Il piccolo Hans - anno XIII - n. 49 - gen./mar. 1986

La trasmissione del sapere nel buddhismo zen Ogni tradizione religiosa, sapienziale, filosofica, ideologica, non sarebbe tale se non avesse saputo elaborare un proprio codice di trasmissione culturale, se non possedesse un proprio convincimento su che cosa deve essere proposto ai contemporanei e tramandato ai posteri, perché e come la trasmissione deve aver luogo. Questa considerazione è ovvia e ineluttabile al tempo stesso; eppure lo zen non si lascia sfuggire nemmeno in questo caso l'occasione del paradosso. Alla proposta del nostro tema, un maestro zen (da Bodhidharma a Suzuki) risponderebbe: «Non c'è niente da trasmettere, non si vede quindi perché si dovrebbe trasmettere qualche cosa; e in ogni caso non c'è nessun veicolo possibile di trasmissione». Probabilmente Bodhidharma, certamente Suzuki, impiegherebbero un profluvio di parole per illuminare questa asserzione: perché è tipico delle posizioni mistiche o con una marcata dimensione mistica il produrre mille volumi per spiegare che non c'è niente da dire e spendere la vita a insegnare l'impossibilità di ogni pedagogia. Desiderosi di brevità, ricorriamo a un occidentale, ancorché convertito. R. H. Blyth apre il primo di una serie di volumi suoi sullo zen 1 con un elegante e commosso ossimoro: «Dedicated, as all my books shall be - to - Suzuki Daisetz - who taught me - all that I don't know». 131

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==