donne chiesa mondo - n. 45 - aprile 2016

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne donne chiesa mondo donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Mensile dell’Osservatore Romano aprile 2016 numero 45 A cura di L UCETTA S CARAFFIA (coordinatrice) e G IULIA G ALEOTTI Redazione: C ATHERINE A UBIN , A NNA F OA , R ITA M BOSHU K ONGO , S ILVINA P ÉREZ (www.osservatoreromano.va , mail :dcm@ossrom.va, per abbonamenti: info@ossrom.va ) Forse era necessario La sterilità di Sara, Rebecca e Rachele serve a dirci l’importanza del suo contrario di M ARIE -L UCILE K UBACKI D elphine Horvilleur è rabbino del Movimento ebraico liberale di Francia dal 2008. Giornalista, caporedattrice della rivista di pensiero e di arte ebraica «Te- nou’a», ha appena pubblicato il saggio Com- ment les rabbins font les enfants (Grasset, 2015). L’abbiamo incontrata a Parigi. Il nazionalismo, il comunitarismo, lo spet- tro della non appartenenza: i sintomi della nostra epoca sembrano tutti legati a un di- sturbo dell’identità e della trasmissione. Co- me lo spiega? «È più che evidente che la no- stra epoca è molto sensibile a questo proble- ma, visto che è onnipresente nei discorsi po- litici, religiosi e familiari. Da un lato c’è un discorso iper-individualista, tipico delle no- stre società che si ritengono libere da ideolo- gie rigide; questo discorso ci fa credere che potremmo crearci al di fuori delle nostre ori- gini e inventarci lontano dalla nostra eredità. Alcuni genitori dicono: non voglio imporre nulla ai miei figli, mi sono liberato della mia ascendenza e vorrei che la mia discendenza si creasse come se fosse una tabula rasa. Il che è, chiaramente, pura fantasia. Dall’altro lato, a questo mondo ultra-individualista, che può essere molto ansiogeno, il discorso fonda- mentalista risponde che non siamo altro che la nostra appartenenza, che dice tutto di noi e che, per esserle fedele, occorrerebbe rispon- dere in modo identico. La società oscilla tra questi due estremi. Il fatto è che ognuno di noi è ciò che è perché è appartenuto. Biso- gna prima appartenir per poter à-part-tenir » (è un gioco di parole: appartenir si pronuncia come à part tenir , dunque appartenere per mettersi da parte). «La nascita stessa del soggetto — prosegue Horvilleur — dipende dal fatto che si è detto “sì” per lui, prima che potesse dire “io”, che lo si è fatto appartenere a un gruppo, a una cultura, a un sistema dal quale potrà emerge- re come soggetto». Come può l’esplorazione delle nostre tra- dizioni religiose aiutare a uscire da questa duplice impasse? «Una tradizione religiosa ci offre una poesia, un universo, qualcosa che ci permette di costruirci e di avviare un proces- so di rilettura. Si pensa spesso che “religio- so” venga da religare (legare), ma altri dicono che viene da religere , che significa rivisitare, rileggere. Devo quindi intendere la religiosità come un modo di legarmi alla mia storia ma anche un invito a rileggerla e a rivisitare i te- sti della mia tradizione». Allora come spiega che, nella Bibbia, il primo ad ascoltare l’ordine di lasciare il pa- dre e la madre è Adamo, l’unico uomo a non avere un padre e una madre? «È un vero mi- stero. Vi si può vedere un potente monito fatto all’umanità fin dai suoi albori a non fondersi con il mondo delle origini, monito che nella Bibbia viene ripetuto quasi a ogni generazione. Nella Bibbia la necessità del viaggio esprime l’imperativo di lasciare il mondo delle origini: è molto diverso da quanto accade soprattutto nella mitologia greca, dove i personaggi viaggiatori, come Ulisse, partono per tornare a casa. La visione biblica è che si lascia il mondo da dove si viene per non tornarci più, sull’esempio di Abramo che lascia Ur in Caldea o degli ebrei che lasciano l’Egitto. Non