donne chiesa mondo - n. 39 - ottobre 2015

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Mensile dell’Osservatore Romano ottobre 2015 numero 39 A cura di L UCETTA S CARAFFIA (coordinatrice) e G IULIA G ALEOTTI Redazione: R ITANNA A RMENI , C ATHERINE A UBIN , R ITA M BOSHU K ONGO , S ILVINA P ÉREZ (www.osservatoreromano.va , per abbonamenti: info@ossrom.va ) Il volto oscuro della famiglia La casa della speranza di padre Aldo Trento in Paraguay di G UDRUN S AILER S uor Lea Ackerman è la religiosa più famosa in Germania. Da ormai trent’anni lotta al fianco di donne private dei loro diritti, cadute vitti- ma della tratta e della prostituzione forzata. È una donna dal carattere allegro e combattivo, una «santa recalcitrante», come è stata definita. Lea nasce nella Saar nel 1933. Dopo aver lavorato come bancaria, entra a far parte dell’Ordine delle suore missionarie di Nostra Signora d’Africa. Si laurea in pedagogia con una tesi sull’educazione e la formazione in Rwanda. A Mombasa, in Kenya, fonda nel 1985 il progetto Solwodi (Solidarity with wo- men in distress), un’opera assistenziale per donne coinvolte nella prostituzione. Oggi Solwodi ha decine di centri in Africa e in Germania. La rivista femminista «Emma» una volta l’ha definita una «suora infuriata»: cosa la fa infuriare, le chiediamo. «L’incredibile ingiu- stizia e la brutalità nei confronti di donne e bambini. Mi occupo di queste donne da trent’anni e vedo che ne ricavano danni e traumi, che sono ferite nel corpo e nell’ani- ma, che hanno molte malattie. È mostruoso che venga addirittura riconosciuta come una professione e definita lavoro». Suor Lea si sta riferendo alla legge del 2002 che ha completamente legalizzato la prostituzione in Germania. Questa legge vale per le donne che operano liberamente nell’ambiente a luci rosse; la prostituzione forzata, ovviamente, continua invece a essere vietata. Ma è davvero possibile separare le due cose? «In Germania, nove prostitute su dieci vengono dall’estero», ci spiega. «Molte non capiscono la nostra lingua e non cono- scono nessuno a cui potersi rivolgere. Se vengono accompagnate a lungo — per tre, quattro o dieci anni — e aiutate a inserirsi, le racconteranno tutta la loro storia. Attraverso Solwodi ho incontrato migliaia di donne. In trent’anni non ce n’è stata una che abbia det- to: ho scelto io questa vita, è stata una mia libera decisione». Da molto tempo in Germania suor Lea è la portavoce non ufficiale delle prostitute for- zate e delle vittime della tratta. Ma cosa ha fatto scattare la molla del suo impegno? «Una volta visitai un carmelo nelle Filippine. Davanti all’edificio c’era un tronco d’albero nel quale era inciso a caratteri grandi: “Dedi- cato ai sogni del Padre”. Ho chiesto alle car- melitane che cosa significasse quella scritta. “Noi cristiani — mi hanno spiegato — credia- mo che Dio è il creatore di tutti gli uomini, padre e madre di tutti gli uomini. E noi car- melitane diciamo di voler essere l’amore nel cuore di Dio; allora dobbiamo fare in modo che i sogni si realizzino per tutti i suoi figli. E ci sono figli di Dio, soprattutto figlie, che sono figli di Dio privi di opportunità”. E sa una cosa? Fu la mia seconda conversione. Ero in convento già da vent’anni, ma in quel momento pensai: giusto! Ho formato delle insegnanti, donne che avevano già avuto un’opportunità. Però ci sono figlie di Dio prive di opportunità». Poi è arrivata la fondazione di Solwodi nel 1985. «La mia comunità — racconta suor Lea — mi ha mandato a Mombasa, in Kenya. Lì ho visto masse di turisti del sesso. Una pro- stituta sedicenne mi disse: non sono giovane, ho già un bambino di tre anni, ma là dietro, nella stanzetta, c’è una ragazza di quattordici anni, e ieri ha messo al mondo un bambino e lo ha affogato nel gabinetto. Allora non si può mettere alla gogna la ragazza, ma biso- gna domandare: in quali situazioni finiscono con il ritrovarsi quei bambini? Questi turisti che possono permettersi di girare il mondo arrivano a Mombasa, vedono la miseria e il bisogno di queste donne e di questi