Una città - anno III - n. 19 - gen.-feb. 1993

sepolture rimangono vicine al le chiese vi è una sorta di continuità fra le due città: vi sono molti cimiteri, ma non vi è un unico luogo deputato alla morte. E' una commistione di stati, di ceti, la proiezione, in un certo senso, della commistione di ruoli e di ceti presente nelle città sotto l'antico regime, dove tutto s'incrocia: ci sono i palazzi nobiliari vicino alle catapecchie ed il senso della gerarchia è così forte nella mentalità della gente che non si sente il bisogno di certificarlo attraverso una separazione nella vita reale. La rivoluzione francese porta alla distruzione di quest'ordine gerarchico -a suo modo egualitario nella comunanza di determinate abitudini, ma estremamente gerarchico nella realtà delle cose- e crea, viceversa, i luoghi separati: come all'internodellacittàsi creano iquartieri operai e si tengono i quartieri deputati alla produzione ben separati dai centri residenziali borghesi o nobiliari, così anche all'interno delle necropoli, delle città dei morti che nascono per ragioni sanitarie, viene a riprodursi lo stesso schema. Il cimitero monumentale di Forlì da un lato è una vittoria perché la rendita fondiaria viene utilizzata per dare lavoro ai ceti artigiani ed operai urbani, dal l'altra parte è una vittoria di Pirro perché poi, come qualsiasi cimitero ottocentesco, non è un luogo egualitario, riproduce esattamente la divisione classista esistente all'interno della città urbana. Infatti ha una parte alta, quella del porticato, appannaggio delle famipi sociali rimasti senza voce, i quali cominciavano a parlare trasmettendo qualche rapida parola, qualche cenno di sé attraverso la semplice lapide che recitava: "operaio, muratore, padre esemplare, "consigliere comunale, vissuto sempre nella sua fede politica". Tante piccole testimonianze, queste, di lavori, di idealità, di passioni, tipicamente ottocentesche. Questo, a mio giudizio, è un grave danno per la memoria della collettività, perché di queste persone che normalmente non scrivevano sui giornali, non lasciavano tracce negli archivi, non è possibile spesso trovare elementi, testimonianze al di fuori della semplice lapide. Fino a qualche anno fa nel centro del camposanto monumentale c'era una piccola lapide cotta dal sole che ricordava Filippo Marinelli, il fondatore della scuola laica a Forlì. Questo maestro muore nei primi mesi del 1883 e ne parla Guarini nella sua cronaca manoscritta, narrando del suo funerale a cui avevano partecipato tutti i democratici forlivesi. Marinelli aveva fondato la prima scuola comunale, con I. insegnanti stipendiati dal co1 mune, soppiantando le scuole d~ religiose, cercando di estendere questa istruzione anche alle borgate principali del forese. glie più eminenti della città, sia nobiliari che medio-alto borghesi, e una parte bassa in cui si ritrova una piccola borghesia, un artigianato allora nascente, un certo tipo d'ambiente popolare già uscito dalla fase della miseria. _Esso cerca, tramite la lapide, di affermare questa piccola conquista di status, di ceto, avvenuta magari nel volgere di una sola generazione. Questo spiega la particolarità del cimitero forlivese, che ha le sue cause negli anni in cui viene costruito: un'operazione che comincia nel 1867-68, si compie nel '92-93 nella struttura generale e viene proseguita negli anni dopo la prima guerra mondiale con un ampliamento. Abbiamo, infatti, la fotografia di un assestamento gerarchico dei rapporti di forza all'interno della città che è quello tipico del tardo ottocento-primo novecento. Fotografia nitida e concreta per ciò che riguarda il loggiato, dove le edicole dei nobili e degli alto-borghesi sono rimaste sostanzialmente intatie e ancora molto parlanti, ricche di dati e di notizie, oscura per la parte bassa. La città dei morti piccolo-borghese, artigianale, uscita dalla zona d'ombra della miseria, sta riscomparendo, sta ritornando nella miseria, nell'oblio perché, nel corso dell'ultimo decennio, l'estinzione di alcune famiglie ha indotto l'amministrazione comunale a sostituire queste con altre lapidi e tombe di famiglie più recenti. Queste ultime tombe hanno finito per alterare la fisionomia storica della struttura del cimitero monumentale con conseguenze che interessano i grupLa famiglia si estingue perché il figlio si trasferisce a Cesena diventando anche lui un apostolo dell'istruzione