Il piccolo Hans - anno XVIII - n. 71 - autunno 1991

Le «Stanze della funicolare» saranno dunque, non allegoricamente, in re anzi in littera, il procedere del soggetto (l'utente, questo nome un po' ironico e depresso) verso un'autoidentificazione: cui sia offerta, come tratto identificatorio, o magari come sintomo - secondo schema freudiano - la scena di cui si è parlato. Ma lo svanire a catena degli elementi della scena, ossia lo sfondare continuo della metafora, significano che per il soggetto il momento di riconoscersi come tale non può essere raggiunto - che tale momento non esiste. «Vana scompare/ l'arca alla vista...». L'ultimo verbo della poesia, legato in assonanza ad «alt», ma in forte opposizione semantica, è un monosillabo: «sfa», verbo della dissoluzione continua. Si rivela alla fine anche qui la funzione, di struttura e conoscenza, del nome-epigrafe nella poesia caproniana, come ciò che indica la separazione irrimediabile del soggetto dal nome, il proprio nome e quello dell'Altro quale punto in cui identificarsi. Ciò che dichiara, forse, il primo verso di un sonetto, poi espulso da Cronistoria: «La mia fronte che semina di tombe!». 8. È stato aperto il Sileno, e portato alla luce, sia pure confusamente, il simulacro che stava al suo interno? Il fatto è che l'interno è il fuori. La lettura condotta sulle «Stanze della funicolare» rinvia a un meta-testo, a un paratesto che si irradia dal testo contornabile. Questa funicolare, proprio questa arca o barca o tomba mobile che solca lo spazio, appartiene al reale (al registro del reale) perché noi lettori non riusciamo a simbolizzarla, a ridurla a una metafora, a un significato. Ci è consentito di percepirla (di viverla?) intensamente come cosa che sta lì/ scompare, non di articolarla. La sua presenza inesplicabile veramente defalca - è verbo di Caproni - qualcosa che non viene più reintegrato. Tutto ciò, beninteso, succede nel testo, non contro o sen134

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