un'ideologia della solidarietà, ma su un incontro da cui può nascere anche un•amicizia e da un confronto su intenti comuni, sul fatto che si analizzano le cose insieme. In questi anni abbiamo incontrato tante persone e non solo gente che aveva fatto grandi studi ma anche persone umilissime e semplicissime che, però, raccontandoci delle loro realtà, delle loro esperienze concrete, ci hanno cambiato un po• la testa. Dall'indio dell'Equador, di 50 anni, che ci ha raccontato semplicemente la storia degli sforzi suoi e dei suoi figli per tirare avanti una cooperativa per la coltivazione delle patate, che era, diceva; "il loro modo di liberarsi", a una catechista del Salvador, un'aria da contadina, madre di un popolo di figli, foulard in testa, quella che noi potremmo definire una donnetta e della quale, però, ci avevano chiesto di tacere il nome perché poteva essere pericoloso per lei al ritorno in patria ... Là i catechisti vengono fatti fuori se vanno oltre un certo limite. Forse potrà sembrare banale, ma io non dimenticherò facilmente quelle persone. Dai loro racconti, poi, non trasparivano solo le realtà tremende in cui vivono, ma, in positivo, i progetti su cui si organizzano, le cose piccole che possono sembrare sproporzionate rispetto ali' enormità dei problemi, e forse lo sono, ma che innescano prospettive reali, concrete, radicate, di un futuro diverso. E' questo forse che ha dato anche a noi una certa carica: vedere persone schiacciate da problemi pazzeschi ma nello stesso tempo così vitali, piene di speranza, con un'energia incredibile e anche una capacità di lettura della realtà molto profonda. Sono incontri molto belli, dopo le disccussione, le sera, c'è una festa, si balla. Mi vengono in mente tante facce, tante persone. Ricordo Rigoberta Menchù che abbiamo incontrato più volte prima che ricevesse il Nobel, e anche dopo un paio di volte, che ci ha sempre detto: "è inutile che diciate i problemi del terzo mondo, c'è un unico mondo". Questo lo stiamo osservando sempre di più. 11 nostro non è un gruppo politico ma neanche vuol fare solo buone azioni: crediamo anche di fare politica, nel senso di un'azione che possa avere un senso anche qui. Partiamo dal piccolo, ma questo, secondo me, ti dà la possibilità di 'leggere anche il grande, di spingerti anche a scelte di campo molto precise e sempre più approfondite, ma non ideologizzata. Si partecipa alla realizzazione di progetti anche minuscoli ma che vengono proposti da loro e nel tempo ci siamo accorti che questi progetti, per quan,to piccoli, sono forse una delle strade principali da percorrere per cambiare. Comunque questa è stata la caratteristica particolare del gruppo, dai tempi della sua fondazione, nei lontani anni '60: appoggiare iniziative che non venivano né progettate né pensate qui, ma là, da persone che solo poi richiedevano il nostro intervento. Era un capovolgimento completo della logica tipica già allora della cooperazione, della solidarietà o degli stessi gruppi missionari: una cooperazione senza cooperanti. Tant'è che una cosa che abbiamo sempre riscontrato è la felicità dei nostri amici quando potevano annunciarci che di Il a poco sarebbero divenuti indipendenti dal nostro aiuto. Era quello l'obiettivo fondamentale e anche l'ispirazione originaria: fornire l'aiuto iniziale, il capitale iniziale detto altrimenti, ad attività progettate e organizzate da loro che potessero in breve tempo diventare del tutto autonome. Sì, noi diamo una decima, che dovrebbe essere una decima parte del tuo reddito. Poi anche lì c'è un'estrema libertà, ognuno manda quello che si sente di mandare. Si sa però che quel tot di denaro serve per delle cose molto precise: noi abbiamo continuamente rapporti con coloro che aiutiamo, paghiamo loro il viaggio perché vengano a raccontarci e chi di noi può va e viene accolto nelle varie realtà. Ripeto, le realtà sono tantissime e diversissime e le cosiddette operazioni, è un brutto nome, sono tante. In questo momento sosteniamo una radio di alfabetizzazione popolare in Guatemala: è gente che spende pochissimo, ci