bambini e le comprano per pochi soldi per il loro me- schino divertimento. Chiesi alle donne come si sentivano. Mi hanno risposto con rabbia, domandandomi a loro volta: pensa che sia divertente andare con ogni cretino che passa? Prendersi malattie? A volte avere soldi, altre no? Allora per me fu chiaro: riflettiamo insie- me su quello che potreste fare di diverso. All’epoca dissi al buon Dio: Voglio impe- gnarmi a favore di queste tue figlie prive di opportunità, ma tu non abbandonarmi». Dio non l’ha abbandonata. «Ho iniziato con niente: non avevo nemmeno una macchi- na da scrivere. Oggi ci sono trentaquattro consultori e centri di contatto in Kenya e di- ciassette in Germania, più sette case protette per donne e bambini che vivono in situazioni di violenza». Qual è oggi in Europa l’esempio classico della tratta? «Per la maggior parte le donne arrivano qui attirate da false promesse. Una di loro mi ha raccontato così la sua storia: “Vivevamo in un Paese dell’Europa dell’est; papà e mamma avevano un lavoro, i soldi erano molto scarsi, ma ho ricevuto una for- mazione”. Poi il padre ebbe un infarto e la madre iniziò a bere, non c’erano soldi per le medicine, tutti hanno guardato a lei. In quel- la situazione ha letto un annuncio: tre mesi in Germania, tremila euro. Aveva intuito che si trattava di prostituzione. Ma ha pensato: per tre mesi resisto, così posso aiutare i miei genitori. In Germania è stata violentata già la prima sera. Non aveva più il passaporto, non sapeva in che città si trovasse, non cono- sceva la lingua. Fu portata in un postribolo. Lì ha visto come una donna, che voleva tirar- si indietro, è stata trascinata giù dalle scale per i capelli ed è stata violentata con una bottiglia rotta. Questo doveva servire a mo- strarle che cosa sarebbe accaduto se fosse scappata. E io le ho domandato: liberamen- te? Fino a che punto, liberamente?». Le religiose cattoliche combattono in pri- ma linea contro la tratta e contro la prostitu- zione forzata. Negli ultimi anni sono nate anche delle reti, come Renate o Talitha Kum. Nella società civile, chiedo a suor Lea, vede anche altri che si preoccupano allo stes- so modo delle vittime della prostituzione for- zata? «Ci sono gruppi femminili, spesso del- la nicchia di sinistra, che, come noi, sono contrari alla prostituzione e al suo riconosci- mento come professione. Tuttavia ciò che fanno le religiose e le reti va oltre all’attività lobbistica ed è un’azione concreta. Aiutiamo le donne a trovare un mestiere, ad avere spa- zi protetti, a prendersi cura dei figli. Il mio principio è: non possiamo dire “oh, che brut- ta cosa quella che fai”, e limitarci a questo. Dobbiamo cercare con tutte le forze delle al- ternative per ognuna di queste donne». Pasqua avevamo sempre una casa piena, con almeno venti persone, le madri, altre donne con bambini. Era così bello! È questa la co- munione cristiana. Vorrei che fossero molte di più le case parrocchiali aperte a questo servi- zio. È stato un vero dono». E una forma par- ticolare di vita religiosa. Cosa significa oggi per lei il tempo passato con padre Köster? «È stato meraviglioso. Ci siamo rafforzati reciprocamente nel nostro ri- spettivo impegno religioso. Padre Köster era professore di teologia, riflessivo, aperto al mondo, un uomo buono, molto amato anche dai più piccoli. Per molti, e non solo per me e per i bambini, era una persona che sapeva veramente rispettare gli altri. Una donna mi disse una volta che le aveva restituito la sua dignità. Padre Köster mi ha aiutata a costrui- re Solwodi. Si è impegnato fin dal primo istante». Una convivenza celibataria mista tra una religiosa e un religioso: i superiori religiosi o i vescovi non hanno mai sollevato delle obie- zioni disciplinari? «No, mai. Della nostra forma di vita sono per così dire stati testimo- ni anche i bambini che avevamo in affida- mento. Avrebbero visto, una volta cresciuti, se non ci fossimo comportati l’una con l’altro come suora e sacerdote. Si sarebbero trovati in una comunità di menzogne, nella quale molte cose avvenivano di