Il piccolo Hans - anno XIII - n. 51/52 - lug./dic. 1986

accenti dell'«io» che si espone al tormento della propria condizione, che gli si raffigura nel freak, perduto nel testo della seconda versione, eppure presente nel riflesso del cucchiaio. È quell'«io» il freak, quello che dice: «Io che muoio queste morti, che nutro questa fiamma, / che ... ravviso la maschera della vita specchiata in cucchiai lustri: / vi addomestico le mie tempeste, il mio fuoco,Ja mia febbre incomposta». And I that die these deaths, al primo verso, ricorda il seguente passo da «The Flower» di George Herbert, citato da Gardner: After so many dea.ths I live and write ... It cannot be That I am he On whom Thy tempests fell all night. È dunque la terzina della morte, del fuoco e della tempesta, la terzina dell'anamorfosi dell'«io», nella cui raffigurazione si congiunge il tono metafisico della quartina dell'umano memento mori e la nauseante volgarità della fisiologia intestinale dell'uomo della prima terzina, dell'uomo che si vuota con onta. Infatti il corredo da tavola di cui ci si serve per pietanze liquide , o semiliquide, riflette l'immagine metafisica della vita, facendone sulla sua superficie deformante, nell'occhio riflettente del cucchiaio, un mostro. Il fuoco è quello della natura: un fuoco eracliteo, un fuoco greco che lascia del mondo solo cenere. Così questa terzina, chiudendo quello che fu chiamato il sonetto «cinico» di Hopkins, dà spazio solo alla prima parte di ciò che è formulato nel titolo del sonetto 48: «That nature is a heraclitean fire and of the comfort of the Resurrection». Non c'è conforto di Resurrezione, qui, ma solo consunzione, febbre rumorosa e scomposta. «Cinico» questo sonetto anche per l'incremento disforico che molti temi, altrimenti ricorrenti, qui vengono ad assumere. Si pensi solo al bagliore balenante del foglio d'oro che nel sonetto 7 è devolu27

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