Una città - anno III - n. 19 - gen.-feb. 1993

"Credevi di poter prendere la luna fra le mani e non sei sfata capace neanclte di raccogliere i fiori del tuo giardino". Alla fine, in ungiardino faHosi ormai streHlssimo di fiori Carla lta saputo raccoglierne fanti. I di tanti amici erano i fiori clte riempivano una cltiesa. Luisa Campana racconta di sua figlia Carla, morta di Aids a 26 anni. Carla nasce nel 1963, trascorre la sua infanzia fra Cesena, Ravenna e Bertinoro. Poi il liceo scie111iflco degli anni 77-78. la ribellione, due viaggi in India, la droga. Per tre anni. Quando riusce a uscirne inizia per lei un'altra loua. quella contro l'Aids. Ha il conforto di wwfede trovata in 1111 /e11od'ospeda/e e poi nell'aiuto prestato ad altri sofferenti. Negli anni successivi vede morire lllnti suoi amici fra cui anche /'ex-fidanzato. a cui era rimasta legllla da amicizia. Con la passione della scritlllra, riesce a "prendere" solo degli appunti. Muore ne/l'agosto del/'89. le sue "lei/ere e appunti" sono ora pubblicati per Nova et Vetera. Dalle foto non sembrava malata. Infatti, è una foto di 8 mesi prima della morte e si vede come Carla avesse avuto la fortuna durante tutto il periodo della malattia di mantenere un aspetto normale, non da ammalata. Non era stata devastata dalla malattia. Era stata colpita, anche duramente, un anno prima era stata in coma per una crisi di polmonite da pneumocisti carini , ma poi si era ripresa ... E così in questo periodo di "pseudo salute", lei ha potuto vivere normalmente, andava al Sert, come collaboratrice di segreteria. viveva a casa, frequentava amici. Questo per Carla era anche un problema: stare bene mentre vedeva morire tutti gli altri. "Mi chiedo, mi interrogo, mi torturo. Nella mia rubrica ormai ci sono solo numeri muti, nessuno mi risponderà se li faccio, e allora mi chiedo perché io e tutti loro no..." E scrive queste parole nella primavera del1'89, quando un'amica che stava abbastanza bene come lei, se ne andò all'improvviso in una settimana. Questi ragazzi, fra l'altro, sono molto sensibili alle piccole variazioni del decorso della malattia e finché si sentono bene sono anche tranquilli, pensano di avere un certo margine di tempo. Questa ragazza, infatti si pensava potesse vivere ancora un anno o due e invece ... E Carla che già ne conosceva tanti che, allo stadio terminale, stavano male e sarebbero certamente morti prima di lei, questa morte l'ha sentita come una cosa ancora più ingiusta. S'è sentita come una privilegiata ... Già lo era per l'aspetto fisico, per la possibilità di avere degli amici, di essere aiutata. E' stato un momento di crisi ... una crisi inutile perché dopo tre mesi è morta anche lei ... E' come se abbia chiesto giustizia e che sia stata accontentata. Naturalmente non è così, perché anche lei era arrivata alla fine delle sue risorse, anche se non sembrava... Carla aveva ritrovato anche un grande amore per la vita? Sl. E questo è successo dopo sei mesi di ricovero ininterrotto al Maggiore di Bologna e col successivo incontro con la Casa della Carità di Bertinoro che per lei è stata determinante. Qui ha incontrato suor Giovanna, che aveva la sua età, una suora molto dolce, capace di trasmettere felicità di vivere, calore, comprensione, solidarietà, solo con la presenza, senza bisogno di parole. Infatti le più belle lettere di Carla sono a lei, le ha raccontato tutti i suoi problemi, e delle cose che per una suora credo siano abbastanza inedite come esperienza di vita, ma l'ha fatto con naturalezza, perché ha sentito che suor Giovanna l'accettava I" così com'era. E poi ha incontrato Valeria, una donna con la sclerosi multipla, paralizzata a letto da 5 anni, però lucidissima, che ha dato a Carla, per la prima volta dopo la droga, la sensazione di poter essere utile. Chiedendole di aiutarla, facendole capire che aveva piacere che fosse