Una città - anno III - n. 19 - gen.-feb. 1993

gente che lavora anche di domenica. Come spieghi questo disinteresse per il tempo libero? In parte col fatto che gente abituata da tanti anni a lavorare indefessamente non ha più neanche l'idea di cosa sia il tempo libero, non saprebbe come utilizzarlo, il suo mondo è il suo lavoro. Questo sempre per le grandi aziende e le grandi città; ci sono comunque degli eccessi che vengono stigmatizzati anche dai giapponesi. La Toyota, che prende il nome da una vallata i cui abitanti lavorano tutti alla Toyota, è uno di questi. I' alza•andlera della dlHa l'Inno della dlHa E' famigerata perché al mattino c'è l'alzabandiera della ditta al suono dell'inno della ditta, con tutti checantano in coro, fanno ginnastica e poi vanno a lavorare. Addirittura c'è il computer che seleziona i nomi degli scapoli e delle nubili per farli sposare all'interno della ditta. Bisogna poi pensare che fino al 1600, quando è stato riunificato dallo shogun Tokugawa, il Giappone era stato dilaniato da continue guerre civili, l'imperatore di fatto non aveva autorità e non interveniva nelle lotte fra i vari shogun, i signori della guerra. In questa situazione i giapponesi trovavano, come i greci, un po• di unità solo quando si trattava di conquistare qualcosa, come la Corea, o quando venivano attaccati. Con l'unificazione, Tokugawa hacompletamente isolato i I paesedall'esterno e l'ha trasformato del tutto in un sistema confuciano, con i suoi rigidi livelli gerarchici, in cui i samurai non contavano più nulla, tant •è che nel I868 è stato loro vietato anche di portare la spada. C'è stato un completo ribaltamento di valori. Questa unità sotto un potere forte ha senza dubbio soffocato anche gli spiriti ribelli ed ha portato lentamente a quella fedeltà al potere centrale ed ali' imperatore che fino adallora non c•era mai stata. Anche se, in piccolo, i vari signori della guerra godevano della fedeltà assoluta, dei loro sudditi. Però sempre di fedeltà assoluta si tratta; una fedeltà di cui non pare i giapponesi si chiedano la ragione ... Il giapponese non è che si annu11i nel lavoro: sa benissimo di essere parte di un meccanismo che se gira bene fa girare bene anche tutto il resto, equindi si dedica con tutto se stesso a ciò che fa, in questo trova soddisfazione. E questo come si concilia con la corruzione politica? A differenza dell'Italia, in cui la corruzione si accompagna alla mala gestione della cosa pubblica, del potere, dell'economia, in Giappone la classe politica, per quanto corrotta, ha portato il paese a livelli notevolissimi di prosperità e di potenza. E il giapponese, di fronte a questo, è più portato a perdonare. Da loro un politico inquisito, dopo qualche anno di ritiro, di esclusione, può tornare ad un ruolo pubblico ed aspirare a cariche notevoli. li ''lavaggio'' del polltlcl corroHI: l'auloe.sdt,slone Lo chiamano "il lavaggio": è una sorta di autopurificazione che si ottiene con l'autoescludersi. La gente non si scandalizza più di tanto per questo; certo vede che il politico ruba, ma fa anche il bene del paese. E' anche questo un retaggio del legame che c'era fra il contadino e lo shogun. Una volta c'era l'usanza che quando un samurai non era d'accordo col suo daimyo, glielo diceva, dopodiché faceva karakiri; così rafforzava la sua protesta e né lui, né la sua famiglia incorrevano nelle ire del signore. Non dimentichiamo che il daymio, il signore feudale, era responsabile verso i suoi vassalli tanto quanto loro erano responsabili verso di lui. C'era, ed è rimasto, un senso del dovere sconosciuto in Occidente. Da noi il feudatario era responsabile verso chi era più potente di lui, mentre in Giappone il feudatario era responsabile anche verso i suoi contadini. Comunque quando si va in Giappone ci si rende conto che è un paese di contrasti, di paradossi, per noi invivibili ma che lì stanno misteriosamente insieme. Fra questi, ad esempio, il fortissimo