Volontà - anno XIV- n.3 - marzo 1961

quasi in delirio. Lo vedevo sulla nave, lontano, in alto mare, e Io pian• gevo per morto. Quando arrivò la prima cartolina con In fotografia della nave la conservammo come reliquia. Papà non era andato mai a scuola. Doveva partire soldato e non sapeva nè leggere uè scrivere. Fu in quell'occasione che sua madre pensò alla sua istruzione. Bastò un mese di lezioni private per aprirgli le idee. Gli si svegliò la fantasia, gli nacque il desiderio di leggere, d'imparare, di conoscere il mondo. Figlio di mura. tore a secco, aveva avuto un'infanzia dolorosa. Aveva cominciato dall'età di sette anni a guadagnarsi il pane, portando le pietre sulle spalle, sempre dietro a suo padre. Papà ama il lavoro, ma pii'1 che il lavoro ama l'arte nel suo lavoro. Spesso è assorto, assente, come se si mescolasse con la natura e comuni– casse con le pietre. Parla solo solo, talvolta, e tentenna la testa, approva e disapprova con gesti espressivi e i suoi dipendenti lo guardano stupiti e sorridono in silenzio. Papà è straordinario. Ha un intuito, una fantasia, un'eloquenza con– tadina impressionante. Egli non sa quello che è, in tante cose è diffidente e limitato e va a tastoni, in altre è sicuro e prende la voce e le mosse d'un veggente. Mi predisse, ad esempio, che sarei stata infelice con mio marito. « È un analfabeta», diceva. E per lui un analfabeta è un cieco. Un'altra volta presentì che io dovevo tribolare per dieci anni e soffrire pene inau– dite. Qualçhe volta mi dice: « Verrà un giorno che avrai grandi sod– disfazioni ». ... La vita della mia famiglia era monotona e soffocante. I miei mi trattavano severamente, mai una carezza, mai un bacio affettuoso. Appa– rivano sempre carichi di preoccupazioni e di fatiche, come bestie da soma e tutto per poter sopravvivere. Allora non capivo perchè quello spettacolo, quell'atmosfera mi rendesse infelice. Ero nervosa, mi scuotevo per un nonnulla. Sola e incompresa, mi affezionai a wt'amica, un'orfana, brutta come là. fnme e quasi schivata da tutti perché cognata di wio spazzino: a Ragusa la gente si vergognava di certi mestieri. A lei aprii il cuore, ma la poverina rideva ad ogni mio discorso, non capiva niente, era una crea• tura senza cervello. Cosa volevo, cosa cercavo nessuno poteva capirlo. Ma a me mancava la musica, l'arte, la poesia. Avevo fame di queste cose e non sapevo dirlo, perché erano cose sconosciute in quel mondo di primitivi e di selvaggi. Qualcuno consigliò a mia madre di trattarmi come si trattano i cavalli falsi: poco mangiare e molto lavoro. Così mi sarebbero svaniti i fumi dell'età. E mia madre mi considerò appunto come una giumenta da domare, sicura che mi sarebbero passate quelle idee pericolose che portano al disonore e alla perdizione. Finii per ammalarmi di cuore, di nervi, a 15 anni ero divenuta insopportabile a me stessa e agli altri. Mi credettero una squilibrata. Poi nessuno mi badò. Ero condannata a vivere tra aridi e pesanti macigni. Non conobbi le tenerezze di una madre ed ora che 181

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