Pègaso - anno III - n. 2 - febbraio 1931

Antonio Mancini neamenìe all'origine stessa della pittura manciniana e si ritrova per forza di ~ogica, fratello minore di Recco e di Ruoppolo, in un secentismo cioè ritardatario. Perché sortita da un temperamento privilegiato e per– ciò isolato, la pittura del Mancini doveva essere priva di discendenza. A poco a poco, via via che s'affievoliva il consenso all'impressionismo, col quale, se mai, aveva qualche legame di parentela, l'arte di Antonio Mancini si segregava dal movimento ricostruttore del tempo in cui, vec– chiezza florida, sopravviveva. I giovani badavano a ricostruire volumi :netti nello spazio; gradatamente tornavano ad una chiarezza di sintesi che rivelava, come rivela, la fatica del giungervi; risolutamente si pro– ponevano problemi nuovi, ed anche antichi, di composizione e di stile; e lui seguitava imperturbabile a dipingere con quella sua maniera che aveva conquistato quasi di colpo e conservava fedele da sessant'anni, ché lo Scugnizzo è nientemeno del 1868. Una delle caratteristiéhe più evidenti dell'arte d'oggi consiste nel ritorno al gusto delle zone lisce e vuote in contrasto voluto con quelle rilevate e dense; dall'architettura e dalla scultura allà pittura e alla decorazione son le pause di piano riposo quelle che contano per da.r ri– salto agli accenti più risentiti. Dopo quasi un secolo d'affastellamento, sì che in architettura si riempiva d'ornamento ogni spazio e in pittura si frantumava la forma fra il gioco dei riflessi e le irrequiete vibrazioni dei toni, ora si torna a godere il disadorno, lo spaziato, il tranquillo. In Antonio Mancini permaneva invece l'horror vacui ottocentesco, quando {)gni studio d'artista rigurgitava di rigatteria, polverosa e promiscua, fende con la frangia accanto ad animali impagliati, panoplie d'armi in– sieme con raccolte di ceramiche, drappeggi di velluto in compagnia di manichini a sbrendoli e di cornicioni dorati. Su tale sfondo un moschet– tiere gesticolava o una damina incipriata sodisfattissima rideva. Antonio Mancini da quello scenario e da quelle comparse alla Fortuny tirava fuori certi pezzi di pittura così saporita e, ghiotta che si rimaneva lì ad assag– giarla e gustarla· con delizia. Eppure erano già in un museo, tanto remote apparivano ormai, nella loro spontaneità senza tormento, dall'ansioso rinnovamento odierno. S'era accorto il Mancini di tutto ciò ? A vedere gli ultimissimi suoi ritratti, campiti in nero sul bianco, sgombrati dagli accessori superflui, ridotti a due o tre toni essenziali in una più riposata larghezza, si direbbe di sì. Però, anche questa volta, senza dramma. Ingenuo, semplice, pretto, Antonio Mancini guardava. Tutte le cose intorno erano materia pittorica. Il resto che importava? Aveva forse mai domandato qualcosa di più che la facoltà di dipingere? C'è un altro aneddoto recente che lo rivela tutto. Dovevano votare alla Farnesina una terna d'artisti da proporre al Duce per la nomina d'un nuovo accade– mico d'Italia. Ne rimanevano in lizza e in discussione una diecina. « Bi– sogna che ne scelga tre» fu detto al Mancini, in quelle cose disorientato. Rispose pronto : « Ma no; son tutti boni, son tutti boni; io li voto tutti>>. Né ci fu verso di fargli scrivere soltanto i tre nomi da proporre. Anche in questo egli era alquanto lontano dai tempi nostri. RoBERTO PAPINI. BibliotecaGino Bianco

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