senso della comunità unito ad un grande individualismo. Il samurai senza padrone, il ronin, che in realtà era quasi sempre uno sbandato, spesso un brigante o uno che si vendeva come sicario perché raramente veniva preso a servizio da un altro signore, viene visto nella tradizione e nei fumetti giapponesi come un mito, il mito del cavaliere solitario, ma c'è anche il mito del gruppo. Nelle storie di "Goldrake". c'è questo tipo che con questo robot incredibile all'inizio della serie fa tutto da solo, ma, mano a mano che la serie va avanti, bisogna che altri gli si affianchino perché da solo non ce la fa più, ed ecco il gruppo. Nella regola c'è il gruppo, è il gruppo che fa la forza, un gruppo non necessariamente enorme, anzi, di solito è ristretto. Parlando con degli studenti, che devono studiare come pazzi, emerge subito che sono molto fieri non solo della scuola cui appartengono, ma soprattutto del gruppo di cui, all'interno della scuola, fanno parte. A vevo fatto amicizia con uno studente mezzo cinese che apparteneva al club di Kendo, la scherma con le spade di bambù, della sua scuola. Ne parlava con un fanatismo bestiale, disprezzava quasi i club di tennis, di baseball o di computer, della stessa scuola. Ci si identifica col gruppo e c'è una corsa a portare lustro al proprio Tutlll la scelta chevuoi Vialedell'Appennirw1,63 -Forlì gruppo, che porta lustro alla scuola, e questo porta lustro anche a se stessi. L'individualismo si fonde col senso del gruppo, si realizza all'interno del gruppo. E non c'è gregarismo perché c'è sempre chi vuole primeggiare. C'è sempre il sensei, il maestro, che ha delle responsabilità fortissime. Sec •è un fallimento la responsabilità ricade esclusivamente su di lui e lui deve pagare in prima persona. Non per niente un tempo il daimyo sconfitto si suicidava, si sventrava. L'individualismo giapponese si realizza nella coesione e nel successo del gruppo, grande o piccolo che sia. Forse anche da questo dipende che ci sia una fortissima competizione, la volontà di superare continuamente quello che è stato fatto prima. Questo spiega anche la durezza del sistema scolastico, che qualcuno anche là giudica un po' troppo duro e selettivo. Ma sono le madri stesse che spingono il figlio ad impegnarsi al massimo perché nella vita deve superare tutti. E questo come si accorda con lo zen, col suo astrarsi da ogni fine pratico? Lo zen è il culto dell'attimo e nella vita sociale giapponese non si vede molto. Lo zen è stato applicato al bushido, il quale prescriveva di dare tutto se stesso nel combattimento, nell'attimo della morte. E come si può ottenere questa concentrazione nell'attimo della morte, spesso autoprocurata come nel seppuku? Non è tanto facile prendere una spada e sventrarsi e solo l'astrazione completa da quella che è la propria storia, dalla storia di quelli che ci circondano, una sorta di autoipnotismo, può consentire una cosa del genere. Lo zen aiuta proprio in questa estraniazione ed i samurai, che erano innanzitutto dei guerrieri non certo dei letterati, hanno preso dallo zen proprio questa esaltazione dell'attimo, questo buttare tutto se stesso nel presente, in quello che si sta facendo. A livello sociale questa sublimazione dell'attimo la si ritrova poco, forse principalmente la si trova in un senso estetico particolare. Quello che si diceva prima della fioritura dei ciliegi, o l'andare la notte dell'ultimo dell'anno a sentire le cento campane di Kyoto che suonano, certo dipende da una sensibilità predisposta agustare l'attimo. Nel "Genji Monogatari" si legge che tutta la corte imperiale si muoveva per andare a sentire le cicale. Da noi sarebbe stata considerata una cosa ridicola, mentre per loro quell'attimo valeva una vita. Ma questa sublimazione dell'attimo è anche uno dei moti vi per cui la società giapponese attuale è un po' schizofrenica. Ha questa voglia terribile di successo, di aumentare il proprio peso nel mondo edall'altro