Tutta la spazialità urbana successiva - dallo spazio prospettico rinascimentale, agli "sfondamenti" delle fughe barocche, fino all'esprit de géométrie dei piani illuministici- è mossa dall'idea di restaurare l'«internità» dello spazio urbano, anche se via via si assiste al ridimensionamento del rapporto ideale con il mondo celeste. A partire dal Rinascimento, l'internità è infatti l'ambito in cui si esprime l'individualità dell'homo faber; una concezione questa destinata a prevalere con la razionalità funzionalista dopo l'ambigua esperienza barocca che si muove fra due orizzonti: la celebrazione del potere e la ricerca di uno spazio che tende a rimettere in gioco il rapporto tra il conosciuto e l'inconosciuto. Il terreno comune che lega queste esperienze tra loro molto diverse è appunto la tensione a restaurare la città come internità, come insieme di spazi delimitati, dominati dal senso dell'accoglienza un tempo ritenuto prerogativa dell'intero cosmo. L'utopia della riconquista di un senso di appartenenza al mondo materiale guida dunque gli interventi sulla città dal Medioevo fino alla città industriale. Ciò spiega sia la libertà con cui si opera sulle preesistenze storiche sia la sostanziale unitarietà dello spazio urbano fino all'Ottocento; e ciò accade, come si è detto, perché il sentimento dell'abitare guida l'opera costruttiva, la quale risulta così segnata dalla nostalgia di Ghe, la Grande Madre. Ad un certo punto, tra Otto e Novecento, questo filo che lega la storia della città si rompe e se l'intervento sulle preesistenze storiche diviene problema di non facile soluzione, lo si deve soprattutto al fatto che non sono più quel sentimento e quella nostalgia a trasformare il mondo. Al loro posto si è insediata una invadente razionalità strumentale. È qui che vanno ricercate le radici della questione del restauro urbano inteso come restauro dell'intorno. Al centro del restauro urbano deve essere posto l'obiettivo del ripristino della interlocuzione tra le parti e tra i 159
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