Pègaso - anno I - n. 12 - dicembre 1929

730 U. Ojetti cupa di come è, ma di come appare, e riesce a realizzarla. com~ un fantasma soggettivo creato, anzi che come una realtà oggettiv_a rip~o– •.dotta », che sarebbe l'equivalente, dati i tempi, di quello stato di grazia, .di quel momento e processo mistico per cut la pittura medievale fu ,grande e, quasi quasi, fu la sola grande. . Non sto a dirti lo stupore di vedere proprio questa moderna pittura « alla prima» e dal vero, paragonata, non certo nell:1 tecnica ma nel– l'tmpulso creatore alla più lenta, cauta ed esperta pittura ad affresco, .a mosaico, a tem'pera che si sia veduta al mondo : alla pittura dal decimosecondo al decimoquinto secolo. Per quanto duttile e sottile sia la tua dialettica, solo a immaginare un qualunque Manet, l'Olympia o la Servante de bocks o lo stesso Cristo tra i due angeli che è al Metro– politan di Nuova York, esposto per miracolo a Padova dentro la Cap– pella degli Scrovegni, tra i Giotto, tutti ti avvertirebbero che il polo nord non può essere sovrapposto al polo sud nemmeno in sogno. Sem– plicità ? Rapidità ? L'immagine quale ci appare ? Prova a porre nella bocca di Giotto la formula di Manet, fare cioè alla prima quel che si vede e, se non ci si riesce, ricominciare; e tu per primo sentirai l'as– .surdo, scusa, della profanazione. Ma questo è un gioco. L'importante è per me riuscire a capire come mai proprio tu non veda, con la tua esperienza dell'arte d'ogni secolo, che la rapidità di Manet non è un segno della sua potenza, ma della sua debolezza al confronto di quei nostri grandi : del timore cioè che, a non far presto, la retorica accademica o la stanca falsità o l'insupe– rabile difficoltà si possano insinuare tra la fantasia e l'esecuzione, tra la sensibilità e l'azione. Egli che attraverso ai secentisti spagnoli e fiam– minghi è l'ultimo e ansioso figlio dei nostri veneziani del '500, egli che ha cominciato col dipingersi a Firenze una copia della Venere di Ti– :ziano, è tanto intelligente ed onesto da sentire che a non correre ca– drebbe; che insomma non potrebbe resistere allo sforzo del quadro com– plesso e compiuto (non dico, bada, finito e rifinito). E perciò egli si crea, ,con un lungo e paziente studio sugli esempi suddetti, una sua .tecnica veloce e abbreviata che gli permette davanti al vero d'arrivare d'un fiato fino in fondo: un fondo che, al confronto non dico di Tiziano ma di Ve– lasquez, è sempre superficie, è quel piatto dipingere che tu ammiri in lui perché non è l'aborrito tuttotondo del nostro plastico e incredulo e « in– tellettualistico » Cinquecento. Molte donne amano il balbettare dei ti– midi: è un segno, credono, della loro sincerità nella passione. E quando io vedo Manet, un pittore di tanto luminosa cordialità, prendere a Raf– faello, da una stampa di Marcantonio Raimondi, tutta la composizione del Déjeuner sur l'herbe, figura per figura, gesto per gesto, quasi a cer– .carsi subito un appoggio sicuro per un viaggio forse troppo lungo e pe– riglioso per le sue forze, mi sembra di vedere tutta la storia della pit– tura moderna nello scorcio d'un apologo. Cézanne, scusa, è l'opposto. Nel periodo maturo, dal 1886 in là, il suo còmpito è stato trarre gli elementi plastici e i sodi volumi della realtà fuori dal polverone dell'Impressionismo di Mònet o di Pissarro; liberare i pittori dal pregiudizio di dover copiare rapidamente la super– ficie del vero per riuscire a rendere lo sfarfallio della luce nell'attimo BibliotecaGino Bianco

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