Lo Stato Moderno - anno III - n.7 - 5 aprile 1946

154 LO S't.ATO MODERNO finito r affermazione del princ1p10 americano per la ricostru• zione di una economia mondia:e a grandi scambi. Atti concreti ispirati a questo principio sono stati finora g).i accordi monetari di Bretton Woods e la convocazione, per iniziativa del governo americano, di una conferenza in– ternazionale per la elaborazione di una carta mondiale del commercio. Negli accordi particolari che sono stati da essi conc:usi - e il caso più sa:iente è stato quello de:!'accordo finanziario con l'lnghi'.terra - g!i Stati Uniti hanno preteso l'abbandono de:le limitazioni alle importazioni, dei control!li sui cambi, dei sistemi preferenziali e hanno, contemporanea- 11ente,negoziato - ma questo sin dal lontano 1934 - ac– cordi di reciprocità per la limitazione del:e tariffe doganali. Una ta:e linea cli politica economica finirà per essere imposta o nel trattato di pace o in speciali convenzioni finanziarie anche a!Yltalia. Ma data una tale eventualità - che allo stato attuale delle cose è, più che probabile, certa - la conse– guenza non può essere che una sola, il potenziale aumento deJa disoccupazione e l'impossibilità da parte del governo Italiano di rea:izzare una autonoma politica di « full employ– wt:nt », in quanto gli mancheranno le leve indispensabili di az10ne. Ora è vero che gli italiani hanno sperimentato l'in– sufficienza e l'assurdità economica di una po!itica di autar• chia, cioè di una politica di produzione ad alti costi, ma è anche vero che, sia pure a detrimento della situazione gene• raie, un siffatto indirizzo consentiva un livello di occupazione che almeno per un lungo periodo iniziale di adattamento non può essere garantito da una politica di porte aperte. Per· tanto la previsibne di un appesantimento del mercato interno del favoro è assai giustificata, a malgrado delle imponenti ed evidenti necessità della ricostruzione, la quale per rea!izzarsi non abbisogna soltanto di lavoro ma anche di capitale al quale, è vero, potrebbero supp:ire grandi finanziamenti dal– !' estero (che non è da esc:udere che possano essere fatti, ma limitatamente ai piani di ricostruzione dei maggiori centri industriali), ma non si tratterà mai di una ricostruzione uni· forme e diffusa che sia tale da impegnare in modo soddisfa– cente tutte le energie poteniia!i di lavoro. Questo in linea generale, mentre va tenuto conto del peggioramento del rapporto nord-sud negli scorsi venti anni in conseguenza del!'arresto quasi totale dell'emigrazione, de:la' più e:evata ,natalità delle provincie del sud e di altri com– p!essi motivi politico-sociali; di modo che è lecito pensare che le possibilità-necessità migratorie deJ:e provincie meridio– nali saranno senz'altro superiori a quelle del primo quindi– cennio del secolo, mentre a tener alte que:le del!e provincie settentrionali agiranno le conseguenze della trasformazione in– dustria!e (e si prescinda dalle difficoltà che indubbiamente risentiranno alcuni rami di attività agrico:o-industriale a causa della eclissi, per questo primo periodo di assestamento, del mercato dell'Europa centrale, cosa che 5arà assai grave so– prattutto per gli ortofrutticu!tori dell'Emilia e del Veneto). Di modo che se si vuol dare a questa conclusione un valore numerico si potrebbe senz'altro dire che non potrebbe che venire superata la quota di emigranti del 1913, che è stata quella massima, di 872 mila individui per anno. Dobbiamo, quindi, contare su un alto potenziale mi– gratorio. Ma verso dove? E con quali possibi'.ità? A queste domande le risposte non possono essere nè semp!ici. nè pre– cise. E' vero che le potenze vittoriose hanno combattuto per l'affermazione delle quattro libertà, è vero che tutti si dicono dispcsti a parole a battersi per impedire l'affermazione di tendenze isolazionistiche deI:'economia, ma è anche vero che nessun passo positivo è stato sinora fatto per rendere possi– bili i trasferimenti di lavoratori verso i paesi a presumibile più intensa domanda di lavoro. H Timas scriveva recentemente che sarebbe