si tratta di un ri- torno alle fonti, ma di un mettersi in cammi- no rispetto alla terra che ci ha visto nascere, la matrice della nostra storia. È interessante per le nostre società monoteiste ricordare che hanno scelto come modello un uomo-padre, Abramo, che ha lasciato suo padre perché gli è stato detto di farlo e ha avuto un destino incredibile perché si è messo in cammino. Da allora dobbiamo porci la domanda: che cosa significa essere fedeli alla nostra eredità se non essere figli di Abramo? L’identità nasce da un’uscita dall’identità. Nel mio libro scri- vo che è per non trasmettere in modo identi- co che gli ebrei fanno figli, perché qualcosa smetta di riprodursi». Uscita dall’identità che non significa nega- zione dell’origine. «Siamo ciò che siamo per- ché siamo nati da una matrice da cui siamo stati tagliati. La matrice è una fonte di vita ma se non la si lascia, è una tomba. Nei no- stri testi c’è l’ossessione del taglio, particolar- mente forte nell’ebraismo, che ne fa addirit- tura il segno dell’entrata nell’Alleanza. In ebraico, si dice tagliare un’alleanza. È il ge- sto della circoncisione: l’entrata nell’Alleanza passa per un taglio nella carne, che è un lin- guaggio simbolico di separazione e di rifiuto della fusione con il mondo materno». Una perenne uscita dall’Egitto, che lei pre- senta come la madre di tutte le madri ebree. «Povere madri ebree, quante cose gravano sulle loro spalle! Ma in effetti l’Esodo può essere molto facilmente letto con metafore ostetriche: il seme di Giacobbe popola l’Egit- to che tiene il suo popolo prigioniero. Il po- polo poi cresce fino a provocare le doglie del parto, le dieci piaghe che colpiscono la ma- trice egiziana fino a quando questa lascia gli ebrei perforare il sacco amniotico per metter- si in cammino verso la libertà. È chiaramente un rapporto matriciale con l’Egitto dal quale è stato necessario tagliarsi per mettersi in cammino verso una terra promessa». Quali sono le implicazioni teologiche di questa metafora ostetrica? «C’è il rifiuto del- la teologia del pas-touche , non toccare: non toccare il mio testo, le mie letture, la mia ere- dità. Proprio di una religione viva è toccare le letture passate. Impuntura ciò che è stato fatto da altri prima di lei. Non disfa le cuci- ture, ma riprende il filo». In che modo il taglio è, a sua volta, un movimento di alleanza? «Ogni taglio crea uno spazio vuoto, una faglia in qualcosa che era completo. Lo spazio vuoto crea la possi- bilità dell’incontro. La condizione dell’incon- tro è l’incontro dell’alterità e la condizione dell’alterità è lo spazio. Non c’è alleanza sen- za alterità e senza spazio vuoto». Niente monoteismi dunque senza un vero riconoscimento dell’alterità femminile? «La donna è sempre, in tutti i sistemi e non solo in quelli religiosi, portatrice dell’alterità prin- cipale. È l’altro. Simone de Beauvoir diceva che il femminile è sempre l’altro, persino per la donna! Il femminile, che non è un attribu- to esclusivo delle donne, è il genere dell’inte- riorità ancora nascosta, di ciò che resta da ri- velare della vulnerabilità. Non sorprende quindi che tutti i sistemi abbiano in comune un problema con il femminile come elemento sovversivo. Avanzare nella questione del fem- minile e delle donne è la condizione prin- cipale per avanzare nella questione dell’alteri- tà, del non credente, del diverso, di ciò che è alla periferia. La donna è il sintomo del po- sto che si è pronti — o non pronti — a fare all’altro». Lei stabilisce un legame tra la sofferenza delle madri e la violenza dei figli nella Bib- bia. «Esaminando i personaggi violenti della Bibbia, mi ha colpito constatare che c’è un elemento ricorrente: Caino, Ismaele, Simeo- ne, Levi e Assalonne hanno in comune l’aver avuto madri non amate, non