elementare e il nipote, un giovane intellettuale mii itantedemocratico-socialista, muore nel 1915 in guerra. La lapide di questo maestro, -a cui Forlì deve tantissimo, perché ha imposto I'ossatura di un sistema d' istruzione elementare di cui la nostra città è giustamente orgogliosa- è stata rimossa e non si sa dove sia andata a finire. E come lui chissà quanti di cui si perderà la memoria storica. Una proposta possibile potrebbe essere questa. Posto che la storia cammina e che ci sono tanti piccoli notabili desiderosi di sostituirsi ai vecchi all'interno dello spazio prestigioso del cimitero monumentale si potrebbero conservare le lapidi delle famiglie estinte in un deposito e costruire una topografia dell'ubicazione di queste lapidi; altrimenti si possono trascrivere o fotografare. In questo modo sarebbe possibile mantenere un ricordo di questa distribuzione, cosa fondamentale per la memoria cittadina. Dal punto di vista di uno storico la parte più importante del cimitero non è la parte alta, ma la parte bassa, perché quelli della parte alta parlano già, sono loquaci nei documenti degli archivi comunali, sui giornali, è tutta gente che parla già molto nella città; è nella parte bassa che si raccolgono le flebili voci di una Forlì minore che è poi l'ossatura della Forlì attuale, della Forlì dei lavoratori emersa attraverso la formazione dei partiti di massa, che si è poi consolidata nel secondo dopoguerra e che ri- , .' schia lentamente di scomparire. Bisogna aggiungere un altro elemento: la presenza delle edere, delle stelle d'Italia, dei simboli massonici e delle corporazioni al posto delle croci, i quali dividono in settori ideali il cimitero e consentono ancora una volta di ponderare l'adesione, anche nella morte, di questa Forlì estinta a un certo quadro di principi di riferimento ideali che allora erano quasi elementi di culto. La tomba di Saffi, per esempio, è la classica tomba laica anche se vi è un compromesso fra valori religiosi e laici, con una croce coperta di edere e una scritta: "Non credo nella morte, credo nella vita", (frase di Mazzini recuperata da Giorgina Saffi, di religione anglicana), che dà l'idea di questo grande e magmatico mondo in cui la religione non è qualcosa di codificato una volta per tutte. Oggi paradossalmente viviamo in un'epoca nella quale il conformismo religioso è forse più forte d'allora, per quanto negli ultimi anni siano emerse a Forlì altre esperienze e un salutare pluralismo religioso; ai tempi di Saffi il predominio della religione cattolica era più discusso, era un problema la scelta tra un funerale laico ed uno religioso, e se era laico fino a che punto doveva esserlo. Nella seconda metà dell'800 viene proposto di costruire nella nostra città una chiesa protestante, segnale della presenza di un filone anglosassone che viene filtrato dalla famiglia Saffi e che penetra anche nel- )' ambito del l'associazionismo femminile avviato da Giorgina Saffi, attiva a Forlì dopo il 1861. Un grande mondo di valori che va ristudiato con maggiore attenzione e che può essere ben chiarito da ricognizioni accurate sul patrimonio lapidario del cimitero. Questo cimitero ha un •limite temporale, grosso modo la I guerra mondiale, l'ultima guerra "eroica", con un numero esorbitante di morti nelle più varie esperienze, certificato dalle lapidi e dalle fotografie dei defunti. Dopo questa guerra i nuovi defunti vengono sepolti in tombe senza lapidi, semplicemente coi nomi e le date di riferimento. li problema della conservazione del la memoria trasmessa dal cimitero monumentale non è mai stato sollevato in maniera significativa; ciò dipende dal fatto che questo tipo di fonti è da poco tempo che viene utilizzato adeguatamente negli studi storiografici: in Italia ancora in maniera poco rilevante, in Francia già da un decennio. Nel nostro paese non c'è ancora la sensibilità e la cultura appropriata; ma questo patrimonio va salvato ed il problema va posto e non occorrono grandi investimenti per risolverlo, basterebbe attuare le poche idee di cui abbiamo parlato prima. CONSEGNARSI A QUALCUNO "Nella vitasi può anche morire" dicevaMiguel Manara. Edifatti succede. Eppure -ma perché?