Il piccolo Hans - anno XIX - n. 74 - estate 1992

oggetto. Così dichiara il filosofo della «différence»: «Le nom propre n'ajamais été... que le mythe d'o:,;igine d'une lisibilité transparente et présente sous l'oblitération»2 . Ma il nome proprio non è un mito: quello che è un mito è la sua immediatezza. Il nome proprio è una forma di auto-negazione del linguaggio, è una forma di sottrazione della cosa al linguaggio, ed è solo attraverso la sua negatività che raggiunge la cosa nel suo essere quello che è, nella sua identità assoluta. Il nome proprio allora è ben più del nome proprio, così come, nella sua forma originaria, va ben al di là dei nomi da tutti conosciuti: è un «manque» del «manque» che diviene pura affermazione e, in questo senso, costituisce il modello del linguaggio del mito come di quello della poesia. I puri nomi, i nomina nuda, le forme del linguaggio assunto in se stesso, ripetono le forme del nome proprio. È per questo che il mito proferisce il nome del dio ed è per questo che il poeta dice: «une fleur! ». È per questo cioè che, diversamente ma analogamente il mito e la poesia raggiungono la cosa perduta nel linguaggio e nel tempo ricolmando il «manque» e componendo la separazione, perché l'irreale non vive soltanto dellapura assunzione della perdita ma anche del riconoscimento assoluto della cosa perduta. Il nome proprio, come è noto, costituisce «una delle questioni più spinose della teoria del linguaggio»3 , e come tale viene discusso, contestato, negato. Ma il nome proprio ha una origine nell'atto della denominazione, e questo atto è la chiave per la sua comprensione. Quell'origine che è mitica e irraggiungibile nel linguaggio umano, corrisponde nel nome proprio ad un gesto preciso e reale che non è affatto rapportabile alla pura indicazione, come taluno sostiene, ma che costituisce invece una sottrazione della cosa al linguaggio: l'attodella denominazione non "aggiunge" il nome proprio, ma sottrae il nome "comune". 187

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