ascoltate, non comprese. Agar, la madre d’Ismaele, è man- data nel deserto, Lia non è amata rispetto a sua sorella Rachele, la madre di Assalonne è un bottino di guerra. La cosa è ancora più complessa per Eva, la madre di Caino. Al momento della sua cacciata dal giardino dell’Eden, Eva è condannata a una perdita di controllo, «verso tuo marito sarà il tuo istin- to, ma egli ti dominerà», che, secondo i com- mentatori, ha qualcosa a che vedere con l’en- trata nel mutismo. Eva perde la parola e di- viene un essere senza voce. La posta in gioco nel rapporto tra Caino e Abele è legata alla strana relazione creatasi tra Adamo ed Eva. Caino significa “posseduto”: è come posse- duto dalla storia della donna che gli ha dato un nome, sua madre. È posseduto da una madre che nel suo mutismo fa di lui una me- dicazione alla sua sofferenza. Ciò riecheggia in molte storie di legami madre-figlio, di sof- ferenze di madri che vedono nella nascita del Inquisizione e impurità di A NNA F OA N ella seconda metà del Quattrocento, le conversioni forzate degli ebrei nella penisola iberica portarono all’adozione da parte di molti dei conversos di un sistema di pratiche e credenze definito dall’Inquisizione marranesimo o “eresia giudaizzante”, cioè l’osservanza segreta dell’ebraismo coperto dalla maschera della religione cattolica. In realtà, soprattutto con il trascorrere delle generazioni e la conseguente perdita di molte conoscenze, a cominciare dalle date esatte stesse delle feste ebraiche, il marranesimo assunse caratteristiche sempre più sincretistiche, mescolando credenze e pratiche cristiane con quelle ebraiche e dando vita a quella che è stata definita la “religione marrana”. Ne è un esempio significativo la particolare devozione dedicata a santa Esther, protagonista della festa ebraica del Purim e festeggiata dalla Chiesa cattolica il 1° luglio come santa, ma celebrata con particolare devozione dai marrani, che vedono in lei la prima “marrana” (Esther in ebraico vuol dire colei che si nasconde), e che la festeggiavano per tre giorni con parziali digiuni a ricordare quelli di Esther nel testo biblico. Di notevole interesse è anche una pratica di cui resta memoria in un processo dell’Inquisizione in Messico, che portò al rogo nel Cinquecento un converso di origine spagnola stabilitosi nelle Americhe. Egli era accusato di aver imposto alla moglie di non andare in chiesa e di non assistere alla messa durante i periodi mestruali, rivelando così, come diceva la sentenza, di agire «in obbedienza alla legge di Mosé». L’accusato era forse convinto di agire da buon cristiano, imponendo alla moglie l’astensione dalle pratiche religiose durante il periodo mestruale. Nel sistema ebraico, in questi giorni la donna è niddà , cioè impura, e le è proibito di accostarsi al marito, di toccare oggetti sacri in sinagoga e anticamente di entrare nel tempio. Dopo il parto, resta impura per quaranta giorni nel caso abbia dato vita a un maschio, ottanta nel caso di una femmina. In ambedue i casi, il periodo di impurità è diviso in due parti, la prima delle quali — sette o quattordici giorni a seconda del sesso del nascituro — è considerata nel Levitico un periodo di impurità pari a quello mestruale, mentre nel periodo successivo, di purificazione, la donna deve solo astenersi dal contatto con il sacro. Mentre il sistema dell’impurità rituale legata alle mestruazioni fu abolito nel cristianesimo già nel III secolo, è rimasto in atto fino a pochi decenni fa quello dell’impurità dopo il parto, dove la donna doveva sottoporsi a un periodo di quaranta giorni di purificazione, al termine dei quali doveva ricevere la benedizione dal sacerdote. Di qui, data la stretta analogia nel sistema ebraico fra l’impurità mestruale e quella post partum e l’analogia fra i