Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli [d'oro Margarete I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una [tomba nell'aria là non si giace stretti]. La ferita situata dentro la cultura si apre nella discrepanza, nel mutismo, nella brusca disgiunzione che si nota non solamente fra «Margherita» e «Sulammita», ma, innanzi tutto, fra «beviamo», «scaviamo» e «scrive». La ferita aperta viene contrassegnata, nella lingua, dall'impossibilità, per il «noi», di indirizzarsi, in questa poesia piena di apostrofi e di indirizzi, e di declinarsi in «egli». È proprio in questa radicale rottura di indirizzo fra il «noi» (che «beviamo» e «scaviamo»), e l'«egli» (che «scrive» e «comanda»), che Celan colloca l'essenza stessa della violenza e dell'Olocausto. Se «la morte è un padrone che viene dalla Germania», si tratta di un «padrone» non solo perché porta morte e riduce in schiavitù, e nemmeno solo nel senso ulteriore di un maestro, musicista o mastro cantore, maestro in arti che si sforza, con relativa ironia, di ricavare dalla morte un capolavoro artistico, ma piuttosto nel senso che la Germania, foss'anche inconsapevolmente, ha fatto della morte un'istituzione, il Meister, come padrone-maestro. La morte ha tenuto una lezione che non potrà essere mai dimenticata per il futuro. Se l'arte consiste nel sopravvivere all'Olocausto - sopravvivere alla morte padrona - dovrà rompere, con le procedure dell'arte, questa supremazia, la quale pervade insidiosamente tutta la cultura e ogni progetto estetico. L'argomento della necessità, per l'arte, di deesteticizzarsi e di giustificare così una volta per tutte la propria esistenza, è stato articolato con forza dal critico tedesco Theodor W. Adorno, in una famosa frase che definisce, certo, il senso della poesia di Celan, ma che è di31

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