nascosto. Invece è stato proprio il contrario. Avevamo una casa apertissima. Tutti potevano venire. Venite e vedete! È stato proprio questo a rendere sin dall’inizio tanto attraente il cristianesimo». La fondatrice di Solwodi ha 78 anni: da dove prende la forza per portare avanti il suo impegno oggi? «Sicuramente sono di salute robusta», risponde. «Naturalmente mi chie- do quanto potrà ancora durare. Allora sorgo- no anche le domande e qualche volta il dub- bio se quello che credo è tutto vero. E poi chiedo subito scusa e dico: caro Dio, perdo- nami. Quando guardo a tutto ciò che è nato dal nulla, senza nemmeno sapere come è na- to, allora posso solo dire che da sola non ce l’avrei mai fatta. Poteva essere fatto solo con l’aiuto di Dio». Il racconto Mademoiselle Fifì C’è una tendenza antica, nella letteratura e nel cinema: quella di raccontare il mondo della prostituzione in modo romantico ed edulcorato. Uno scrittore che segue, invece, un percorso ben diverso è Guy de Maupassant, penna abilissima e puntuta nel denunciare ipocrisie e menzogne della borghesia francese del suo tempo. E così, molti dei suoi racconti hanno come protagoniste le prostitute, la cui vita è ritratta in tutta la durezza, l’umiliazione e l’emarginazione sociale dovuta alla loro condizione. Tra le altre storie dello scrittore che raffigurano, con onestà, questo mondo, si distingue — specialmente per il finale — Mademoiselle Fifì , racconto pubblicato per la prima volta nel 1882: tra le meschinità e l’inutilità della guerra, le dissolutezze e le vigliaccherie umane, si distingue Rachel, la prostituta ebrea, il solo personaggio in grado di incarnare l’onore francese, pur nella sconfitta. Per una volta tanto, la ragazza “perduta” si salva: e si salva grazie alle sue coraggiose, e scomode, scelte. ( @GiuliGaleotti ) Il film La bella gente Susanna, psicologa cinquantenne, lavora con donne maltrattate: per questo, quando sulla strada che porta alla sua casa di campagna vede una giovanissima prostituta malmenata da un uomo, non può restare con le mani in mano. Convinto (a fatica) il marito, la prende in casa, per “salvarla”. All’inizio la ragazzina Nadya è terrorizzata, ma piano piano inizia a fidarsi della coppia. Tutto sembra procedere per il meglio, finché qualcosa viene a turbare i (falsi) equilibri familiari dei salvatori. La metamorfosi di Susanna è strisciante e crudele: perché Nadya non si limita a essere il gattino riconoscente capace solo a dire grazie ogni secondo? Perché ha sentimenti e speranze come qualsiasi ragazzina della sua età? Susanna resta travolta da quella che lei percepisce essere una inaccettabile confusione di piani: la vita della sua famiglia e la vita di Nadya. E così, la sola soluzione che le resta è di riportare la ragazzina — “arricchita” di una busta di soldi — là dove è stata trovata. La forza del film La bella gente (2009) di Ivano De Matteo sta tutta nella dura verosimiglianza della involuzione che racconta. Susanna e suo marito sono molti di noi, quando entriamo — per sentirci gratificati — nella vita del prossimo bisognoso, incapaci di gesti di vera gratuità. E capacissimi, invece, di fare così davvero male. ( @GiuliGaleotti ) R ITROVATA LA TOMBA DI M ARIANELA G ARCÍA V ILLAS È il 13 marzo 1983 quando, a soli 34 anni, Marianela García Villas viene torturata e uccisa, tre anni dopo l’omicidio dell’arcivescovo con cui la giovane aveva condiviso battaglie e speranze. Come Romero e altre centinaia di migliaia di persone, anche lei vittima del sanguinario regime che resse a lungo il Paese. Nata a El Salvador nel 1948, fin dall’adolescenza Marianela, figlia della ricca borghesia, resta scossa dalle ingiustizie sociali. Durante l’università (si laureerà in legge) entra a far parte dell’Azione cattolica e si forma discutendo i documenti del Concilio e di Medellín e analizzando i testi sulla teologia della liberazione. Allo studio affianca presto la militanza nella Democrazia cristiana, mentre inizia l’immedesimazione con gli ultimi. Nel 1974 entra in Parlamento grazie al sostegno delle donne dei