due sistemi post partum , quello ebraico e quello cristiano, derivava la possibilità di una simile confusione nella mente dell’accusato, o forse anche dell’intero gruppo a cui apparteneva, sia che si trattasse di una confusione voluta in obbedienza alla “legge di Mosé” sia che si trattasse di un involontario sincretismo. Comunque fosse, il povero converso bruciò sul rogo per questa commistione religiosa, che gli doveva forse sembrare del tutto naturale. La sua vedova, lasciata libera perché aveva agito in obbedienza al marito e non alle norme dell’ebraismo, imparò che la frequenza alla messa non era legata al suo ciclo mestruale, e l’Inquisizione messicana celebrò con un rogo la vittoria sull’eresia giudaizzante. Abitare il mondo, generarlo Che siano madri o meno, laiche o credenti questo da sempre fanno le donne Non è un destino imposto dalla genetica né una vocazione innata Ma piuttosto un’abilità preziosa Ava Gardner interpreta Sara nel film «The Bible: in The Beginning...» (1966) di John Huston Ed Eva perse la parola A colloquio con Delphine Horvilleur, rabbino del Movimento ebraico liberale di Francia In tutti i sistemi e non solo in quelli religiosi la donna è sempre portatrice dell’alterità principale È l’altro Povere madri ebree quante cose gravano sulle loro spalle! Ma in effetti l’Esodo può essere molto facilmente letto con metafore ostetriche proprio figlio una medicazione, la possibilità che possa “dire” al loro posto, cosa che lui però può fare solo attraverso la violenza. In ebraico la parola che significa violenza è la stessa che significa mutismo». Di fronte all’avanzare degli integralismi, ri- solvere la violenza dei figli passerà per una risposta alla sofferenza delle madri? «Occor- re chiedersi in che misura si potrà placare la violenza dei figli se non si presta attenzione al dolore delle madri. Il posto del femminile nelle nostre società è critico e cruciale. Biso- gna anche porsi la domanda della resilienza: come accompagnare i figli ed eventualmente aiutarli a rompere con le madri in ciò che le possiede? Come smettere di considerarsi vit- time? Nella Bibbia, Dio interroga Caino per chiedergli che cosa conta di fare della sua sofferenza, come agirà per far sì che non lo condizioni. La domanda è rivolta a tutti noi. Siamo tutti portatori di una storia di benedi- zione o di maledizione. La questione è sape- re che cosa ne facciamo». di I AIA V ANTAGGIATO A bitare il mondo, generarlo: che sia- no madri o no, laiche o credenti, questo da sempre fanno le donne. Non è un destino imposto dalla genetica né una vocazione innata quanto piuttosto un’abilità preziosa con cui le donne, al mondo, si rapportano. L’attualità, certo, richiama ben altri scenari. Quale fede, quale vita, quale mondo ha nel cuore una ma- dre che piange felice di fronte al figlio avviato al martirio? Del ruolo della vita e della morte all’interno della fede e della cultura nonché degli esiziali equivoci che intorno a questo nodo cruciale si sono, nel corso dei secoli, ingenerati, vorrei parlare. Lo faccio da donna e da ebrea. Attin- gendo agli insegnamenti dei miei maestri e delle mie maestre. «Quando gli angeli videro che il Signore aveva ascoltato la preghiera di Abramo e gua- rito il re dei filistei della sua infermità, levaro- no alte grida a Dio: “Signore del mondo! Per tutti questi anni Sara è rimasta sterile, e così anche la moglie di Abimelec. Ma ora, appena Abramo ti ha invocato, quest’ultima ha conce- pito un figlio: sarebbe dunque giusto che ti ri- cordassi anche di Sara!”