hanno chiesto 5 milioni in tre anni. Durante la settimana trasmettono lezioni che arrivano a gente distante anche I2, 13 chilometri, poi la domenica dopo si ritrovano e controllano quello che hanno fatto, verificano e poi ripartono. Nel passato e ancora oggi, si è dato lo stipendio a certi sindacalisti brasiliani, in modo che potessero lavorare a tempo pieno per esempio, fra gli operai o fra i contadini del loro paese. Adesso, sempre in Brasile, sosteniamo progetti di donne per organizzare cooperative femminili. Uno riguarda la coltivazione di erbe medicinali: si utilizzano antiche conoscenze non solo per curare la propria gente a un livello semplice ma anche per esportare o comunque per cercare di avere un piccolo mercato. A Santo Domingo sosteniamo un centro, inizialmente nato per per dare un pasto al giorno e accogliere i bambini di strada dei quartieri popolari, ma che poi ha permesso di contattare le donne, le madri di questi ragazzi. A Santo Domingo c'è una situazione, dal punto di vista delle famiglie, molto confusa: ci sono coppie che si disfano, bambini che non sanno più di chi sono figli. Cosicché quel centro si è ingrandito: ora ci sono dei corsi professionali di ebanisteria, falegnameria e sartoria oppure, siccome là ci tengono molto, quando si sposano, ad avere il vestito bianco, 23 donne hanno messo su una piccola cooperativa, una specie di atelier dove fanno i vestiti da sposa che poi affittano. Un'altra attività molto interessante che è nata l'anno scorso e adesso pare vada abbastanza bene è quella di proporre un turismo alternativo equo e solidale, se così si può dire: organizzare dei viaggi in Guatemala, ad Haiti, a Santo Domingo, che però procurino beneficio alla gente del posto e non solo alle grandi compagnie come per i soliti viaggi ai Caraibi. L'anno scorso alcune esperienze sono andate benissimo e quest'anno dovrebbero proseguire. In Palestina, per esempio, abbiamo aiutato una donna che nei campi profughi aveva messo su delle cooperative di donne-che ricamavano. Sai che le donne palestinesi ricamano molto bene e l'idea era quella di mantenersi in qualche modo, ma contemporaneamente di rinnovare la tradizione, di valorizzare la propria originalità. Il gruppo che si incontra, qui a Verona, è molto limitato, ma le persone che mensilmente si impegnano saranno ali' incirca un'ottantina. Tentiamo di fare qualcosa anche qui. Adesso per esempio stiamo cercando di incontrarci con un piccolo gruppo di persone che lavora con gli zingari perché anche qui a Verona è un grosso problema. Si tratta di un gruppetto formato da un prete e tre donne che si definiscono "Comunità ecclesiale tra gli zingari" e che vivono proprio in mezzo a loro, in roulotte. Sono persone molto in gamba. Sono loro che l'anno scorso quando fu ammazzato in caserma a Padova un ragazzino zingaro, promossero una mobilitazione insième anche a Radio Sherwood di Padova e al centro Pedro. Questo gruppettino, inquel la occasione, chiese un po• di solidarietà, fece un manifesto per cercare di raccogliere firme, andò da tutti i partiti.Quell'episodio ci ha fatto rendere conto che anche per la realtà degli zingari è meglio cominciare a livello molto semplice: non grandi conferenze ma iniziando a incontrarci per conoscerci a livello umano. lo sinceramente sono un tipo ottimista, anche rispetto al problema dei giovani. La realtà che abbiamo qui è piena di contraddizioni. E' vero che ci sono giovani che tirano le pietre dall'autostrada, quelli che uccidono i genitori, che c'è ignoranza e un arricchimento velocissimo, ma bisogna stare attenti anche a non creare uno stereotipo. Secondo me certi episodi vanno anche contestualizzati altrimenti non ne capisci niente: perché poi in questa realtà trovi anche i Beati Costruttori di pace che radunano nelle varie arene 20 mila persone per lo più giovani e gli scout che sono una realtà molto vivace, forse anche molto importante. La difficoltà per cui la loro voce si sente molto poco forse sta nel fatto che non sentono di star facendo politica. E invece loro devono arrivare ad acquisire la