donne chiesa mondo - n. 39 - ottobre 2015

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne A vent’anni dalla fine della guerra nella ex Jugoslavia Quando l’orrore incontra l’ascolto di N ICOLE J ANIGRO P uò capitare quando meno te lo aspetti, per strada o al bar, in coda o in un negozio. Vent’anni dopo gli accordi di Day- ton (14 dicembre 1995), che sanciscono la fine della guerra in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, è ancora possibile che la vittima di stupro incontri per caso il proprio carnefice. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aia ha trasferito le sue competenze ai tribunali locali, ma questi fati- cano ancora oggi a condannare i colpevoli, e alle vittime non è sempre facile chiedere il sostegno economico a cui hanno diritto. La violenza sessuale è un crimine che i politici sono abili nello sfruttare, ma per chi l’ha vissuta è un processo infinito da elabora- re. In molte realtà pubbliche e private lo stupro rimane un tabù, è la parola della vergogna, quella che fa tenere gli occhi bassi, una violenza che nella mente non si cancella. Un crimine antico che si ripresenta in ogni guerra, ma in quelle inter-jugoslave di fine Novecento assume caratteristiche particola- ri: è una costante bellica di cui nessuna delle parti — croata, serba, bosniaca — può dirsi innocente, ma diventa un’arma di guerra delle operazioni di “pulizia etnica” in Bosnia ed Erzegovina. Qui il corpo delle donne è stato il campo di battaglia su cui lasciare l’impronta. Migliaia di “stupri etnici” hanno avuto uno scopo strategico: sradicare le basi fondanti della comunità dell’avversa- rio. Perché non si torna in un villaggio nel quale sono state vio- lentate le donne; e questa è stata anche una guerra di villaggi, ri- masti poi spesso deserti. Il termine stupro etnico mette in secondo piano l’individuo, che sia uomo (meno diffusa, ma presente anche la violenza sessuale nei confronti dei maschi) o donna. Inchioda alla nazionalità, non concede possibilità di scelta al singolo — uno dei presupposti e degli obiettivi del conflitto — rende difficile anche la comunicazio- ne tra le diverse associazioni femminili. Perché, se parlo di “stu- pro” metto l’accento sul fattore donna, e quindi sulle donne all’universale, se aggiungo “etnico” conta la nazionalità: croata, serba, bosniaca, albanese. Lo stupro di massa non è stato una conseguenza dell’ebbrezza da vittoria, come per i soldati russi che liberano Berlino, si è trattato di un “crimine premeditato”, deciso a freddo e spesso imposto anche a chi lo ha compiuto. In mille villaggi bosniaci si ripete sempre lo stesso copione: arriva la mili- zia serba, gli uomini vengono immediatamente uccisi, deportati o costretti alla fuga. Lo stesso accade alle donne che vengono però in gran parte imprigionate in luoghi segreti: case, alberghi, pre- fabbricati, scuole trasformate in bordelli del guerriero (così suona il titolo di un testo del filosofo e antropologo belgradese Ivan Čolo- vić) dove, nell’estate del 1992, le violenze avvengono in maniera prolungata e continuata. Qui, un crimine che colpisce l’intimità e il privato, avviene in pubblico, alla presenza di spettatori-testimo- ni, dove più del 90 per cento delle donne conosce chi le sta vio- lentando e dove la vittima e il carnefice parlano la stessa lingua. Considerate il “nemico riproduttivo”, le donne prigioniere sono state volutamente ingravidate. Un ulteriore oltraggio per segnare la conquista del territorio, per inseguire una purezza etnica che riesce a produrre il paradosso di un figlio misto. Molte donne verranno uccise, muoiono durante le violenze, si tolgono la vita. Un numero altissimo si ritrova incinta di fronte a un dilemma tra- gico. Il film Grbavica. Il segreto di Esma (2006) di Jasmina Žbani, ambientato a Sarajevo, parla del rapporto di una donna con la fi- glia adolescente alla quale, a un certo punto, questa madre rac- conterà, o meglio confesserà, chi è il padre e come è stata conce- pita. Una storia che riesce ad affrontare in modo non didascalico l’ambivalenza della situazione che pone la vittima