lei ad accudirla, ha fatto improvvisamente sentire a Carla che, malgrado la droga di ieri e la malattia di oggi, poteva essere ancora una persona e dare qualcosa a qualcuno. E questo ha fatto emergere la Carla degli ultimi Ire anni che non solo per me, ma anche per tanti altri, è stata una persona meravigliosa. Una persona che ha affrontato a testa alta una malattia così tremenda, e che, non potendola vincere, ha lottato per trarne degli insegnamenti. Rifiutando ogni ricorso "razionale" ai calmanti e analgesici, scrive "cosa vuoi che ti dica, bambina, questa situazione è un affare che se vuoi ti toglie tutto ma ti può insegnare anche più di tutto". E osservando la sua compagna di stanza che dorme profondamente dopo aver preso dei Tavor: "non la invidio affatto, preferisco di gran lunga essere presente e mangiarmi il cuore, sono finiti i tempi delle fughe e degli anestetici. Finiti, capiti, sofferti e superati e ne vado molto fiera". Quindi preferisce la sofferenza della malattia alle fughe precedenti, alla droga cioè. Anche se, scrive "miseria, Carla, non lo potevi capire prima che non c'è scampo, ... perché mai non ti sei fermata prima, perché hai voluto entrare a tutti i costi nel- )' apocalisse, credevi di essere aquila e ti sei ritrovata struzzo, credevi di poter prendere la luna fra le mani e non sei stata capace neanche di raccogliere i fiori del tuo giardino" ... E per un genitore? Sapere che il figlio è comunque condannato? Devo dire che il senso della morte, della perdita del figlio l'ho provata di più quando ho saputo che mia figlia era tossicodipendente, di quando ho saputo che era ammalata di AIDS. Quando si ha un figlio tossicodipendente, la prima cosa che si pensa è proprio la morte, perché il cammino della droga è il cammino verso la morte, alla morte come scelta di vita. E per un genitore all'inizio c'è proprio il panico, totale e assoluto, ci si sente come un animale braccato, completamente impotenti e inutili di fronte al dominio perverso di un'entità che stravolge il figlio e contro cui non si sa cosa fare. Si prova in tanti modi, si vuole credere alle promesse del figlio e ogni volta non solo si è sempre delusi, ma addirittura la situazione peggiora. Fra l'altro il tossicodipendente è molto bravo a impietosire, a far leva sull'affetto dei genitore ... Quindi, piano piano, in tutto questo cammino che può essere di uno o due anni, ci si rende conto che di fronte si ha solo la morte, e si aspetta la telefonata della polizia... La morte per un incidente o per overdose, o per una dose tagliata male comprata dal tizio che non hai ancora pagato e che te la dà proprio di proposito ... fatti che succedono tutti i giorni. E però, certo, tutto sommato si spera, non è ancora una condanna definitiva. Ma resta il fatto che se tuo figlio continua a drogarsi è comunque un figlio perduto perché il ragazzo che si droga non ha più sentimenti, ha solo la droga. Ma c'è comunque la speranza che possa uscirne... Mi veniva da pensare, ascoltandola, che con la droga lei ha perso sua figlia e con I' Aids l'ha riacquistata e che quindi odii di più la droga che I' Aids ... lo non direi che ho ritrovato mia figlia, è lei che ha ritrovato se stessa, anche la madre certo, ma tutti gli affetti, il fratello, l'amica, un ragazzo, e poi un lavoro, ha ritrovato tutto. Che dopo poi al fondo ci fosse la malattia quella era una conseguenza della droga. Di quel rifiuto di vita, perché alla fine drogarsi vuole dire rifiutare la vita, significa nascondersi, non affrontare la realtà così com'è, cercare di non fare, gettare la spugna ... Lei lo ha capito ed è per questo che alla fine si è ribellata e ha voluto tenere gli occhi aperti di fronte ali' AIDS piuttosto che ritornare nell 'obnubilamento. Resta però l'atrocità dell' Aids: uno fa tanta fatica per uscire dalla droga, da quella che Carla chiama la sua