donne chiesa mondo - n. 48 - luglio 2016

DONNE CHIESA MONDO 8 DONNE CHIESA MONDO 9 nata io, a Butare. Si diceva che Butare era la città intellettuale del paese perché era lì che la Chiesa cattolica si era sviluppata e perché c’era un’università. Credo sia questo il motivo per cui il genocidio è iniziato molto tardi a Butare, dopo il 20 aprile. Il presidente dell’epoca vi si è dovuto recare di persona per incitare la gente a uc- cidersi. Penso tuttavia che sia stato anche uno dei motivi per perdo- narsi. Perché? Ammettiamo che tuo cognato sia venuto per uccidere tuo marito... I vostri figli sono cugini: come si potrebbe impedire lo- ro di vivere insieme? Impossibile. Per me è molto bello vedere che ancora oggi figli di vittime si sposano con figli di carnefici. Abbiamo dunque un punto da cui partire proprio grazie ai nostri figli. Penso che saranno proprio le prossime generazioni a salvarci. Il ricordo del bene è più forte di quello del male? Certo. Il ricordo del male distrugge, mentre quello del bene co- struisce. Là dove vorrei aprire la mia scuola, c’è un monumento com- memorativo che permetterebbe ai bambini di capire la storia di quel genocidio. Non voglio che ne serbino l’orrore. Vorrei che ne conser- vassero solo gli aspetti positivi. Perciò vorrei creare lì il primo giardi- no dei giusti. I giusti verranno a rendere la loro testimonianza ai bambini, seduti in quel giardino. Il giardino del bene, appunto, là dove si parlerà delle persone che hanno rifiutato il male, a rischio della propria vita, che hanno fatto il bene. Così i bambini conosce- ranno la storia completa del genocidio, serbandone solo il bene. Cer- cheranno di essere come i buoni, non come i cattivi. tere sulle modalità, non per arrivare al perdono, ma per andare al di là del genocidio... Mi interessano sia il perdono sia la riconciliazione. Non capivo co- me si poteva perdonare quanto era accaduto, come le persone avreb- bero potuto vivere nuovamente insieme e riconciliarsi. Ma alla fine mi sono resa conto che tutto ciò fa parte della nostra cultura, da molto prima della colonizzazione. Tutto parte dalla verità, dalla con- fessione. È la prima cosa. Che il colpevole voglia chiedere perdono. Se qualcuno che vi ha fatto un torto non vi vuole chiedere perdono, è perché non ama l’idea della vostra ricostruzione. Ebbene, finché tu non ti ricostruirai, lui stesso non si ricostruirà, resterà bloccato in quell’odio. Tutto ciò per quel che riguarda la richiesta di perdono. Ma per perdonare? Non è difficile perdonare quando qualcuno te lo chiede. Nella no- stra cultura, quando si faceva un torto a qualcuno, si chiedeva perdo- no, davanti alla famiglia prima di tutto, e confessava il male commes- so. L’altro aveva il diritto di perdonare o meno. Ma si perdonava sempre. L’unica differenza è che non c’erano ancora stati crimini di sangue, crimini orribili come il genocidio. Anch’io pensavo che tutto ciò non poteva funzionare con i crimini di sangue. Allora, come si poteva fare? Mi sembra — ma potrei sbagliarmi — che i punti siano due. Il primo è la presenza del perdono nella nostra cultura, come ho spiegato. Il secondo è che i ruandesi si erano sposati tra loro, sen- za preoccuparsi del fatto di essere hutu o tutsi, soprattutto dove sono Due ritratti ripresi dal libro «Les blessures du silence»: a sinistra Clémence K. 22 anni, sopravvissuta; a destra Jean-Damascène M. 18 anni, recluso in un centro di rieducazione

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