in bilico: tra il bisogno d’intervenire e denunciare e il desiderio di mantenere il segreto e di tacere. Eppure, c’è un momento in cui l’Orrore incontra l’Ascolto e la barbarie incrocia sulla sua strada la modernità. Donne di ogni età e condizione, donne in fuga da sperduti e minuscoli villaggi della Bosnia, parlano, raccontano, testimoniano. In molti casi lo faran- no una volta sola e poi mai più. Nei campi profughi alle porte delle città, nelle stazioni ferroviarie trasformate in bivacchi, spesso in transito dal luogo di prigionia verso l’ignoto dell’esilio incon- trano altre donne pronte ad accoglierle. Donne di Lubiana, Zaga- bria, Belgrado, Sarajevo, Tuzla e Mostar, cresciute in realtà urba- ne dove esistevano telefoni SOS per la violenza contro le donne, case per le donne maltrattate, reti di salvataggio e di solidarietà femminili e femministe. Insieme a molte altre, giornaliste, psicolo- ghe, questi gruppi di attiviste, proprio perché già formate all’ascolto di un trauma come lo stupro, hanno reso possibile che lo shock e lo sconvolgimento trovassero, in tempo quasi reale, le “parole per dirlo”. Un’esperienza unica che ha permesso di raccogliere un materia- le immenso. Il resoconto orale è diventato stenogramma, testimo- nianza essenziale per il lavoro del Tribunale dell’Aia. La comuni- cazione orale si è poi spesso trasformata in testo scritto: un’antro- pologia della sofferenza che continua a raccontarsi. Un materiale che pone interrogativi e riflessioni sulla particolarità del caso ju- goslavo. Come conciliare una realtà di emancipazione e libertà femminile, ormai consolidata, con gli “eccessi di violenza” e la crudeltà che colpiscono il “sesso più bello”? In questo conflitto, diversamente da quanto era accaduto in Jugoslavia, ma non solo, durante la Resistenza, la parte femminile della popolazione non ha vissuto alcun momento di emancipazione in prossimità delle battaglie (il fenomeno delle volontarie arruolate appare poco si- gnificativo). Anzi, i processi sociali e politici che hanno accompa- gnato gli avvenimenti bellici hanno reso dappertutto più precaria e marginale la condizione della parte femminile della popolazio- ne. Che la guerra ha fatto diventare il capro espiatorio dello scon- tro, tuttora latente, tra campagna e città, modernisti e tradizio- nalisti. Il caso jugoslavo ha influenzato il diritto internazionale. Il 20 giugno 2008 il Consiglio di sicurezza dell’Onu vota all’unanimità una mozione che riconosce lo stupro come arma di guerra. Lo di- chiara una forma di schiavitù e, come tale, crimine contro l’uma- nità. Non mento mai Reparata, santa del mese, raccontata da Daria Bignardi Giornalista soprattutto televisiva — da circa dieci anni conduce «Le invasioni barbariche» su La7 — Daria Bignardi (1961) è autrice di diversi libri tradotti in varie lingue, tra cui Non vi lascerò orfani (2009), L’acustica perfetta (2012), L’amore che ti meriti (2014), Santa degli impossibili (2015). Andrea Pisano, «Santa Reparata» (Museo dell’Opera del Duomo, Firenze) Sono sempre rimasta qui nella terra gialla di Palestina E qui resterò fino alla risurrezione Ho visto tante bimbe assassinate da allora in questa terra dolorosa e santa Molte erano anche più piccole di me che avevo già compiuto dodici anni Una scena del film «Grbavica. Il segreto di Esma» (2006) di Jasmina Žbani A nnunziata non voleva lascia- re la Palestina, per questo abbiamo ritardato la parten- za, mentre Onorata, Imma- colata, Consolata, Fortunata e Addolorata hanno accettato subito: lo- ro mi ascoltano sempre, anche se sono la sorella più piccola. Consolata mi chiama «la nostra piccola stella» e dice che quando sono nata io c’era una cometa, nel cielo di Palestina, più piccola di quella di quando è nato Gesù ma c’era — dice — anche se nessuna delle altre so- relle se la ricorda. Onorata è più pratica: ha capito subi- to che umiliarci pubblicamente era quel che serviva all’imperatore, e si è data da fare per partire in fretta. Ha preparato focacce azzime, un piccolo vaso d’olio, i calzari buoni, le vesti e quel poco d’oro che ci hanno lasciato