- della morte non se ne parla quasi mai. E siccome inevitabilmente arriva, ci si trova immancabilmente impreparati. Naturalmente per quanto ci ragioniamo su, rappresenta sempre un appuntamento importuno, che non potremo mai affrontare preparati. Si muore una volta sola e, si sa, una "volta sola è mai". Disporsi, farsi forza, cercare di capire? Ma è proprio questo il terribile della morte: che proprio il soggetto che si dispone, si rafforza e cerca di capire è proprio colui che muore; si infiacchisce, si ammala, si obnubila, cambia. Muore. Non muore un pezzo di noi, non "si cambiano i cavalli alla stazione" ironizzava Nietzsche. No, siamoproprio noi, quel che siamo, che moriamo. Per questo la morte è l'Awersario, la potenza del nulla, Il corpo del peccato, suggerisce la teologia cristiana. Viene però a questo punto da chiedersi se, pur nella nostra impotenza radicale, proprio non ci sia nulla da fare, se non subire passivamente la morte e il morire. Solo la tecnicizzazione medica è la risposta dell'uomo? Dopo tutto illustrissimi storici della "morte in Occidente" hanno messo bene in luce che questi nostri atteggiamenti di negazione, di censura della morte sono recenti: solo di qualche secolo. Non sempre è stato così. Non sempre si è affrontato la morte semplicemente non parlandone mai. In Oriente per esempio si muore diversamente: "solo un soffio ci separa dalla verità" e questo sospiro è la Morte. Come si è detto per il dolore, anche della morte si può pensare che non esista in sé, che non sia un fenomeno sempre identico e universale, ma che subisca piuttosto le variazioni delle successive elaborazioni culturali; miti, riti, psicologie individuali e culture. Ogni morte è un evento singolare. E il nostro modo di vedere la morte è stato quello di non vedere. Censura. Proprio nel secolo della mega-morte, dei grandi stermini collettivi. Ma forse alcune di queste tragedie hanno proprio una loro radice nel volere interpretare tutto con gli occhi della morte: l'uomo stesso come un essere-per /a-morte. Qualcuno lo ha sostenuto: queste filosofie hanno anticipato il nazismo. Non più la morte evento dell'uomo, ma al contrario l'uomo pensato a partire dalla morte. Ideologie. Tentazioni anche religiose. Non conviene invece mantenere fermo l'orrore per essa? Chi non ha paura e orrore della morte, corre anche il rischio di inferirla facilmente agli altri. "Voi occidentali avete paura di morire, noi no" ci dicono i fondamentalisti islamici. "Solo il filo della spada ci separa dal paradiso" si gridava una volta al/inizio della guerra santa; e ancora oggi, sui nostri giornali si dà notizia della "marcia suicida dei Palestinesi di Hamas verso i campi minati del Libano meridionale". Ma si può, per il paradiso o per la terra, morire con tanta facilità? Preferisco chi davanti alla propria fine "cominciò a sentire paura e angoscia" (Mc. 14. 33.). E' più grande perché più umano, con la consapevolezza non esaltata e con tutte le risorse della propria umanità. Chi può consolare della morte? Gli uomini prima di tutto;gli "effimeri",come li chiama la tragedia greca, che la devono patire sono anche capaci di lenirla. La vicinanza, la comprensione di un altro può sostenere quando si è alla fine. L'angoscia è la solitudine, la grazia è il contatto. Toccare chi muore. Se è vero e importante che la morte ci trovi vivi, come insegna va Concetto Marchesi, è altrettanto vero però che saranno proprio gli altri che standoci accanto, con cura e compassione, ci richiameranno sempre al rapporto vivo. Ma si muore così oggi nei nostri ospedali? O negli improvvisi incidenti delle nostre strade? Ho visto morire ed ho imparato due cose: che conta molto star vicino al morente, ma anche che questi da parte sua sappia "consegnarsi", abbandonarsi agli altri; a chi almeno gli vuol bene. Consegnarsi contiene una tale potenza di consolazione, anche laica, che cela tutto il mistero dell'uomo, l'essere-per- /'amore. Consegnarsi è l'arte di amare che si impara lungo tutta la vita. Il santo bevitore di J. Roth pregava "Conceda Dio a tutti noi, a voi bevitori, una morte così lieve e bella". Non è tacendo con la pura tecnicizzazione come abbiamo fatto nella cultura moderna, e nemmeno negandola nell'eroismo di una fede (non solo islamica) che potremmo affrontare umanamente la morte; è più a misura di uomo, persino più sereno, viverla con il conforto della presenza degli altri, consegnandoci a chi si cura di noi. O con il segreto di un Amore più grande da cui "né morte, né vita ci può separare". Sergio Sala UNA CITTA' 7

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