mercati, madri e mogli di periferia che l’hanno vista combattere in tribunale per difendere, da avvocato, i loro uomini e i loro diritti. Più tardi comincia a visitare le famiglie che abitano nelle zone più difficili. Ma l’impegno che più le assorbe le energie è quello svolto come presidente della Commissione per i diritti umani di El Salvador, una realtà fondamentale per conoscere la verità sulla storia contemporanea del Paese. Estromessa dal partito, Marianela comincia a immortalare con la sua macchina fotografica il volto più crudele del regime, raccogliendo immagini di cadaveri abbandonati sul ciglio della strada o ritrovati sotto terra dopo giorni di ricerca, devastati dalle torture. Le foto servono a dare risposte alla disperazione dei familiari e documentare un orrore che ha la pretesa di negare l’evidenza. Fu lei la vittima civile numero 43337, e per molto tempo, anche dopo la sua uccisione, la dittatura ha continuato a definirla guerrigliera sovversiva, mentre l’ abogada del pueblo , anche sulla scelta della non violenza, era in assoluta sintonia con Romero. Se il mondo negli anni è venuto piano piano a conoscenza della vera storia di questa ragazza, ora un nuovo tassello è venuto ad aggiungersi: l’associazione Marianela García Villas di Sommariva del Bosco (Cuneo) è stata infatti capace di individuare la tomba della giovane martire, ritrovata nel cimitero principale di San Salvador, in una cappella chiusa da una cancellata, che reca l’iscrizione Beneficiencia española (il padre, infatti, era spagnolo). «Finalmente — ha commentato l’associazione — sarà possibile per chiunque portare un fiore sulla sua tomba». P ERDONO IN CAMBIO DI VERITÀ «Siamo disposte a perdonare gli assassini, chiunque essi siano e qualsiasi crimine abbiano commesso contro i nostri cari, pur di conoscere la verità su quello che è accaduto ai nostri mariti, figli, fratelli e sorelle». Così hanno dichiarato una trentina di donne e vedove musulmane di etnia tamil, durante un incontro a Negombo, centro a circa quaranta chilometri dalla capitale dello Sri Lanka. Il raduno, ha raccontato Melani Manel Perera di Asia News, è stato organizzato dall’associazione Families of the Disappeared (Fod), che fornisce assistenza ai parenti delle vittime della guerra civile che ha insanguinato il Paese dal 1983 al 2009. «Non ci interessa punire chi ha fatto loro del male, vogliamo solo che tornino a casa. Vogliamo sapere cosa è successo loro e dove si trovano». Da quando si è concluso il conflitto civile che ha visto opposti, con reciproca crudeltà, l’esercito regolare e i ribelli delle Tigri Tamil, è la prima volta che le famiglie delle vittime e delle persone scomparse manifestano pubblicamente la loro disponibilità a perdonare gli aguzzini. Durante l’incontro, le donne hanno lanciato un appello alle autorità di Colombo, che di recente hanno riconsegnato dei terreni a tamil sfollati: «Diteci la verità. Se sono rinchiusi nei campi di detenzione, per favore rilasciateli. Non vogliamo sapere dove siano i campi, vogliamo solo che tornino a casa. E se li avete uccisi, diteci quando e perché. Abbiamo il diritto di sapere». L’incontro è stato occasione per condividere le ricerche delle persone scomparse: le famiglie delle vittime non si limitano a ricercare nelle province del Paese dove si è concentrato il conflitto, ma hanno allargato il campo di azione a tutta l’isola, nella speranza di ottenere risposte. Le donne sono convinte che occhio per occhio, dente per dente in Storia naturale di Firenze, «per suggerire l’idea della tensione verso l’alto e verso Dio. Le piante inserite sono piante aromatiche utili come medicine o condimento in cucina ma utili anche per l’anima, piante da meditazione e riflessione. All’aiuola si accede passando attraverso due alberi-simbolo: un fico, simbolo del peccato originale perdonato da Cristo tramite Maria, che con il suo sì ha riscattato l’umanità; e un ulivo, simbolo di Gesù, unto del Signore. Dopo i due alberi, Maria continua ad accompagnarci con alcune rose bianche simbolo della sua purezza verso due