Lo Stato - anno I - n. 1 - 20 dicembre 1960

30 sato, Adriano dice: « Non è vero che la morale è importante, la morale è una gran fregatura, ma è importante chi te la insegna ». Si tratta di una conclusione scopertamente a.moralistica, dove il naturaHsmo prende il posto di una purezza troppo difficile da conse– guire. Del resto questa ambiguità coin– volge tutta l'impostazione del dramma: il protagonista ha commesso gli atti più spregevoli, ma è soltanto una vit– tima della società (miseria, guerra, te– deschi ecc.) e quindi rimane ostenta– mente al di fiuori di ogni giudizio morale; la stessa <.<conversione»non è un scelta responsabile, ma la conseguen– za di una suggestione sensuale che lega Adriano alla moglie « per bene», e che non si sa quanto potrà duraire. Naturalmente la struttura ed H lin– guaggio dell'opera risentono della po– vertà di contenuto drammatico (ii.n so– stanza i personaggi rimangono quelli che erano al sollevarsi del sipario). Nu– merosi artifici sia del commediografo sia del regista vengono impiegati per mantener desta 1'attenzione dello spet– tatore: una falsa suspence, per esem– pio, è ottenuta facendo procedere il rac– conto à rebour, senza alcuna giustifi– cazione perché le visioni retrospettive si riferiscono ad episodi inseriti, anche cronologicamente, nel complesso della azione scenica. La ,ricostruzione astrat– ta dell'amibiente e gli approssimativi primi piani di taglio cinematografico vogliono poi conquistarsi a buon mer– cato l'interesse de1 pubblico. E' piutto– sto grottesco, infine, il tentativo di no– bilitare il linguaggio con repentm1 passaggi da un realismo banale a squar– ci letterari di dubbio gusto, che mal si attagliano al carattere dei personaggi: << per me tu sei un prato da arare », dice Adriano al1a moglie, e lei rispon– de ~ nell'intimità il tuo dorso si muo– ve com.e una mandria di bufali zn corsa». Come era logico attendcrsi, l'affiatatis– sima e raffi.nata Compagnia De Lullo– F alk1Gu~niìeti1.Valli ha ar.ricchito il testo con una messa iin scena che cont-a al suo attivo quakhe suggestione at– traente per 1o spettatore sproweduto. bibliotecaginobianco. Lo Stato CINEMA UN GOBBOFUORI STAGION.E E UNA MONACAAL RIMMEL Altri due film piovono 1n questi gior– ni sugli schermi italiani a perpetuare la nobile battaglia per la cultura bandita tre mesi fa dal <<genionazionale» Lu-– chino Visconti: « Il Gobbo» di Carlo Lizzani, reduce da una breve perma- "'nenza nelle segrete della censura, e « Lettere di una novizia » di Alberto Lattuada, uno scherzo di cattivo gene– re giocato alle pagine di Guido Piovene. Il gobbo del Quarticciolo, fantomatico personaggio del dopoguerra romano, e la novizia assassina dd romanzo di Piovene - creature se non altro incon– suete - sono al centro di due film che h:i.nno in comune lo stesso grigiore, la stessa pasta noiosa e priva di lievito. Carlo Lizzani fu una delle « grandi speranze » della sinistra nostrana. Il suo grosso volume sul « Cinema italiano » rappresenta una interpretazione rigoro– smente marxista di cinquant'anni di Settima Arte. Nel 1951 sembrò rinno– vare i fasti del primo neorealismo de– buttando come !l"egista con « Achtung Banditi! », fervida epopea della resi– stenza. Ancora un film « impegnato » - « Cronache di poveri amanti», dal 1 omanzo di Pratolini - poi il nostro perse gradualmente quota sino ad at– terrare su quella specie di favola rosa per americani buoni che fu «Esterina». Oggi « I,l gobbo » è una frettolosa li– quidazione degli ultimi scampoli di neo– realismo, opportunamente spolverati e dosati dal produttore De Laurentiis. Non si è voluto ricostruire con ngore un episodio di un periodo particolar– mente drammatico, né precisare il !l"i– tratto psicologico di un individuo anor– male, insomma non si è scelta una pre– cisa chiave per narrare questa storia: il « gobbo » non è un delinquente e non è un Robin Hood, non è un bandito e nn è un partigiano. Porta in giro pi- gramente per quasi due ore il volto da intellettuale poco convinto di Gerard Bla1i.n,ama gli orfanelli, ammazza i fa– scisti ma non se la fa più con i parti– giani, fa fuori uno sfruttatore, seduce una figlia di fascista, si apposta diet,ro le fratte con una compagna d'occasio– ne per consolarsi del tradimento della amante, divora un grappolo d'uva strap– pato da una vigna particolàrmente pre– coce, dato che siamo in marzo, e, final– mente per Jo spettatore, incappa nei colpi d'a,rma da ,fuoco della polizia. L'unico dato positivo del film è costi– tuito dalla prestazione in qualità d'attore di Pier Paolo Pasolini: il « tutto » della cultura italiana ha finalmente trovato il· suo vero mestiere: losco, arrogante, violento, il suo «monco» è l'unico piz– zico di neorealismo riscontrabile in tutto il film. Se possibile, « Lettere di una nov~zia » è un'opera ancor più indisponente pro– pri.o pe,rché vi si coglie l'intenzione di rivolgersi a quel puibblico di ingenui raf– finati che ha preso sul seflio le atmosfere fumiste e i personaggi arzigogolati della « nouvelle vague». Le pagine di Pio– vene, tutt'altro che disprezzabili, sono ridotte a un centone volgare, inutilmen– te condito da strani virtuosismi stilisti– ci. Il compromesso balza agli occhi an– che perché Alberto Lattuada si è accon– tentato di calare nella sua storia due personaggi già fabbricati, che girano l'Europa in compagnia dei loro inter– preti: Pasca:le Petit, francesina sofisticata dagli occhi profondi cerchiati di nm– mel, un volto paffutello che una noia da esistenziaJista di terzo grado appena scalfisce; Jean Paul Belmondo, spedito cafone, trascurato dongiovanni, simpa– tico villano. Il !l"estosi intuisce da sé. Non varrebbe la pena di prendersela con due film in fondo non peggiori di

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