Il piccolo Hans - anno XVII - n. 68 - inverno 1990-1991

Oralità e genio della lingua nella poesia dialettale del Novecento «No' podémo gustar le poesie, / Che tì ti-disi, e no' ti scrivi mai, / I 'me gà dito» 1 • In questi versi, composti in Germania tra il 1931 e il 1932, Giacomo Noventa misurava la propria distanza dai «leterati» ermetici. In un altro testo risalente al 1933 il poeta confermava la propria scelta dell'oralità: «Nei momenti che i basi fermemo / No' par gusto ma par riflession, I La me amante vol scriver i versi, I Che mi digo e me basta de din/. Alla fruizione o, come ironicamente scriveva, alla "degustazione" solipsistica del verso, il poeta veneto preferiva la recitazione ad alta voce per uno scelto uditorio di amici e «toseti», allo stesso modo in cui all'ascetismo della forma aveva opposto una poesia aperta alla varietà delle occasioni, nella quale trasparissero l'artificio, la letteratura. La pronuncia noventiana rappresenta la più recisa antitesi alla sillabazione interiore dei lirici nuovi: un'anacronistica opzione per l'oralità resa possibile dall'impiego del dialetto veneto, all'origine dell'intonazione ironico-discorsiva che caratterizza la poesia di Noventa3 • In quegli stessi anni compariva a Milano presso la casa editrice Mondadori L'è el dì di Mort, alegher! di Delio Tessa, corredato di una dichiarazione che non lascia dubbi: 40

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