melograni, simboli della Chiesa, e quindi all’aiuola di Ildegarda circondata da una corona di margherite, simbolo del Paradiso terrestre riconquistato». R AZIA , PAKISTANA E CRISTIANA , SALVATA DALLA POVERTÀ Su AsiaNews, Shafique Khokhar racconta la storia di Razia Irshad, 46 anni e 7 figli, che vive nella campagna di Tehsil Samundri, in Pakistan. Il marito era l’unico a lavorare, ma i soldi erano pochi e per i bimbi la scuola restava un miraggio. Poi, due anni fa, Razia ha ottenuto un piccolo prestito da Award (Association for Women’s Awareness and Rural Development) che promuove lo sviluppo delle aree rurali del Paese, e tutto è cambiato: «Con quei soldi — racconta — ho comprato semi e fertilizzanti e il mio lavoro continua ad andare avanti. Anche se lo scorso anno abbiamo dovuto affrontare gravi perdite nel raccolto a causa delle forti piogge, questo non ci ha scoraggiato ma ci ha spinto a lottare. Ora vivo una vita felice insieme alla mia famiglia e le persone mi stimano». L’inizio non è stato facile: la famiglia e il vicinato disapprovavano la decisione, troppo libera per una società conservatrice come quella pakistana. Solo il marito l’ha sempre sostenuta e alla lunga la coppia ha avuto ragione: oggi Razia ha guadagnato il rispetto della comunità e viene considerata una «donna coraggiosa». Dopo aver partecipato a diversi corsi di formazione organizzati da Award Pakistan, oggi gestisce un negozio e coltiva verdure su due acri di terreno. Riesce a risparmiare circa duemila rupie pakistane al giorno (17 euro) e sta cercando di comprare un terreno più grande. Il marito racconta la gioia di coltivare un terreno di proprietà: «Ora viviamo una vita dignitosa. Sono orgoglioso di mia moglie che ha lavorato duro per lo sviluppo della nostra casa. Grazie al suo lavoro, stiamo consolidando la nostra posizione sociale e riusciamo a far studiare i bambini. Mi auguro che altre donne seguano il suo esempio e contribuiscano a rendere prospera la società pakistana». Christina Peter, direttore di Award Pakistan, riferisce che altre trenta donne hanno ricevuto prestiti. «Ringrazio Award — conclude Razia — per il sostegno che mi ha dato e ancora di più Gesù Cristo, per la forza e il coraggio». Il saggio Lettere dalle case chiuse La senatrice Lina Merlin, insieme con Carla Barberis, per sostenere la sua proposta di legge a favore dell’abolizione delle case chiuse, decise di pubblicare ( Lettere dalle case chiuse , Milano-Roma, Edizioni Avanti, 1955) le lettere che aveva ricevuto dalle prostitute, quasi tutte favorevoli all’abolizione e soprattutto alla fine di una prassi che le inchiodava a questo destino, cioè la schedatura da parte della polizia, che impediva loro di rifarsi una vita onesta. Le lettere testimoniano vicende penose, donne sopraffatte dalla miseria o dalla prepotenza dei parenti, interessati solo a sfruttarle. Quasi tutte intensamente legate a un figlio o a una figlia che hanno dovuto affidare a delle famiglie a cui devono passare una parte cospicua del loro salario, e sognano solo di poter condurre una vita onesta per riavere con sé il bambino. «Ci salvi tutte, onorevole, e che più nessuna ragazza entri in queste case come ci sono entrata io e che nessuna debba più essere sfruttata da nessuno e minacciata anche dalla polizia» conclude in modo eloquente una ragazza. Peccato però che anche la chiusura delle case non sia bastata a porre fine allo sfruttamento. ( @LuceScaraffia ) Liza, Paulina, Patricia, Maria, Mercedes Tutte con le ali spezzate per botte, violenze domestiche, sevizie La via crucis ha tanti volti E la lista dei loro nomi potrebbe continuare molto a lungo Lo sanno tutti nella zona Il missionario italiano è l’unico ad accogliere gli scarti umani che nessuno vuole Troppo spesso corpi di donne, a volte bambine denutriti e ridotti a una poltiglia di sangue Sottoposti dal machismo a ogni genere di pratiche bestiali Margit Brandl, «Broken Dolls» La grande rete di suor Lea Dal 1985 il progetto Solwodi aiuta le donne vittime della tratta in Kenya e Germania Non possiamo limitarci a dire «che brutta cosa quella che fai» Dobbiamo cercare con tutte le forze delle alternative per ognuna di loro Ho incontrato migliaia di donne In trent’anni non ce n’è stata una che mi abbia detto: ho scelto io questa vita è stata una mia libera decisione di F RANCA G IANSOLDATI P overa Liza. Povera Paulina. Povera Patricia. Tutte con le ali spezzate. Botte, violenze domestiche, sevizie. La via crucis ha tanti volti. E la li- sta dei loro nomi potrebbe conti- nuare a lungo. Del resto, in questi anni, la casa della spe- ranza di padre Aldo Trento, missionario in Pa- raguay, è conosciuta per essere una specie di porto di mare, un approdo sicuro dove trovare rifugio. Quando la polizia non sa cosa fare, alle prese con casi di violenza estrema, bussa al portone di legno della parrocchia. Da un muro di cinta di mattoncini rossi spuntano ciuffi di piante. «Benvenuti, qui si confessa ogni ora», c’è scritto. Naturalmente i poliziotti non vanno da pa- dre Aldo per confessarsi. Sanno che è l’unico che accoglie gli scarti umani che nessuno vuo- le; troppo spesso corpi di donne ridotti a una poltiglia di sangue, denutriti, sottoposti a ogni genere di pratiche bestiali. Ragazzine dal vol- to di bambine pestate a sangue. Perché non è solo il racket della prostituzione a mietere vit- time. Il machismo, deformazione culturale de- vastante, è parte sostanziale della società suda- mericana. Al sinodo straordinario sulla famiglia, lo scorso autunno, sono risuonate nell’aula as- sembleare diverse testimonianze. Erano rifles- sioni angustiate sulla deriva di questo fenome- no endemico al quale la Chiesa si oppone con forza e contribuisce a fermare. Cosa certamen- te non facile, visto che l’imprinting popolare muta col tempo, di generazione in generazio- ne, e così c’è bisogno di un costante impegno a livello educativo e didattico, in parrocchia, nelle scuole. In ogni caso serve determinazio- ne e coraggio. Il silenzio non giova mai. Povera Liza, povera Paulina, povera Maria. Potrebbero essere nomi di fantasia, eppure non lo sono. Le loro vite non sono invenzioni, Mercedes si alza dal letto pronta ad accogliere la benedizione con le mani giunte. Una donna accanto a lei osserva quello che accade. Padre Aldo sussurra altre parole di affetto. Le infer- miere si fanno in quattro per aiutare coloro Il cammino da fare è in salita. Nulla è scon- tato. Al piano sottostante del centro parroc- chiale, nel grande salone pieno di giocattoli colorati e mobili allegri, una decina di bambi- ni si diverte. Alcuni di loro hanno solo pochi che non sono più in grado di essere autono- me. Apparentemente sono tutte anziane, ma chi può dirlo? Le botte che hanno preso per anni, le han- no sfigurate, invecchia- te, curvate. Padre Aldo ha messo in piedi una specie di welfare alter- nativo. «Per noi euro- pei il machismo è qualcosa che non com- prendiamo fino in fon- frutto di operazioni immaginarie. Disgraziata- mente la realtà con la quale ci si scontra quan- do si mette piede nell’hospice di padre Aldo fotografa uno spaccato impietoso di prepo- tenza. Il volto oscuro della famiglia. Mariti brutali, padri orchi, padrigni senza pietà. E così nella struttura parrocchiale del missionario italiano non solo trovano riparo i malati terminali e i bambini abbandonati, ma ritrovano il sorriso anche le donne con le ali spezzate. Alcune sono lungodegenti, con patologie invalidanti riportate dopo anni di sevizie. In una stanza colpisce il volto di cartapecora di una anziana. Sembra un cameo del secolo scorso, a un primo sguar- do potrebbe essere centenaria. Immo- bile, mantiene una posizione fissa, quasi innaturale. Mercedes, invece, ha da poco com- piuto cinquanta- quattro anni. A trasformarla in questo fagotto pel- le e ossa sono sta- te le botte. Tante. Per anni, al punto che l’hanno fatta diventare autistica. Dal suo mondo inghiottito nel buio la donna cap- ta solo una voce: quella di padre Al- do. Quando le si avvicina evocando due parole sacre per gli indios gua- ranì, lei spalanca gli occhi: è come se una chiave aves- se aperto una me- moria