Il piccolo Hans - anno XIII - n. 51/52 - lug./dic. 1986

riproduce nell'incubo di Ivan Karamazov. «In questa scena l'eroe in preda al delirio interpreta ciò che vede, di volta in volta, come il proprio monologo allucinato, e come l'intrusione di un 'visitatore inatteso'». Hopkins interviene su questa situazione abolendo il gioco alternante della prima e della seconda persona del dialogo «allucinato», fissando tutto l'effetto sull'«io» dialogante, su quella voce solitaria sospesa alla propria enunciazione che caratterizza il tono di questo nuovo, moderno «io». Con questa precisazione acquista particolare valore l'osservazione di Jakobson che segue alla precedente: I due tratti fondamentali e complementari del comportamento verbale sono qui messi in evidenza: ogni discorso interiore è essenzialmente un dialogo; ogni discorso riprodotto è ri-appropriato e rimodellato da chi cita, sia che la citazione in questione sia .presa da qualcun altro o da un momento anteriore del proprio Io (a titolo di ho detto). Poe ha ragione: è la tensione fra questi due aspetti del comportamento verbale che conferisce a «The Raven» - e io aggiungo: a ciò che costituisce il sommo dei Fratelli Karamazov - la loro rie, chezza poetica. E questa antinomia viene a sovrapporsi a un'altra tensione che le è analoga: la tensione fra l'Io (Mai) del poeta e l'Io (le) del narratore della finzione. «Ogni discorso interiore è essenzialmente un dialogo», così la proiezione del fool in Hopkins sta a significare una precisa situazione di linguaggio, dentro cui prendono forza anche i riferimenti ai personaggi della tragedia shakespeariana, e alle invocazioni della Bibbia. I rimandi ad esempio fra il. Lear e il sonetto 69 sono molti. Anche le parole di Macbeth risuonano in Hopkins, quando sembra svegliarsi da un incubo ed esclama: «Ho quasi scordato il sapore della paura. Passato è il tempo, in cui i miei sensi si sarebbero agghiacciati per uno strido notturno... Io mi sono satollato di orrori: lo spavento, familiare ai miei pensie21

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