latoc'èquesto recupero delle tradizioni, questo senso antico del vivere. Sono due cose che non si sposano, ma coesistono. Ma cos'è che ti affascina tanlioteca Gino Bianco to nel Giappone? I miei amici mi prendono in giro, dicono chemi hanno piantato la bandiera giapponese in testa, per cui cerco di controllarmi. E' che sono profondamente affascinato dalla capacità di reazione, dalla forza di volontà, giapponese. E' un paese che ha sempre dimostrato una forza di reazione spaventosa, questa è la cosa che del Giappone mi ha sempre attirato di più: la capacità di risollevarsi. E' gente che ha sempre affrontato delle situazioni difficili, a partire dal territorio in cui abita, fatto di vulcani, terremoti, inondazioni; è gente abbastanza "tosta". Non hanno mai avuto l'idea di invadere il continente per stabilirvisi, lo volevano per le materie prime, per la potenza, ma per loro il centro non poteva che essere il Giappone. La loro religione, lo shintoismo, è difficile da capire ed accettare se uno non è giapponese. Lo shintoismo non è altro che il culto dei kàmì, cioè degli spiriti, divinità che non hanno una forma o un modo di essereben definiti e che possono reincarnarsi in qualunque cosa, ma è un concetto di reincarnazione diverso da quello Buddhista. E' come una serie di fili di perle paralleli che seguono la storia e l'evoluzione del Giappone. Pur di seguire questa evoluzione questi spiriti possono reincarnarsi in qualsiasi cosa: esseri umani, animali, piante, sassi, ed infatti ogni tanto si vedono delle rocce circondate da funi sacre. Il kàmì può essere ovunque ed è la spina dorsale del paese, il Giappone è un gigantesco insieme di kàmì. Ci sono le mikò, le sacerdotesse, ed i sacerdoti shintoisti che "sentono" che un dato posto è dominato dai kàmì, oppure può essère una tradizione che lo indica come tale, e lì viene eretto un tempio. Tutto questo rende il Giappone unico. Non è possibile che uno straniero, per quanto innamorato del Giappone, vada lì e si faccia shintoista. per loro le cose sono autenticlte e false insieme Per dare un'idea della continuazione della tradizione, il tempio di Isé, che è il fulcro dello shintoismo, viene ricostruito ogni vent'anni perché lo shintoismo dice che deve esserci un rinnovamento continuo. Quando ci sono andato io, vicino al tempio funzionante c'era già in costruzione quello nuovo, perché per loro le cose sono autentiche e false nello stesso tempo, devono essere continuamente rinnovate, forse è anche per questo che ricostruiscono sempre anche le strade. Per cui anche un tempio costruito da dieci anni per loro è antico: è come era ali' inizio dei tempi perché la sua sorte è di essere continuamente ricostruito. • - MELDOLA - VIACAVOUR,180 TEL. 491753 LAMELA VIATORELLI,3 TEL. 30411 FORLI' LO SPAVINFAPASSIRI NON SFA INVANO Un Maestro Zen giapponese del XVI secolo molto famoso, Takuhan Sohò, compilò all'attenzione di un celebre Maestro di scherma dello Shogun, Yagyu Munenari, un testo di indubbio interesse e di grande profondità intitolato Fudochishinmyoroku, che si può tradurre come "Libro Divino dell'Immutabile Saggezza". Il Maestro Takuhan si impone in un momento in cui il Giappone è ad una svolta: è l'inizio dell'era Tokugawa, che coincide con la chiusura del Giappone verso il mondo esterno. In questo periodo si assiste all'approfondimento di molte arti. Il Giappone rimase chiuso in sè per circa tre secoli e riaprì i confini solo verso la fine del secolo scorso. Da quel momento, il Giappone è stato catapultato nella nostra era, con i risultati che sono evidenti a tutti. Rimane tuttavia "misterioso" un certo tipo di cammino; rimane cioè difficile interpretare lo spirito antico che anima ancor oggi il Giappone. Noi occidentali siamo ormai il risultato di una certa evoluzione, di un cammino che si è innescato a partire dal periodo del Rinascimento e che ha stravolto il mondo della nostra cultura tradizionale. Il Giappone ha realizzato questo