dignità del fatto che stanno già facendo politica, perché nel momento in cui propongono a livello molto concreto modelli diversi da quelli che vanno per la maggiore, loro stanno facendo politica. Ma bisogna che ne diventino consapevoli. E da un po' di tempo questa della politica è una cosa che è tornata a tormentarmi. Sento che bisogna rimettersi a farla, politica nel senso non tradizionale, ma per produrre un cambiamento. Bisogna dirselo che non si sta facendo del bene, del puro assistenzialismo, ma un'azione politica anche se molto piccola e incompleta. Questo problema lo sento molto anche nella mia professione, nel lavoro che sto facendo in classe quest'anno. Non so bene dove si potrà arrivare, e a un certo punto bisognerà anche fermarsi, rivedere, riesaminare le cose fatte. Credo però che sia necessario prendere in mano la situazione, certo, guardandola con occhi diversi da quelli che avevamo 20 anni fa, partendo da una revisione piuttosto profonda delle cose, ma avendo anche il coraggio di proporre un messaggio, un discorso educativo, un rapporto che sia alternativo al modello attuale, non in senso ideologico, lo ripeto, ma proprio nel senso del vivere quotidiano. Educativamente parlando, aprire lo sguardo sull'altro mi pare molto importante. I ragazzini piccoli sono ancora molto disponibili, il problema è cominciare molto presto perché quando si è alle superiori i giochi sono già abbastanza fatti. B ~- 1 I» UNA CITTA' o Fino a qualche tempo fa ero più cauta nel dire certe cose, oppure nel fare delle proposte anche proprio di studio, perché pensavo che, in un certo senso, bisognasse rispettare tutti , ma da un po' di tempo ho deciso che bisogna entrare in campo assolutamente. Mantenendo il rispetto verso la persona senza imporre o contare sul ruolo ma dicendo le cose come stanno, fornendo stimoli, e tanti. Io lo seri verò anche nella mia relazione finale che ho preferito fare il Risorgimento in tre minuti, per poi parlare di più della questione meridionale, voglio che sia anche verbalizzato, non voglio che rimanga una scelta tra me e me. Questo è l'impegno politico ed è un risvolto della storia che ti ho raccontato: d'altra parte credo che nelle scuole stia crescendo proprio il bisogno di un lavoro simile perché stanno arrivando i bambini extracomunitari e si pone il problema di cosa fare, a volte anche a livelli molto banali. Per esempio loro non mangiano il maiale, e allora gli altri si lamentano e dicono: "per questi fate delle cose che per noi non fate". Cè tutto un lavorio sotto, il bisogno di dover rispondere a delle domande o a delle richieste molto materiali, da cui può nascere l'accettazione di una cultura diversa. Abbiamo fatto un corso con un direttore di scuola elementare di Imola, dell'Mce, il Movimento di cooperazione educativa, che si chiamava Altre culture: eravamo tanti e lui ci ha fatto fare tutta una serie di giochi cosiddetti "fuori dal comune", con scambio di ruoli, con un lavoro sull'altro, com• è e come non è, ed è stato molto bello perché non è affatto venuta fuori una banalizzazione del tipo "bisogna volersi bene", ma, anzi, che è difficilissimo convivere con le altre culture. Le contraddizioni reali che esistono nel rapportarsi sono venute fuori tutte, le abbiamo vissute anche a livello di esperienza tramite questi giochi. Io sono credente, praticante, ma considero sbagliatissimo il precetto. L'ho sempre odiato perché ti tarpa le ali. Sono sempre più convinta che è un gran bene se si riesce a far capire anche ai giovani, anche ai ragazzini, che la realtà è complessa e che non ci sono solo buoni e solo cattivi, che non esistono i buoni tutti da una parte e i cattivi tutti dall'altra, ma che bisogna andare a capire le cose ciascuna per quello che è. E non bisogna avere paura di dire le cose, perché l'irrigidimento ti chiude gli occhi, mentre il misurarsi con le cose anche se è molto più difficile e rischioso, anche se ti pone dei grossi problemi perché all'inizio brancoli nel buio, però, in compenso ti permette di vedere e di lavorare. E' grave, invece, il rischio di