affievolita. Victoria e il suo bambino do. Certo, abbiamo violenze, assistiamo a uc- cisioni, ma non abbiamo una cultura maschili- sta così violenta e radicata. La Chiesa cattolica è consapevole che bisogna difendere l’impor- tanza dell’uguaglianza tra uomo e donna, in- segnando il mutuo rispetto, la complementa- rietà dei ruoli». mesi. Sono accuditi da cinque o sei ragazze che avranno sì e no una ventina d’anni. In disparte c’è Liza, una adolescente para- lizzata, costretta su una carrozzina. Occhi ne- rissimi, capelli corvini, il suo sguardo è assen- te. Anche lei con le ali spezzate. La sua storia ha commosso Papa Francesco quando si è re- cato a fare visita al centro di don Aldo. La sua è forse la vicenda più agghiacciante. Liza è appena dodicenne, ma a vederla sembra ancora più piccola. Per anni è stata violentata dal padrigno che la lasciava senza cibo, spegnendole le cicche delle sigarette sul- le gambe, divertendosi a torturarla. Le cicatri- ci orrende non se ne andranno più. La polizia l’ha trovata, grazie a una segnalazione, abban- donata in una casupola, nelle campagne circo- stanti, in condizioni indescrivibili. I suoi piedi erano stati spezzati più volte ed è per questo che non le sarà più possibile reggersi. Padre Aldo l’ha accolta che non emetteva alcun suo- no, non apriva nemmeno gli occhi. Era incinta di sei mesi, violentata dal padrigno. Oggi il suo bambino, David, è un meraviglioso bebè coccolato da alcune ragazze che si alternano a fare le baby sitter. Ognuna di loro è portatrice di altre storie legate al marciapiede, alla dro- ga, al racket. Un bambino di tre anni, Diego, corre felice incontro al missionario e lo abbraccia. Gli porge un giocattolo rotto. «Ora proviamo a ripararlo». Come le ali da aggiustare di queste donne. Un sorriso per ciascuna. Forse un giorno torneranno a volare. Ero carcerato e sei venuto a trovarmi. Il no- stro compito è di individuare questa miseria nelle sue forme sempre nuove e di atte- nuarla». A causa di questo tipo di miseria anche lei ha preso in affidamento alcuni bambini, insie- me con il padre pallottino Fritz Köster, con il quale per decenni, fino alla sua morte avvenu- ta due anni fa, ha abitato in comunione celi- bataria in una casa parrocchiale. «Spesso ab- biamo ospitato donne che volevano proseguire la loro formazione, ma che avevano appena avuto dei bambini. Allora abbiamo cercato dei genitori affidatari, e per quattro bambini sia- mo diventati noi stessi i genitori affidatari. Oggi questi bambini hanno tutti dai 25 ai 27 anni, tutti hanno seguito la loro strada, e lo stesso hanno fatto le loro madri. A Natale e a Quali sono le radici dell’impegno, in particolare delle religiose cattoliche, contro la tratta? «Le religiose si sono occupate da sempre di situazioni dram- matiche o di carenze nella società. La formazione delle ragazze è iniziata con le religiose. Per secoli gli ospedali sono esistiti perché le religiose vi si sono get- tate a capofitto. Esistiamo per iniziare a edificare già qui e adesso il Regno di Dio. Gesù è di tutti coloro che sono nel bisogno. Ero nudo e mi hai vestito. Egon Schiele, «Ragazza seduta» (1917) risposta alle offese ricevute non dia risultati: «Per questo dobbiamo perdonare e ottenere giustizia subito. Ormai abbiamo passato fin troppo tempo a manifestare, protestare e marciare in cerca dei nostri parenti». Brito Fernando, presidente del Fod, aggiunge che l’associazione continuerà a fornire sostegno ai parenti degli scomparsi: «Li sosterremo anche nei processi. Abbiamo bisogno di andare avanti con un nuovo atteggiamento positivo. Dobbiamo utilizzare la non violenza per raggiungere i nostri obiettivi». L’ AIUOLA DI I LDEGARDA Un’aiuola organizzata secondo il concetto di viriditas del dottore della Chiesa Ildegarda di Bingen (1098-1179): è questo il fiore all’occhiello di un nuovo orto botanico nato sulle colline vicino a Firenze, nella Pieve di Sant’Andrea a Doccia. «L’aiuola è a spirale», spiega Paolo Luzzi, curatore dell’Orto botanico del Museo di

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