tipo di evoluzione attraverso altre strade. Nel primo libro di Takuhan troviamo:" ... rinchiudere la mente nel corpo è qualcosa che ha senso solo all'inizio della pratica, quando si è principianti ..." Questa affermazione, "rinchiudere la mente nel corpo", riconduce alla tematica dell'unione tra corpo e mente. Da diversi anni, in Occidente, in categorie come quelle sviluppate dalla psicosomatica, c'è un recupero di questa unità; tuttavia il modo in cui noi occidentali tentiamo questo recupero mi pare piuttosto lacunoso, sicuramente pieno di fraintendimenti. Nel Buddhismo si ha una nozione del corpo e dello spirito (del corpo e della mente) diversa da quella che normalmente noi intendiamo. E' di moda il bodybuilding, il termine sta per "costruire, formare, forgiare il corpo". Le persone che snobbano questo tipo di cultura del bodybuilding normalmente pensano che sia più importante costruire la mente, che in inglese si direbbe "mind-building". Quelli ancora più sofisticati si dedicano a costruire lo spirito - "spirit-building". Per il Buddhismo sono tre aberrazioni equivalenti. Il campo del nostro spirito è quello della non-costruzione. Nell'esistenza dell'uomo la costruzione implica tutto ciò che lo fa vivere nella sofferenza e nel Buddhismo è molto importante capire che tutto ciò che esiste è dolore. Una certa capacità è necessaria per accettare questa verità. Questa capacità è attivata da quella che nel Buddhismo si chiama pratica. Questa categoria in giapponese è espressa con il termine shugyo, che può essere tradotto con "ascesi", cosa che non ha niente a che vedere con la mortificazione. Il praticante di Arti Marziali in Estremo Oriente aveva questo tipo di sensibilità, che forse è tuttora presente in molti luoghi. Quindi, quando parliamo di esercizio, di pratica, non è facile definire cosa intendiamo. In realtà la pratica non è un esercizio volto a soddisfare un altro fine che non sia la pratica in sè. La pratica è ciò che ci permette di apprezzare (comprendere) la vita in quanto sofferenza e quindi, in altre parole, come qualcosa in cui nulla persiste, tutto muta e, in secondo luogo, in cui nulla ha natura propria. Per molti ciò è abbastanza spaventoso; fa paura pensare che nulla sia dotato di natura propria, cioè nulla esiste di per sè. Guardandoci gli uni con gli altri non ci si può riconoscere vicendevomente che come esistenze relazionali. Non esisto per me, esisto "in funzione di". Queste funzioni sono illimitate quanto lo è l'universo. Ciò che ce lo fa accettare è quella che chiamiamo pratica. L'atteggiamento non dualista che permea tutto il pensiero buddhista fa sl che oggi nelle culture orientali ci si possa esercitare non per un fine, ma per l'esercizio in sè, con delle enormi possibilità. Lo shugyò, con l'esercizio del Budò (l'arte del combattimento, o Via del guerriero), dovrebbe portare un modo, una Via, per realizzare questa non dualità. E' quindi chiaro che il campo del Budò è molto raffinato. Naturalmente questi discorsi devono passare attraverso un vissuto che non è speculativo, intellettuale. La prima cosa che si fa dal punto di vista pedagogico è praticare; ma praticare cosa significa? La fatica, come la difficoltà, è il primo modo per reintegrare la nostra personalità alienata; cioè, difficoltà e fatica sono una specie di dono divino che ci permettono di reintegrare la nostra personalità. Non è facile accettare questo punto. Perchè lo si accetti è necessaria una certa atmosfera, c'è bisogno di un certo insegnante e di vari altri fattori che cooperino per mantenere il livello dell'attenzione necessario allo studio, mettendo in movimento il processo di sublimazione che porterà ad una naturale fioritura. L'immagine che noi lasciamo imporre alla nostra coscienza è molto importante. Infatti è difficile trovare un luogo dove si studino le Arti Marziali che sia disadorno, senza riferimenti. Anche i Kata hanno un riferimento preciso, secondo precisi