chiudersi in un'ideologia che, se vuoi, è molto rassicurante e che a parole nessuno rifiuta: che non bisogna essere razzisti non c'è nessuno che non lo dica, neanche Fini lo dice e allora qual è la differenza tra noi e Fini? Io credo che bisogna andare proprio a toccare quei punti senza paura. Sì, se vuoi, la decima non è poco. E' un piccolo investimento, un piccolo antinvestimento. Ma sono soldi che non abbiamo mai rimpianto. Dirò anzi che abbiamo quella sindrome da borghesi che hanno soldi e che quindi si sentono anche in dovere moralisticamente di fare qualcosa. A me pare giusto insomma, che a partire dalla mia sicurezza economica, dal fatto che i soldi sufficienti per stare più che bene ci sono, si riscopra anche uno stile di vita più sobrio, non povero nel senso assoluto ma più personale, che possa anche essere trasmesso ai nostri figli. Da là, arriva anche questo messaggio: non solo quello, per altro chiarissimo dello "sviluppo sostenibile", che se 6 miliardi di persone improvvisamente vivessero come noi occidentali crollerebbe proprio l'eco-sistema, ma anche nel senso dell'educazione nei confronti dei più giovani, della possibilità di riscoprire altri stili di vita più vicini, concreti. Basterebbe vedere quanta roba da mangiare si butta via a scuola. Nelle mense scolastiche si mangerà pure male, ma c'è anche una grande abitudine allo spreco perché i ragazzi arrivano con ogni sorta di schifezza! Si deve lottare perché la mensa sia dignitosa, però si può mangiare anche un pezzo di formaggio. Fai un giro dalla parte dei piccoli, si butta via di tutto e poi mangiano di tutto, continuamente, durante le cinque ore di scuola. Non li vedi far altro che masticare: la cicca, la caramella, il cioccolatino, la merendina. E così per tutto il resto. Per i ragazzi, ora c'è il barbour, poi il motorino, e poi tutta la roba firmata. Si parte dall'astuccio alle elementari, ma cosa dico, da molto prima! Prova ad andare un giorno in un negozio per bambini piccoli, dove le madri vanno e comprano i "coordinati" per i figli, 700/800 mila lire di roba, dalla giacca alla camicetta, al maglioncino. Ecco, io odio i negozi di un questo tipo, provate a entrarci, è pazzesco. E poi i ragazzini: bisogna avere le Nike a 250 mila lire e gli Avirex a 140 mila lire. Ma perché? Adesso sono in lotta con mia figlia per gli anfibi. Io le dico: "ascolta un attimo, quest'anno ti vanno ancora bene, li hai comprati l'anno scorso, io non te li compro: l'anno prossimo ti comprerò gli anfibi, se ti piacciono ancora". Io dico loro: "ragazzi, siamo andati in Grecia venti giorni quest'anno, andiamo a sciare due o tre giorni a marzo, non è che vi priviamo di cose ...". E anche a me piace avere delle cose, girare per negozi, però voglio educarli anche ad accontentarsi di quello che si ha, ad essere consapevoli di quello che si ha. A casa mia ho vissuto molto questa mentalità del dire: "abbiamo a sufficienza". Forse con troppa rigidità da parte di mia mamma. Io ero l'unica femmina, ho altri quattro fratelli maschi e sul vestito di una ragazza si risparmiava sempre. Ho avuto roba delle mie cugine per anni e anni e devo dire che a me è pesato, a un certo punto. I miei stavano bene, mio padre era avvocato, anche mia mamma era figlia di un avvocato, però, forse per via della guerra, avevano questa idea. Oggi devo riconoscere che quella vecchia borghesia non spendacciona, un po' austera era dignitosa nella sua consapevolezza di ciò che aveva e di quello che poteva fare con quello che aveva. Anche i nostri figli devono sapere che noi facciamo delle cose anziché altre, mi pare importante. E devo dire che in qualche momento hanno dato anche loro, di loro tasca, un contributo e per ora, non hanno mai recriminato. Ma sono ancora piccoli, il più grande ha quattordici anni. Credo che sostenere l'idea di uno stile di vita dove si può anche rinunciare a qualcosa ogni tanto, proprio per rinunciare, anche solo per poter dire: "ho tutto, posso anche fare a meno di avere stratutto", sia un fatto educativo. -

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