Pègaso - anno IV - n. 9 - settembre 1932

Lettera a Michele Barbi, pel suo Dante 361 all'acceleratore, non riesca a diventare tangibile azione, preferire alla cultura l' improvvisazione che con più lesto voèabolo si può chiamare audacia, come alla tavola del gioco. Il caso, anzi il miracolo, non la premia ? E si punta sull'altro colore, senza tema di contraddirsi. Ohe cosa è la contraddizione? Uno sfortunato confronto tra ieri e oggi. Dato che il ieri non esiste perché è un vano passato, neanche la contraddi– zione può in questo mondo sconnesso più esistere. Quando noi s'era gio– vani, c'insegnavano anche dalla cattedra di s,cienze naturali elle cosa era l'evoluzione. Ci credevamo, non ci credevamo; certo è che adesso tutto è rivoluzione, a cominciare dai costumi delle famiglie dove si dice che i padri debbono imparare a vivere dai figli, e dalle figlie le madri. Né è detto che, specie alle madri, il nuovo ordinamento non dia a certe ore qualche soddisfazione. Chf pensa al domani ? Troppo fosco o almeno troppo nebbioso è nelle presenti angustie il domani. E poi pensare ve– niva ai nostri tempi da pesare, e oggi ognuno ha i suoi pesi e se li bolla da sé: tutti i pesi cioè sono falsi. « Legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolo– rosa povertade >>. Quando Dante diceva questo di sé, lo diceva con tri– stezza e mortificazione. Oggi i più, sapessero trovar le iJarole, lo direb– bero di sé stessi con orgoglio o almeno con indifferenza, tanto è comune a tutti questo destino e, se le cose non muteranno, questa povertà. Tanto comune che sarebbe stolto credere l'umanità si sia, così di– sancorata dal passato per moda soltanto e per capriccio. Prima di tutto (ed ella che per la pratica dell'insegnamento è vissuto e vive accanto ai giovani, lo sa meglio di me) queste manie del nuovo pel nuovo, fossero la musica e le danze e le sculture dei negri o le parole in libertà o, in filosofia, la negazione della realtà oggettiva e, in arte, la ricostruzione d'un'altra realtà instabile, informe e soggettiva, si videro assai prima della guerra. La guerra insomma apparirà probabilmente tra cento anni, agli studiosi della nostra civiltà, una conclusione piuttosto che un principio. La stessa cultura, dopo un secolo o due d'erudizione, già non significava più che docile memoria. Gl'ingegni erano soffocati e schiacciati da tutto quello che dovevano sapere prima d'incamminarsi per la loro strada. Gli enciclopedici programmi delle scuole erano già una scommessa; e, per i più, gli esami un gioco della fortuna. Si pa– ragoni la libreria del Petrarca a quella del Carducci, per non dire che di letterati e di filologi: uno a mille. La rivolta rè venuta dunque anche dal bisogno di fare tabula rasa di tanto sterminato sapere, di gittare quel fardello intollerabile, con la speranza, chi sa, di risalire finalmente così alleggeriti il Parnaso. La guerra, le stragi, le pene, l'insoddisfazione degli stessi vincitori, l'incapacità del mondo a salvarsi in concordia seguendo la ragione, hanno esasperato quell'insofferenza e aggravato la condanna d'un pas– sato che, sembra ai miopi, non ha insegnato alcun bene e nessun male ha impedito, e, dovesse ripetersi, potrebbe portare altre pene e altre stragi. S'aggiunga che tutt'attorno ~ questi felici smemorati fino le scienze, .anc6ra trent'anni addietro maestre e padrone della civiltà, per– dono di consistenza e di stabilità. Pei nuovi storici la storia umana è discontinua. Date talune circostanze di tempo e di luogo, un cristallo BibliotecaGino Bianco

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