apocalisse, e una volta fuori trovarsi con la data di morte già scritta ... Vuole che non sia d'accordo? E' una cosa tanto assurda che si può accettare soltanto se ci si rifugia nella fede. E' veramente una beffa atroce del destino... Di qui nasce il discorso di trovare consolazione in unarisposta di fede, perché la ragione ad un certo punto non è più sufficiente, si rischierebbe solo la pazzia. Una risposta di amore e di rassegnazione di fronte a qualcosa che non si può capire, e che, tutto sommato, se ci capita, non possiamo non affrontare. Sfido chiunque a dare una risposta razionale ali' enormità di questa malattia che va a colpire proprio i più giovani, i più deboli e che non guarda in faccia a nessuno, nel senso che uno che ha fatto un certo cammino dovrebbe, fra virgolette, avere la ricompensa, non la condanna. In questo senso è tremenda e anche ingiusta. Certo, come l'AIDS c'è anche il cancro, tuttora invincibile e ci sono bambini che muoiono di tumore cerebrale ... e questo forse è ancora più ingiusto ... Ma poi ci sono anche tutti gli CO altri aspetti di questa malattia. Oggi è la malattia più ghettizzante che possa esistere, perché coinvolgendo la sfera sessuale si ripete quello che si era verificato per la sifilide, negli anni in cui non era curabile. Poi c'è il fatto del contagio che fa del malato una specie d'appestato. E mi sto rendendo conto adesso, seguendo altri casi, che ci sono molte famiglie che si vergognano, che hanno dei problemi molto gravi nell'affrontare questa realtà brutta, pesante e dolorosa. Proprio perché nella stragrande maggioranza della gente c'è il concetto che, tutto sommato, te la sei andata a cercare. E che si debba essere emarginati anche nella propria famiglia mi sembra una cosa proprio molto cattiva e disumana. E se in queste condizioni di emarginazione e nella certezza di una morte prossima, si deve affrontare anche il problema di uscire dalla droga, è veramente allucinante, una condizione di lotta terribile per questi che spesso sono ancora solo dei ragazzi. Ma forse è per questo che in tanti, di fronte alla malattia e a una morte certa, dimostrano un grande coraggio e dignità. L'ho visto in Carla ma anche in tanti altri. E vedere una ragazza riuscire a trovare questa forza per presentarsi nel suo aspetto migliore, dar fondo a tutte le sue energie, quelle che fino al giorno prima aveva sprecato, per portare avanti una battaglia per dire a tutti che lei è un essere umano come gli altri, questo per me è stato così sconvolgente che ha modificato completamente la mia vita. E' come se la sofferenza entrata nella mia vita così profondamente tramite mia figlia mi abbia fatto toccare con mano tutta la sofferenza di questo mondo e di sentirmene parte. E così ora tento di fare tutto il possibile, nel limite del mio possibile, con tutti i condizionamenti e i limiti del passato, di fare qualcosa di concreto nei confronti dei più emarginati, dei più poveri, dei più piccoli: dei malati di AIDS, appunto, che credo siano oggi veramente gli ultimi fra i sofferenti, i più emarginati e meno capiti. Sono impegnata inuna associazione che si chiama Asa65, che ha come scopo quello appunto della solidarietà agli ammalati di AIDS in ospedale, a casa, dove capita ... Un impegno che, soprattutto all'inizio, è stato abbastanza difficile, perché stare vicino ad un ammalato di AIDS è come rivedere Carla nelle sue sofferenze. Poi però quando ho la sensazione di essere un pochino utile a questo ammalato anche solo per dieci minuti, per dargli un attimo di speranza, e vedo un piccolo riscontro che può essere anche solo un piccolo sorriso, o una telefonata che mi fa in un momento di disperazione, ecco, allora mi sembra di aiutare ancora Carla, mi sembra di rivedere la gioia di Carla quando si riprendeva. Anche a livello di fede il mio cammino è stato parallelo a quello di Carla, insieme