Il piccolo Hans - anno XXI - n. 83/84 - aut./inv. 1994

Dice Due: - Più alto, hai voglia!, del nostro monte. Poi Uno e Due tacciono, seduti all'ombra, nel pomeriggio d'agosto, davanti al Caffè, a Magliano. Dice Uno: - Ha comprato la Kawasaki. Dice Due: - Come quella. Uno e Due guardano la Kawasaki ferma sul cavalletto. Dove finiva, se nessuno lo guardava, il raggio di sole carico di «essenza volatile»? Finiva dove e come la voce nella stanza vuota, tra le migliaia di raggi di sole, di ombre proiettate nella luce, di voci non ascoltate; come e dove finiva se nessuno lo guardava? Eppure c'era, esisteva. Pensavo già ai pianeti prima di posare lo sguardo sulla pagina successiva. Pianeti come dirigibili sospesi nello spazio. Se è poesia, ecco che le immagini anticipano il pensiero, il gesto, l'atto. La concordanza. L'anticipazione dell'immagine si è fatta riconoscere in quello spazio in cui le linee del paesaggio, «sotto la luce aperta», si componevano oltre l'occhio aperto di Porta San Martino. Subito dopo ho sentito Uno e Due che parlavano di montagne e di Kawasaki. Contagiati anche loro dal male del secolo, dalla grandiosità? Ma per parlare dell'Everest seduti all'ombra in un pomeriggio d'agosto, bisogna essere provvisti di molta ironia, anche senza saperlo. Qui mi pare, a volte, che una civiltà finalmente spenta rida del proprio perduto splendore. Da poco un segnale giallo arancio (tutta questa terra, tra le colline e il mare, è fiorita di cartelli giallo arancio che informano come a cento o duecento metri si trovi una tomba etrusca a camera, ecc.: e io, passando, penso a un popolo di ombre che spia il nostro andirivieni dalle prode e dai campi, e se la ride di noi e anche del suo passato 137

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