i nostri nobili ge- nitori. Immacolata non vedeva l’ora di porta- re per il mondo la Parola, Addolorata invece aveva paura. Fortunata non cre- deva che Decio avrebbe fatto quel che annunciava, ma sentiva che il nostro tempo a Cesarea era finito da quando i nostri genitori sono morti. Lei lo aveva detto allora che dovevamo partire: For- tunata sente le cose prima che avvenga- no, ma se non la ascolti subito non le ri- pete. L’imperatore parlava ai peggiori istin- ti, sperava di restaurare il suo potere perseguitando noi cristiani, ma è finito peggio di noi. Gli ignoranti sono tanti, povera gente che ha paura. Bisogna aver conosciuto l’amore, per saperlo dare e ricevere, e io ho solo pena per chi non crede in quello di Cristo. La chiamano pax deorum ma a Gaio Messio Quinto Traiano Decio non importava nulla di Giove e Marte o di Diana e Giunone: lui voleva il potere in terra, meschino, pur di non perderlo era capace di ogni crimine. Pensare che era uomo di aristocrazia, non come l’Arabo, eppure lo straniero Filippo è stato meno crudele di lui. Ma farmi uccidere non gli è servito a niente: Decio è morto poche settimane un colpo di clava, quello che mi ha uc- ciso. Credo l’abbia fatto per pietà, aveva uno sguardo diverso dagli altri, più tri- ste. Qualcuno ha raccontato che mi han- no tagliato la testa e hanno messo il mio corpo su una barca, e che gli angeli l’hanno portato a Nizza. La faccenda della testa è vera, quella della barca no, o almeno non era il mio, quel cadavere nella barca. Non mi hanno portata in nessuno dei luoghi che hanno detto, né a Nizza, né ad Atri, né a Teano: sono sempre rimasta qui, nella terra gialla di Palestina, e qui resterò fino al giorno della risurrezione. Ho visto tante bambi- ne assassinate da allora, in questa terra dolorosa e santa, molte erano anche più piccole di me, che avevo già compiuto i dodici anni. E ancora, come allora, fingono di uc- cidere in nome di Dio. Peggio fa chi si uccide e uccide invocando il Dio che non esiste, pensando al paradiso che non c’è: solo Cristo ci ama davvero, og- gi come allora. Per fortuna tutte le mie sorelle hanno portato nel mondo la parola di Gesù, fi- no in Italia e in Francia. È questa la mia consolazione, non il martirio, no. Il martirio è inutile. Nessuna di loro è mai più tornata in Palestina, solo io, Reparata, sono rima- sta qui, polvere in questa terra e tra que- ste pietre che da quasi duemila anni so- no la mia tomba. dopo di me. I goti volevano restituire il bottino e andarsene, ma lui si era messo in testa di distruggerli. Così, nella batta- glia di Abrittus, ha perso non solo la vi- ta e l’impero, ma anche la discendenza, il figlio Erennio Etrusco, trafitto da una freccia. Dicono che alla notizia della morte di Erennio, per rincuorare i soldati, Decio abbia detto «nessuno sia triste, la perdi- ta di un solo uomo non deve intaccare le forze della Repubblica», ma poi si sia scagliato contro il nemico cercando ven- detta, forse la morte. Ed è stata la prima volta che un imperatore romano è cadu- to per mano di un nemico straniero. Onorata è riuscita a scappare con le altre sorelle: avevo detto a tutte che ci saremmo incontrate all’Orto grande, sot- to al fico, all’alba. Credevo davvero di riuscire ad andarci, non ho mentito, non mento mai. Mentre mi picchiavano mi hanno rinfacciato anche quello, diceva- no che ero superba, presuntuosa, e ride- vano. Ora che sono morta posso am- metterlo: il dolore è osceno. Non la morte: si comincia a morire nel momento in cui si nasce, la morte è santa e naturale come la vita, ma vivere cinque o cinquant’anni in più o in meno non cambia nulla, di fronte all’eternità. La tortura è orribile e umiliante: avrei fatto qualunque cosa perché smettessero, tranne che rinnegare Dio o tradire le so- relle. Fingevano di essere arrabbiati per- ché non onoravo gli Dei Consenti ma io sapevo che volevano solo dimostrare al popolo la forza di Decio. Uno mi picchiava con un tralcio di vi- te. L’altro mi strizzava i seni. Per fortu- na il terzo soldato mi ha tramortita con

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