. Era il giorno del ca- podanno, quando in cielo si decidono le sorti essere sradicati). È su questa base che l’esegesi rabbinica interpreta il lungo periodo di sterili- tà delle matriarche — tutte sradicate da una terra “impura” — come un tempo necessario affinché si realizzi un reale distacco dal mon- do panteistico. Un’interpretazione che tuttavia poco aiuta a sciogliere i nodi che la sterilità crea persino all’interno di una lettura del testo biblico: co- me la mettiamo, per esempio, con la mitzvà (precetto) del perù urvù (prolificate e moltipli- catevi)? E che senso diamo alla benedizione fatta ad Abramo, «farò di te una grande na- zione (...) si benediranno in te tutte le fami- glie della terra»? Anzi, che senso diamo a tut- te le benedizioni che, nella Torah, sono sem- pre dono di fecondità e di vita? Hashèm (il Nome) benedice ma le matriar- che restano sterili. Certo: verrà il momento in cui aprirà il loro grembo ma per l’intanto Sa- ra, Rebecca e Rachele soffrono chiuse nella loro “incompiutezza”. Incompiute, non ancora “edificate”, così si sentono. Dice Sara ad Abramo: «Ecco, il Signore mi ha impedito di generare, vieni dunque dalla mia schiava, forse sarò edificata da lei» ( Genesi 16, 2). E Rachele: «Ecco la mia ancella Bilhà, vieni da lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e anche io sia edificata da lei» ( Ge- nesi 30, 3). Maternità surrogate, diremmo oggi, che non servono però a lenire il dolore e la sofferenza. Sara, Rebecca e Rachele restano sterili. Perché? Forse perché era necessario. La loro sterilità serve a dirci l’importanza del suo con- trario. Sia chiaro: non stiamo parlando di oro- logi biologici che battono l’ora impazziti né della tanto decantata vocazione femminile alla maternità. La nascita è, qui, una categoria necessaria a pensare il mondo. Il piano su cui ci si muove è, piuttosto, teologico-esistenziale: precetti e benedizioni rischiano di cadere nel vuoto sino a che non si dischiuda ventre di donna. Lo stesso creato teme per la propria vita e ride di un riso liberatorio solo nel momento in cui Isacco viene al mondo: il pericolo è scongiu- rato. Il grembo di Sara ha (ri)messo al mondo il mondo. Con un passaggio fondamentale — la nasci- ta come cardine del mondo e della sua dicibi- lità — la Torah scarta qualsiasi altra tradizione, nullifica il valore del martirio e ritorna nel mondo terreno. Un mondo non sempre in contrasto con quello celeste, come qualcuno sarebbe portato a credere. «In cielo come in terra» recita il Padre nostro ed è lo stesso Ge- sù a presentarsi come «la via, la verità e la vi- ta». Di morte non parla. Da Sara, dunque, non nasce solo Isacco. Se la realtà non è l’insieme di fatti nudi e crudi ma piuttosto l’ordine simbolico che il pensiero (il linguaggio, la cultura, i codici so- ciali) attribuisce al mondo, allora — con la na- scita — Sara dà vita a un imprevisto ordine simbolico femminile. Un ordine al cui interno si staglia serena una forma di autorità femmi- nile che, lungi dal contrapporsi alla forma ma- schile del potere, l’aggira sottraendosi alle sue regole. La nascita è il luogo da cui quell’autorità origina perché senza nascita non c’è mondo. È questo che ci dice Hashèm (il Nome) dischiu- dendo il grembo incredulo di Sara e ponendo la nascita al centro del mondo stesso. Siamo nel cuore di una vera e propria rivoluzione gnoseologica. Scrive Hannah Arendt ne La vita della mente : «Lungo tutta la storia della filosofia [occidentale] persiste l’idea davvero singolare di un’affinità tra la fi- losofia e la morte». Gran bel paradosso! Esi- sterebbero due mondi: uno reale e uno che è solo mera apparenza. Qualsiasi persona dotata di buon senso sarebbe portata a pensare che il mondo reale è quello in cui si nasce e si muo- re, ci si innamora, si stringono amicizie, si fa politica, si costruiscono famiglie. E invece no. Il mondo reale è quello che i filosofi hanno definito «il mondo delle idee» e che altri hanno preferito chiamare inferno o paradiso. Per gli uni è il mondo del pensiero, per gli