Il piccolo Hans - anno XIX - n. 73 - primavera 1992

spositivo di precisione che fissa, nell'attimo dell'inscape, predisposizioni di cose e predisposizioni di parole. All'osservatore il compito di farle entrare in contatto. In Stevens non si fa, invece, quasi parola dell'atto specifico dello scrivere poesia, tutte le sue preoccupazioni sono di un altro ordine. La sua è una poetica «metafisica» e «etica», sulla linea americana, illustrata da Harold Bloom: dalla «voce nel deserto», di Emerson, al poeta solo di fronte al sole, di Walt Whitman38 . La lingua del poeta non è la lingua del linguista: Stevens non fa che tirare le parole dalla parte del corpo e della «realtà» - secondo quella tendenza al recupero del medioevo che per certi aspetti avevamo già riscontrato in Artaud e Mandel'stam. «Soltanto se le parole potessero essere portate in qualche modo a partecipare direttamente di ciò che nominano potrebbero smettere di separare l'uomo dal reale» Q".H. Miller): infatti - scrive Stevens - la parola dovrebbe essere la cosa che rappresenta; altrimenti è un simbolo. È una questione di identità. Lo stesso richiamo all'identità (contro la metafora) che veniva dal manifesto acmeista di Mandel'stam. La questione, rimasta poi aperta per tutto il secolo, è strettamente legata al «clima» di credenza «realista» in cui la poesia si mantiene, alla ricerca di una presenza o di un suo rappresentante, «qui e ora», nell'«inganno» di cui parla Montale, o nelle piccole fedi di cui parla Zanzotto. Come dice Thomas la poesia non può che essere scritta completamente «fuori dalle parole» o «nella loro direzione»39 , ma sempre con un piede nella carne («devo avvicinarmi di più alle ossa delle parole») nel tentativo disperato di dimostrare «che la carne che mi copre è la carne da cui è coperto il sole» e il sangue è quello che scorre su e giù in un albero. Ermanno Krumm 84

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