Il piccolo Hans - anno XX - n. 77 - primavera 1993

Senza guardarsi indietro «O può quell'anima muover quella lingua a parlar sì lungo tempo quanto la sabbia in quell'oriuolo metterà a confluire al suo centro, e a misurare un'ora di vita non pur consumata in quest'uomo morente?» (Izaak Walton, Life of Dr. fohn Donne 1640. In: Donne, Anatomia del mondo. Duello della morte, a cura di G. Melchiori) Nell'Inno a Dio mio Dio, nella mia infermità, secondo alcuni scritti solo otto giorni prima di morire, John Donne svolge l'immagine della morte come uscita, exitus o issue, lavorandola su quella geografica dello stretto di mare. L'immagine dell' exitus mortis è presente anche nel Death's Duell, il sermone che egli pronunciò davanti alla corte nel palazzo reale di Whitehall il 25 febbraio 1631. Il testo lì prescelto - «Colui che è nostro Dio è Dio di salute e al Signore Iddio appartengono le uscite dalla morte» (Salmi, 68.20)- è modellato su una immaginaria struttura architettonica. La prima parte del versetto («Colui che è nostro Dio è Dio di salute») rappresenta il corpo della fabbrica; la seconda («E a lui appartengono le uscite dalla morte») l'edificio nell'edificio che, quasi annex o dependance, il predicatore ormai in punto di morte (morirà il 31 marzo successivo) si preoccupa di disegnare fin nei minimi dettagli esecutivi. Se Dio è Dio di salute, anzi «di saluti» (Dominus Dominus ad salutes, nella Vulgata di S. Gerolamo), in quanto salva dalla morte sia spirituale che temporale, è pur vero che l'articolazione del nostro essere alla salvezza egli la realizza attraverso la morte. Insieme effetto del peccato e organo di salute, la morte è la giunzione, l'istmo disteso senza interruzioni o discontinuità tra il nostro essere e la salvezza. 88

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==