alla sua esperienza alla Casa della Carità, ce n'è stata una mia, prima quasi per contagio e poi invece proprio strettamente personale. Indubbiamente posso dire di avere ritrovato la fede, forse per non impazzire, per disperazione, però quella che ho oggi è una fede autentica, non è la fede che avevo da bambina. Io oggi sento una vicinanza con mia figlia tramite questa fede, una grande possibilità di incontro spirituale, una grande sintonia. Mi sembra che da sua figlia abbia preso tanto ... Ma tutte le persone che soffrono danno tanto. Durante la settimana lavoro e quindi riesco a trovare un po' di tempo solo per l'associazione, ma la domenica mattina vado regolarmente alla Casa della Carità di Bertinoro, a trovare gli ospiti della casa. Dò da mangiare a Valeria, il pasto di mezzogiorno, la imbocco io, tanto per intenderci. E qualcuno potrebbe dire: "ma guarda come è brava quella lì, com'è caritatevole" ... E invece mi vado a caricare, e se non vado su la domenica e non incontro Valeria, la settimana dopo sono molto più stanca nel mio impegno, non mi sento come quando vado su da lei. Perché vedere una persona che con la sclerosi multipla, immobile in un letto, che muove solo gli occhi e leggermente la testa, riesce a trasmettere voglia di vivere, serenità, che ha voglia di scherzare anche quando si dispera e sta male, sentirle dire che, parlando col Signore, gli chiede che quando la prenderà di là, che almeno non la metta stesa, perché di là lei vuole correre, ballare, fare questo e quello, e sentirla riderci sopra è una cosa che fa un gran bene. Bisognerebbe andarci per capire. Quindi non è vero che siamo noi sani a portare qualcosa a quelli che soffrono. Se ci sentiamo sul loro stesso piano, sono loro che danno qualcosa a noi. Perché altrimenti non è solidarietà. E io sono convinta di prendere molto di più di quel poco che dò, di trarre una grande energia da questo incontro, un'energia interiore che nessun'altra cosa me la può dare. Torniamo indietro. Com 'era arrivata alla droga Carla? Carla, quando era molto giovane, era partita con una gran voglia di giustizia, di coerenza, di bello assoluto, e quindi già a 14-15 anni ha cominciato a contestare tutti i compromessi e gli accomodamenti a cui le sembrava che tutte le persone fossero condannate. I giovani sono sempre molto impulsivi, molto immediati e vogliono su- _1.i) bito tutto, e Carla lo era particolarmente. A quattordici anni era lei che spiegava agli altri come bisognava fare per non cadere nella droga e questo mi dava tanta tranquillità, mi faceva pensare che lei avesse una maturità speciale. Ma era solo apparente, in realtà dentro di sé probabilmente aveva tante incertezze e tanti dubbi che non era facile capire. Verso i 15 anni ha cominciato a detestare tutto l'ambiente in cui viveva, quello piccolo borghese della famiglia, degli amici, della scuola. Fino ad allora era stata sempre molto brava, poi invece non ebbe più voglia di studiare. Frequentava i gruppi che c'erano a scuola, gruppi impegnati, di sinistra, ha avuto un ragazzo per qualche mese, che faceva parte di uno di questi gruppi ed era il più impegnato di tutto l'istituto. Forse è stata anche questa una prima grossa delusione. Malgrado non facesse più niente, e fosse completamente svogliata ha preso la licenza liceale per inerzia, per rendita. Poi ha cominciato a frequentare degli ambienti a rischio che considerava più genuini perché meno conformisti. E così ha cominciato ad adeguarsi a quelli che frequentava senza trovare nuovi valori, ma smarrendo a poco a poco quella spinta ideale che l'aveva animata. Infatti i nostri primi attriti grossi sono stati per queste compagnie, che lei però diceva di frequentare con l'intento di aiutarli, una cosa, a ripensarci ora, abbastanza assurda. Il passaggio è stato molto veloce, perché lei si è avvicinata a questi ambienti alla fine del