Lo Stato Moderno - anno IV - n.4 - 20 febbraio 1947

70 LO STATO MODERNO soddisfacimento di certi interessi, per la creazione di certi equilibri. Vediamo come, fuori da queste equivoche intru– sioni di concetti in un campo che non è di loro perti– nenza, sia assai più facile chiarire i mezzi e gli scopi per il nostro reinserimento effettivo e pregnante nel circolo della società internazionale. Se noi ci spogliamo della mentalità « contrattua– listica » il problema della firma o meno del trattato di pace, e quello stesso della sua ratifica, perde di acu– tezza. La firma è stata già apposta, né noi, coerente– mente, rimproveriamo al governo la responsabilità di tale gesto. Possiamo tutt'al più rimproverare il mancato dibattito parlamentare. Il paese aveva il di– ritto di essere ascoltato e il dovere di ascoltarsi. Ave– va il dovere di compiere.attraverso i suoi rappresen– tanti una spietata auto-critica (intendiamoci, dunque, non solo una sterile critica del fascismo, ma una se– ria e fondamentale critica di venticinque anni di sto– ria italiana, che ha impegnato la responsabilità di tutto il popolo, e non soltanto di alcuni dirigenti), e il diritto di ascoltare, attraverso i suoi rappresentanti, le possi'itilità di resurrezione, i suoi modi, i suoi vari atteggiarsi, le sue varie finalità. Dubito che tutto questo si possa fare in sede di ratifica (e nel dubbio non tengo conto delle capacità dell'Assemblea), perché mi pare estremamente im– probabile che una nazione vinta possa mutare così improvvisamente di politica estera, e sopratutto per– ché saranno ancora validi gli argomenti che hanno imposto la firma. Ed è difficile che si possa dare un dibattito alto e solenne su un argomento già pregiu– dicato. L'Accademia non è mai genitrice di contra– sti fecondi. A questo proposito però non sono mancati argo– menti favorevoli ad un rinvio della messa in esecu– zione della nostra pace, che conviene seriamente esa– minare. Il senatore americano Berle si è fatto porta– voce di ,una proposta tendente ad abbinare la ratifica da parte degli Stati Uniti dei trattati di pace testé conclusi con quello che regolerà il problema tedesco. Non è mancato - e probabilmente non mancherà - da noi chi si è affrettato ad accogliere anche per noi il su1w:erimento, argomentando che il non rendere definitiva auesta pace possa preludere al suo miglio– ramento. Conviene prendere netta posizione contro siffatte tesi; lungi dall'agevolarci, un abbinamento col problema tedesco non può che essere per noi fonte di ulteriori pregiudizi. E' certo che l'accordo dei « grandi » sul complesso problema della Germania sarà lento, faticoso, difficile. Dobbiamo guardarci dall'offrir loro la più remota possibilità di transigere su qualche problema tedesco a nostre spese. Gravis– sime saranno le questioni marittime, e il Mare del Nord potrebbe trovare un compenso nell'Adriatico; amari i problemi della Germania Orientale e delle sue popolazioni, e un Alto Adige non ancora sicura– mente italiano potrebbe offrire qualche consolazione a più di un disinganno. Né i problemi economici gua– dagnerebbero da un loro abbinamento con la pace te– desca, né le clausole militari potrebbero sperarne raddolcimento. E poi il primo obiettivo della nostra politica estera non può essere che l'ingresso nell'ONU. E questo obiettivo ci è precluso finché il trattato di pa'Ce non sarà anche da noi firmato e ratificato. La nostra economia ha bisogno di saldarsi agli accordi monetari di Bretton Woods, e nemmeno questo po– tremo fare senza passare attraverso la firma e la ra- . tifica del trattato di pace. E - aggiungiamo, anche a costo di spiacere a molti - noi non possiamo per– metterci il lusso di lasciare indefinitamente i nostri confini aperti ad ogni scampagnata e le nostre spiag– ge accoglienti ad ogni cartaginese. Ed anche per questo abbiamo bisogno di essere accolti nell'O.N.U.: per porre in essere le condizioni formali atte a far va– lere la sostanziale assurdità politica, nell'interesse ge– nerale della pace, di un nostro assoluto disarmo di fronte all'incontrollato riarmamento di ogni altro stato d'Europa e di fuori. Quanto all'« ingiustizia» della pace nulla ci gio– verà l'insistere sulla stessa. La Jugoslavia non si è fatta togliere da noi nemmeno lo strumento della do– glianza, e tra due lamenti non è certo quello dei vinti che, almeno in un futuro prossimo, ha la possibilità di .essere ascoltato. Quello che invece va posto in luce è la incon– gruità del trattato rispetto ai fini perseguiti dai vin– citori, anzi in certi punti la sua contradditorietà. A questo punto sarà però necessario soffermarsi un momento sulle difficoltà che a tale chiarimento op– pone il fatto della pluralità e della discordanza (non diciamo discordia) dei vincitori. E' chiaro che i fini reali (cioè quelli che contano) perseguiti dagli uni possono essere diversi, e magari antitetici, da quelli perseguiti dagli altri. E quindi la denuncia di tale incongruità può trovare accoglienza negli uni e rifiuto negli altri. Tuttavia esistono alcuni fini generali comuni agli alleati i quali non appaiono ben serviti dalle clausole del nostro trattato. Per esempio, il toglierci le colonie, mentre ripropone per l'Italia i due tragici problemi della sovrapopolazione e dello strangolamento mediterraneo (non sarà mai chiaro abbastanza che l'Italia si invade dall'Africa: dai vandali agli anglo-americani la storia non muta per mutar di armi), non giova a un futuro equilibrio marittimo tra i grandi, né a quella rapida apertura di nuovi mercati e di nuovi sbocchi commerciali che è cosi essenziale per la creazione di una prosperità in– ternazionale, senza di che la guerra sarà sempre « ad portas ». Altro esempio è quello di Trieste. Quando l'O.N.U. si troverà a dover sborsare i miliardi di dollari necessari per sanare il previsto deficit del bilancio del « territorio libero », l'assurdità di tale soluzione e la sua contraddittorietà al fine ge– nerale di non creare situazioni eccezionali e patolo– giche, ricche di frizioni e di attriti senza sbocchi, ap– pariranno anche ai più ostinati. E ora sì, potremo anche dire che il trattato è « ingiusto», non perché incapace di una impossibile fusione di interessi e di sentimenti, ma perché ina– datto a compiere il suo ufficio di stabilizzatore e di pacificatore.

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