assi cardinali. Nel secondo capitolo, Takuhan dice: "guardare di sfuggita qualcosa senza fermare la mente si chiama inamovibilità". Questo "guardare di sfuggita" si può tradurre con "guardare in trasparenza", o "guardare senza soffermarsi", e indica un modo di guardare molto raffinato, molto preciso. Più avanti il testo parla dell'intervallo, "l'intervallo in cui non può essere inserito nemmeno un capello". Esiste un intervallo in cui non può essere inserito nemmeno un capello, che corrisponde nel karate alla funzione di ma-hai: la distanza, il tempo, che in inglese si traduce con "timing". Per la cultura buddhista questo uintervallo"è fondamentale; nei dibattiti Zen, cìoé nei dialoghi (mondò) abbiamo la stessa cosa. L'educazione, la pedagogia Zen è basata sull'atto di indurre nell'allievo questa capacità di rispondere immediatamente, al di là della cogitazione, rapidamente. Ciò non suppone una soppressione del .Àti'nied~io-/W ./Yd/ll/,a& ~qf'Cb - Ylta.tJt,b ,,,, ,/). /, li:'' ç ,< /'/// ,Z ,/f,1/'f//1/'II. '),,1 .T/'rl/ /,,/ /l.i/;'.//777 pensiero, ma, al contrario, un raffinamento estremo. Quando vi si dice che bisogna fare il vuoto della mente, è del contrario che si sta parlando: si tratta di una super velocità della coscienza, non di una specie di uccisione del pensiero. Dal mio punto di vista, la coscienza che sgorga immediatamente, senza intervallo, è la coscienza dovuta alla giusta tensione del corpo: ecco perché é molto importante la postura. Nella corrente Buddhista Zen, dhyana-la cosiddetta meditazione (zazen)- è privilegiata, e ciò che si considera fondamentale è la tensione della postura, che è la cosa più difficile da trasmettere. Spesso la postura, che consiste nell'incrociare le gambe sedendo su un cuscino con la schiena eretta, ma non rigida, è paragonata ad un arco in cui è inserita una freccia pronta ad essere scoccata. Una freccia che è lo spirito, lo spirito della vigilanza; lo spirito di cui si può fare in un certo senso l'esperienza all'inizio di un kata. Una posizione di allerta in cui si è pronti a tutto. Se volete sostenere questo tipo di disposizione per diverse ore usando solo la forza, ciò non è possibile; all'interno della forza è necessario scoprire gli elementi della debolezza, della delicatezza. In caso contrario l'arco si rompe. L'arco è elastico, simbolo del1' elasticità della nostra vita, che non va tradotta in una specie di irrigidimento. Al contrario, per scoprire la vera forza dobbiamo scoprire gli elementi di debolezza propri a questa forza. Il Budò conosce e trasmette questo, tuttavia molti che studiano il karate a un certo punto si trovano ad un impasse, che consiste proprio nel non poter superare facilmente questo scoglio. E' comunque il problema di tutti: ognuno lo deve risolvere direttamente. Se non si è consapevoli di ciò, si possono perdere molti anni ad irrigidirsi su dei problemi che potrebbero essere affrontati da un'altra prospettiva. La meditazione Zen affronta questo problema. Un maestro buddhista scrisse: "Anche se non sta in guardia con la mente, nel campicello di montagna lo spaventapasseri non sta invano. Una cosa è l'allenamento al principio e una cosa è l'allenamento alla tecnica. Quando ci arrivi non si nota, semplicemente è, come se avesse messo da parte ogni concentrazione (su un oggetto)". Fausto Taiten Guareschi Maestro Zen del monastero di Fudenji ZEN DOJOFORLl'-"Una Città" venerdì 19 FEBBRAIO ore 21 LA LOGICA E LA MORTE IVAN ZATTINI presenta il libro: Lo sterminio degli enori" di Nagarjuna (Ed.Rizzoli-BUR) presso la sede di "Una Città" • P.zza Dante (del Vescovo). 21-Forll ZEN DOJO FORLI' Via Felice Orsini, 19 FORLI' Recapito telefonico 0543 / 21452 (Luigi) Orario di PRATICA inizio ore 19,40 tutti i MARTEDI' e GIOVEDI' ZAZEN "Zazen, meditazione, è il ritorno alla condizione originaria del corpo e della mente" (TAISEN DESH/MARU ROSHI) UNA CITTA' I 3

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==