liceo, a diciotto anni, e a 20-21 anni già si drogava. I viaggi in India li ha fatti uno prima della droga e un altro storie durante. Il primo non credo sia stato per la droga, è stato un viaggio autentico, anche se probabilmente fumava già. lo non sono stata molto veloce a capire cosa stava succedendo, incominciavo a pormi tanti interrogativi, però mai e poi mai avrei pensato che si stesse drogando perché quella sua apparente maturità mi faceva essere relativamente tranquilla. Vedevo che c'era ansia e incertezza, che avrebbe voluto studiare all'università, ma che, finito il liceo, non ne aveva più voglia, che non dava neanche un esame, la crisi si vedeva, però pensavo sempre a una crisi di adattamento, di crescita, anche pratica, che in realtà non sapesse quale lavoro volesse veramente fare o dove dirigersi. Ed è stato tutto un declino, una caduta che oggi vedo chiaramente, ma che allora non recepivo ed ero sempre pronta dentro di me a giustificare in qualche modo. Credo che, comunque, tutto sia nato dal fatto di non essere riuscita a trovare, in tutto il mondo che la circondava, quelle risposte che potessero tranquillizzare la sua sete di giustizia, di verità e di buono in genere. Allora sì che avrebbe avuto bisogno di credere ...Quei valori li aveva cercati sempre, solo che li aveva cercati dalla parte sbagliata, dove non li poteva trovare perché la droga ti uccide, non ti porta niente di positivo, e con la fuga non troverai mai niente. Questo però l'ha capito solo dopo. E qui io mi sento in colpa, di non averle dato un 'impronta religiosa autentica, non di routine, di abitudine ... se avesse avuto qualche valore autentico a cui agganciare questa sua estrema esuberanza e questa sua ricchezza interiore forse la sua vita avrebbe avuto un altro indirizzo. Ma un genitore può riuscire a fare questo se, prima di tutto, c'è lui in quella dimensione, io non c'ero e quindi non potevo dargliela. Come avete affrontato la morte, sia Carla che lei? Quando Carla è morta per me è stata un sorpresa. lo sapevo che doveva morire, che era condannata, aveva le analisi a terra già da molto tempo, però a me è successo quello che è successo a Carla quando è morta quella sua amica: inconsciamente ci eravamo convinti che, finché non fosse stata nelle condizioni che vedevamo nella maggiorparte dei casi, avesse un certo arco di vita davanti. Lei stava ancora benino e viveva normalmente. Anzi negli ultimi tre mesi ha avuto un'amicizia meravigliosa con un ragazzo, Fabrizio, di cui parla nell'ultima lettera, fra di loro era nato addirittura un piccolo rapporto d'amore, quindi pensare alla morte dopo due giorni era impossibile. Anche perché poi aveva questo modo di non piangersi mai addosso. E della morte se ne parlava, mi aveva detto come voleva il suo funerale, che voleva tanti amici e molti fiori, ma soprattutto che f9sse allegro, non voleva tristezza. Ma erano cose dette come fra parentesi, mentre si facevano discorsi sempre allegri, come si parlasse di qualcun altro. Non eravamo preparati, anche se poi uno per quanto si prepari ... è sempre peggio di come lo hai immaginato ... E lei non ci crederà, ma il suo funerale è stato veramente particolare e non per causa mia. lo ero caduta nell'angoscia più totale, solo il fatto di pensare al vestito mi creava dei problemi, ho fatto 2 o 3 telefonate e basta, non ho chiamato nessuno. Ma quando sono arrivata alla chiesa era piena di gente con tantissimi fiori che io non avevo chiesto a nessuno, perché avevo dimenticato completamente le sue richieste. E c'erano i suoi amici con gli strumenti che hanno suonato tutte le canzoni che cantavano quando erano alla Casa della Carità, e poi c'erano tutti gli ospiti della Casa della Carità con le carrozzelle. E io non sapevo più se piangevo per la disperazione o per la commozione. •

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