altri quello dell’anima. In un caso co- me nell’altro è il mondo che ha separato l’ani- degli uomini per il tempo successivo, e per questo le parole degli angeli sortirono il loro effetto: sette giorni dopo, nel primo giorno della Pasqua, Isacco vide la luce. La nascita di Isacco non fu un lieto evento soltanto per la casa di suo padre: oltre che di Sara, infatti, Dio si ricordò allora di tutte le donne sterili, facendo felice il mondo intero. E non solo queste divennero feconde, ma i ciechi acqui- starono la vista e gli zoppi l’andatura normale, i muti parlarono e i matti tornarono savi». Così Louis Ginzberg, nell’opera Le leggende degli ebrei , racconta la nascita di Isacco, una nascita attraverso cui il Signore fece felice il mondo intero. Ma come può un singolo even- to — peraltro intimo, privato, familiare — far felice il mondo intero? Spiega il Midrash Tanchumà che tutto il creato — la terra, i cieli, il sole, la luna — fu rallegrato dalla nascita di Isacco, perché senza questo evento il mondo avrebbe cessato di esistere. E in Bereshit Rabbà leggiamo: «Chiunque sente parlare della nascita ne gioisce — esclamò Sara — perché Hashèm (il Nome) ha benedetto il mondo intero grazie a me». Una nascita, non un martirio. E non una nascita qualsiasi, ma la nascita. Quella che non solo dischiude il ventre di Sara ma che sostiene il mondo e lo fa esistere. Nella Torah, lo sappia- mo, nulla è detto né ac- cade per caso. Dunque non può essere un caso che la sterilità affligga e accomuni le nostre ma- triarche con la sola ec- cezione di Lia. Il termine 'aqarà (sterile) deriva da una radice ebrai- ca che esprime anche il senso dello sradica- mento ( laa- qor , sradica- re; leìaaqer , ma dal corpo condannando quest’ultimo all’ir- rilevanza. Apparente e caduco il corpo. E allo- ra cosa vuoi che sia un martirio? Reali l’anima e il pensiero. In tutt’altra direzione va la tradizione ebraica perché la nascita di Isacco ha riscattato quel mondo dall’irrealtà e ha messo la prassi al posto di un pensiero che infrut- tuosamente, e per secoli, ha pensato solo se stesso. Il cambio di prospettiva è totale. La nascita consente il radicamento nella realtà, chiama alla vita soggetti singolari che ricuciono inces- santemente quei corpi e quei pensieri che l’oc- cidente voleva separati e inconciliabili. Ed è per questo che il mondo ride. Questo mondo, e con esso le creature che vi abitano, può essere finalmente pensato e detto — reso reale, insomma — all’interno di un nuo- vo ordine simbolico che nasce da corpo di donna. Non è un caso, del resto, che proprio grazie alla riflessione di una donna — di una donna ebrea — la categoria della natalità abbia assunto una posizione assolutamente centrale nella filosofia del Novecento. Si deve infatti ad Hannah Arendt il merito di aver messo in campo una categoria critica — quella della natalità, appunto — in grado di far saltare l’intero apparato metafisico costruito sulla morte e sulla “mortificazione” dell’apparire stesso. Nasce dunque il mondo, quando il Signore ne dischiude il grembo. Rinasce il mondo, sotto lo sguardo accogliente ma sempre auto- revole delle donne. Nasce e si mette in cam- mino. Delphine Horvilleur Ebrea in preghiera al muro occidentale di Gerusalemme (Epa) I N C INA PRIMA LEGGE CONTRO LA VIOLENZA DOMESTICA È rivolta a fermare gli abusi fisici e psicologici la prima legge emanata in Cina contro la violenza domestica. Secondo quanto riferisce l’agenzia Xinhua, la normativa — che si applica anche alle coppie conviventi — definisce le vessazioni come «una ferita fisica o psicologica inferta da parenti, a partire da aggressioni, ingiurie, costrizioni o limiti forzati alla libertà fisica, ma anche ricorrenti minacce verbali e abusi». In caso di pericolo immediato, entro settantadue