Il piccolo Hans - anno XIX - n. 73 - primavera 1992

Le statue sono forme che hanno abbandonato l'uso della parola e con le quali si può comunicare solo in una lingua transmentale. La statua nel mio lavoro è una figura umana, è presa come immagine pura, assoluta, non come riferimento colto, slegata da ogni simbolismo; quindi non si tratta di citazioni, ma piuttosto di ritratti o di autoritratti, è il volto dell'uomo che mi importa. Non uso mai la statua così com'è, ma la trasformo con il colore, la dipingo, la modifico. Scelgo la statua perché è la quintessenza dell'uomo. Non mi importa dei suoi attributi mitologici. E poi la statua armonicamente si coniuga con il sentimento malinconico che le è proprio e che è proprio dell'uomo, la statua è il simbolo della malinconia e della solitudine. E la notte è la dimensione più confacente a questa presenza. Una statua di notte si umanizza, di giorno invece diventa oggetto, di giorno si pietrifica e di notte possiede l'anima, vive dell'ombra, l'ombra è la sua anima. Le statue sono la saggezza dei vivi. Le forme e le immagini come sopra una scacchiera si incrociano, si intrecciano, si inseguono. Mi piace guidarle quasi a voler soddisfare il loro segreto desiderio di stare vicine, come oggetti che si amano. Gli oggetti separati uno dall'altro vivono una sorta di esilio muto, avvicinarli significa stabilire tra di loro un rapporto dialogico che dà a queste forme mute un principio vitale. È così che questi oggetti inanimati stabiliscono tra loro legami segreti e profondi. Il lavoro non è altro che un frammento di realtà; tu trasformi una materia, quindi in qualche modo trasformi la realtà, realizzi un'opera e l'opera si colloca di nuovo accanto alla realtà da cui proviene e ritorna di nuovo eloquente e nello stesso tempo muta. Il lavoro vede annullata dalla realtà stessa la distanza tra sé e l'interpretazione; in altre parole qualsiasi oggetto interpretato è altrettanto 15

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==