ben grave se dalle sofferenze della guerra non fosse uscita la libertà di emigrare per chi si voglia e ove 5i voglia, ma si trattava di una conclusione a un discorso ben circoscritto (le difficoltà al:'emigrazione ebrea in Pa!estina con una sottintesa pole– mica nei confronti di quegli americani che lamentavano che gli ebrei dovrebbero poter emigrare in Palestina, rifiutandosi però di aprire le loro porte, se lo vole~sero). E a malgrado de:le ventate 'liberistiche che soffiano, come si è visto, nella politica economica internazionale, nessun paese si è impe– gnato per il principio che non può non essere il necessario coro:lario della libera circolazione deHe merci, della libertà di circolazione delle forze del lavoro. Cli St-ati Uniti nic• chiano a tentare il grande esperimento del!'apertura delle loro porte all'emigrazione, alle prese come sono con l'incubo di una nuova ondata di disoccupazione, a malgrado che l'espe– rimento di un notevo:e ingrossamento naturale del mercato interno possa presentarsi come uno dei mezzi più adatti a porre la loro economia sulla via di un equilibrio più stabile. Il governo americano è rimasto ben femio al sistema deMe quote del twc per oent Act e non ha alcuna intenzione di distaccarsene, in maniera che solo 165 mila europei (e fra di !Oio circa 3500 italiani) ali'anno possono entrare nel:a Con· federazione. L'unica attenuazione che stanno consentendo in questo momento è quella di tener calcolo delle quote non usufruite negli scorsi anni, ma per l'Italia, a prescindere da ogni altra considerazione, il valore di questa determinazione è mùlo. Ora tutto ciò, a parte l'attrattiva che gli Stati Uniti esercitano adasso •assai più compiutamente sulle fantasie di quanto non avvenisse trent'anni or sono, vuol dire che è sbarrata la strada al più cospicuo sbocco de!l' emigrazione transoceanica, giacchè nel quinquennio 1911-15 furono gli Stati Uniti ad assorbire o!tre il settanta per cento di quella emigrazione. Eliminati gli Stati Uniti dagli sbocchi potenziali, per la destinazione transoceanica restano in questo momento i paesi dell'America Latina, l'Austra!ia e la Nuova Zelanda, con larva:i possibilità per il Sud Africa. Vi è subito una pre!llessa da fare: tutti i paesi di immigrazione pare 5i siano accordati su alcuni principi fondamentali: contro!lo caso per caso degli immigranti da ammettere, preferenza ai lavorntori coniugati e agli elementi che desiderano inserirsi in modo definitivo nel paese, preferenza per gli elementi con definita specializza– zione di mestiere e tecnica. Si dice che l'Australia e fa Nuova Zelanda abbiano serie intenzioni di adottare una politica di immigrazione a favore deg:i europei, però per quanto le notizie siano ancora incerte e non sia da credere che l'avve-– rarsi o la minaccia di una depressione economica li faccia dimenticare de!o!ebuone intenzioni attuali, pare che esse si orientino ne:la richiesta di individui fisicamente ben dotati, tecnicamente preparati, ammogliati, disposti ad assumersi l'impegno di non più ritornare - stabilmente - ai loro paesi di origine. Si tratta di condizioni che possono limitare note· volmente il numero deg!i aspiranti, per quanto sia anche da aggiungere che accanto a queste condizioni negative quei paesi pare ne vogliano instaurare alcune positive e cioè ohe i governi di questi paesi si impegnerebbero a finanziaré la immigrazione da essi scelta ed accettata. Diversamente si presentano •le prospettive per i paesi dell'America Latina, per i quali Ca~lo Sforza ha recentemente trovato la suggestiva definizione del « continente a noi più vicino ». Effettivamente ve~so quei paesi, sia per il numero più notevole degli italiani che vi hanno preso dimora e vi hanno fatto fortuna, sia anche per la parentela delle lingue che vi si par:ano con la nostra, le propensioni sono assai vi– vaci. Tuttavia a'nche la politica concreta di immigrazione di questi paesi è tuttora nella nebu!osa e questo nel senso che mentre in teoria le porte sono aperte in pratica non sono

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