ore il tribunale deve emettere un ordine di protezione personale; in presenza di atti di notevole gravità, i tempi si riducono a ventiquattro ore. Se la vittima ha limitate capacità di presentare una denuncia, o ne sia impedita dalla forza o da minacce, essa dovrà essere effettuata dalla polizia, dai servizi sociali o dalle organizzazioni femminili. La nuova normativa tiene conto delle statistiche: secondo la Federazione nazionale delle donne cinesi, un quarto della popolazione femminile ha subito violenza domestica. L’88,3 per cento delle sole cinquantamila denunce annue riguarda mariti che maltrattano le mogli, il 7,5 per cento genitori violenti verso i figli e l’1,3 per cento figli che maltrattano i genitori. Ma i dati sarebbero sicuramente più alti laddove venissero prese in considerazione anche le aree rurali del Paese, dove la cultura tradizionale è ancora molto forte e dove diminuiscono le denunce. Anche se in Cina le relazioni domestiche sono considerate un affare privato, la sensibilità collettiva verso il tema della violenza sta cambiando. Un caso emblematico è stato quello di Li Yan, una giovane donna di cui la corte cinese ha sospeso per due anni la condanna a morte per l’assassinio del marito, che la picchiava e la umiliava: se al termine dei quarantotto mesi Li Yan non avrà commesso reati, la sospensione diventerà ergastolo. La decisione ha tenuto conto delle pressioni esercitate dalle organizzazioni civili che si battono per i diritti delle donne, e parrebbe la spia di un nuovo atteggiamento verso la violenza. P ASSEGGINO PER MAMME IN SEDIA A RUOTE Il problema di Sharina Jones, una mamma con disabilità fisica, era complesso. Il suo sogno irrealizzabile era quello di fare una passeggiata da sola con suo figlio: dovendo spingere la sedia a ruote su cui si muoveva, le era impossibile spingere anche il passeggino del bebé. Ma Alden Kane, un ragazzino di sedici anni che frequenta la Jesuit High School, un college di ingegneria e scienze a Detroit, dopo sei mesi di tentativi, ha trovato la soluzione: ha infatti inventato il passeggino che può essere spinto da chi vive in carrozzina. Si tratta di un ovetto munito di due ruote aggiuntive che va collegato con un tubo alla sedia a ruote. Come ha spiegato alla stampa locale, «è stato bello incontrare Sharina e parlare con lei di ciò che vuole e non vuole. È stato un grande aiuto per determinare la fattibilità del dispositivo, dove mettere la borsa per i pannolini ad esempio». Ora manca solo il brevetto. L E DONNE KENIOTE SPINGONO L ’ ECONOMIA DEL P AESE L’economia del Kenya è retta dalle donne: stando ai dati, infatti, la popolazione economicamente attiva è al sessanta per cento rurale e femminile. Per far sì che il Paese cresca ulteriormente, dunque, la sfida più importante è quella di rafforzare la figura femminile. Tuttavia, nonostante la donna sia capo famiglia in un nucleo su tre, nel Paese, secondo una inchiesta del 2014, risulta ancora un alto grado di violenza contro questa fascia della popolazione. Quattro donne su dieci, nella fascia di età compresa tra i 15 e i 49 anni, hanno subito aggressioni fisiche da parte di familiari. Inoltre, a causa delle gravi discriminazioni di genere che ancora sussistono in Kenya, spesso con la violenza le bambine vengono allontanate dalla scuola e le donne dal mercato del lavoro. La metà delle keniote ha solo una educazione primaria, il che a lungo andare costituisce un ostacolo per la loro partecipazione all’attività socio-economica del Paese. S UOR D OROTHY UCCISA UNDICI ANNI FA IN B RASILE Numerose famiglie di agricoltori di Anapu, nel sud del Pará in Brasile, si sono incontrate per ricordare l’assassinio di suor Dorothy Stang, avvenuto undici anni fa. La religiosa settantatreenne era nota per il suo coraggio e la sua disponibilità; amica fedele e vicina ai problemi della popolazione locale, nata negli Stati Uniti e naturalizzata brasiliana, faceva parte della Congregazione di Notre Dame. Suor Dorothy era impegnata da più di vent’anni nella Commissione Pastorale della Terra (Cpt), accompagnando con fermezza e passione la vita dei lavoratori dei campi, specie nella regione transamazzonica dello Stato del Parà. A causa della sua denuncia dell’azione violenta dei fazendeiros e grileiros , sin dal 1999 aveva ricevuto numerose minacce di morte fino a quando venne uccisa, con sei colpi sparati a bruciapelo in una località a quaranta chilometri dal comune di Anapu. Negli incontri e nelle celebrazioni per l’anniversario, durate una settimana, si è parlato anche degli ultimi crimini avvenuti in questo inizio anno a Eldorado do Carajás: alla base, esattamente gli stessi motivi che portarono all’assassinio di suor Dorothy. R ECUPERARE LE MADRI ADOLESCENTI IN M ALAWI Il fenomeno delle ragazze madri è una realtà che affligge molte donne in Malawi. Nella maggior parte dei distretti del sud del paese, si usa mandare le adolescenti in campi di iniziazione dove vengono incoraggiate ad avere rapporti sessuali per testare la loro maturità. Si tratta di un macabro rito conosciuto come kutsatsa fumbi . Nel Paese, infatti, le gravidanze adolescenziali e i matrimoni precoci, in particolare nelle zone rurali, sono fomentati da credenze e pratiche ancestrali. Grazie a un’iniziativa congiunta tra Stato, leader locali, Chiese, Onu e altre ong, come la Agenzia Avventista per l’Aiuto e lo Sviluppo (Adra), nel 2014 circa seicentomila adolescenti sono tornate a scuola. Inoltre, con il progetto di Adra Malawi, Quando la madre è una bambina , vengono assistite trecento madri adolescenti. D ONNE SENTINELLE AMBIENTALI Troppa o poca pioggia sta provocando un’emergenza umanitaria progressiva: secondo un rapporto della Environmental Justice Foundation, entro il 2050 i rifugiati climatici saranno circa mezzo miliardo, e almeno duecentomila si sposteranno dall’Africa. Su «Noi Donne», Emanuela Irace racconta di popolazioni senza più terra, di dati statistici e cifre che si tende troppo spesso a dimenticare rapidamente. Tsunami, cicloni, siccità, allagamenti: intere famiglie dirottate nei campi profughi, vittime di un modello di sviluppo che produce rifugiati ambientali con cifre da capogiro. Un’emergenza umanitaria progressiva, meno eclatante della guerra, ma che, come la guerra, richiede protezione. Se nel 1986 venne coniata l’espressione environmental refugees per indicare gli oltre trecentomila evacuati in seguito all’esplosione del reattore nucleare di Chernobil, da allora in ambito accademico la configurazione giuridica si è evoluta. «Il punto — spiega la giurista Anna Brambilla — è trovare una categoria di protezione umanitaria che connoti i rifugiati climatici dando loro uno status giuridico che li differenzi da altre categorie di migranti e richiedenti asilo». Questo popolo di invisibili è composto prevalentemente da donne, contadini e pescatori che hanno perso ogni capacità di autosostentamento. Intere comunità che in ogni parte del globo sono costrette a migrare perché il mare entra dappertutto e il sale brucia la terra; perché la stagione delle piogge dura meno, con conseguenze drammatiche in tutta l’Africa australe e non solo. In Mali, nella comunità peules sono le donne le prime sentinelle ambientali: attente ai particolari, sono le prime a monitorare il territorio perché sono loro da sempre a cercare cibo e acqua per la famiglia. Che si abbracci la tesi negazionista o si esageri nell’allarmismo, resta un dato incontrovertibile: sono sempre meno le terre a disposizione. E senza terra non c’è cibo.

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