donne chiesa mondo - n. 39 - ottobre 2015

L’OSSERVATORE ROMANO ottobre 2015 numero 39 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Salvate Per secoli, ma sarebbe più corretto dire per millenni, le donne sono state giudicate dall’uso che facevano, o più spesso che altri facevano, del loro corpo. Dal momento che per gli uomini la sicurezza della paternità poteva essere data solo dalla fedeltà della donna, dal suo mantenere la parola data, ogni comportamento che poteva indurre dei sospetti in tal senso era duramente sanzionato. Non solo veniva condannata la singola infrazione, ma ne derivava una condanna complessiva della donna che l’aveva commessa, e questa diventava da quel momento una donna perduta. Ciò accadeva anche se l’infrazione alle leggi morali non era avvenuta per scelta, ma per violenza. Il cristianesimo, anche su questa prassi abituale, ha fatto la differenza: dal momento che, seguendo le parole di Gesù, ciò che conta è l’intenzione, non si poteva più condannare la donna che aveva subito violenza, ma la si doveva aiutare. E l’aiuto doveva essere esteso anche alle peccatrici, perché il peccato poteva sempre essere perdonato, come ha fatto Gesù nei vangeli. Quindi l’affermarsi del cristianesimo avrebbe dovuto significare la fine della condanna della donna colpevole, e affermare la sua possibilità di accoglienza e di riscatto. Anche se in una situazione di potere patriarcale questa possibilità non è mai stata totale, né gratuita — pensiamo solo al discredito che, ancora qualche decennio fa, gravava anche in ambienti cristiani sulle ragazze madri — nella storia della Chiesa si sono moltiplicate le iniziative per salvare le donne cadute. Monasteri per le convertite — quasi sempre intitolati a Maria Maddalena — e convitti per ragazze madri, per le ex-prostitute che volevano cambiare vita, hanno sempre fatto parte delle comunità cristiane. L’attenzione e la carità con cui Gesù aveva ascoltato e amato le prostitute — o comunque le donne che, come la samaritana, avevano trasgredito per amore — non si potevano mettere da parte neppure in società in cui il cristianesimo tendeva a presentarsi come una morale rigida e indiscutibile. Ancora oggi, che la rivoluzione sessuale ha spazzato via figure come quella della ragazza madre, o della donna colpevole perché sessualmente trasgressiva, rimane un disinteresse generalizzato verso le donne che subiscono violenza nelle zone calde della terra, o che sono costrette alla prostituzione. Sono troppe, sono difficili da sistemare — spesso le stesse famiglie le rifiutano — e se non vogliono abortire hanno anche il problema di generare figli del nemico. In queste situazioni difficili, dolorose, drammatiche, è quasi solo la Chiesa, o meglio le suore missionarie, a prendersi cura di loro e dei loro figli, e a offrire loro una possibilità di riscatto. È una fatica gigantesca, ma che dà buoni frutti e che contribuisce in modo determinante a trasformare in meglio la condizione delle donne nel mondo. ( lucetta scaraffia ) Un affare di uomini A colloquio con suor Eugenia Bonetti, impegnata da vent’anni contro la tratta delle donne Il 2 novembre 1993 a Torino conobbi Maria prostituta nigeriana malata con tre bimbi Lei ha capovolto la mia realtà missionaria Dopo ho conosciute molte come lei Schiave, distrutte, oggetti disprezzati Sfruttate dai miei connazionali che si dicono al novanta per cento cattolici Nata a Bubbiano (Milano) nel 1939, suor Eugenia Bonetti entra ventenne tra le missionarie della Consolata. Inviata in Kenya nel 1967, vi resta per 24 anni. Rientrata in Italia, vive prima a Torino e poi a Roma, dove è nominata responsabile dell’ufficio Tratta, donne e minori dell’Unione superiore maggiori d’Italia (Usmi). Tra i tanti premi, nel 2011 ha ricevuto il riconoscimento Servitor pacis della Path to Peace Foundation della missione permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite. donne chiesa mondo di R ITANNA A RMENI Suor Eugenia Bonetti è un fiume in piena. Parla della sua missione, dei suoi incontri con «le donne della strada e della notte» con la passione di chi a questa ha dedica- to una vita e ne dedicherebbe anche un’al- tra, se fosse possibile. Nella sede dell’Usmi, dove coordina le suore di di- verse congregazioni che lottano contro la caduta in crisi. Mi sembrava di aver tradi- to la mia vocazione. Volevo tornare in Africa finché alla Caritas di Torino, dove lavoravo, ho fatto un incontro. Lo ricordo bene: era il 2 novembre 1993 e ho cono- sciuto Maria, una donna nigeriana, una prostituta malata con tre bambini, senza documenti. Lei ha capovolto la mia realtà missionaria, il modo di vivere la mia voca- zione. Me l’ha mandata il Signore per far- mi capire che la missione non era una questione geografica. Maria mi ha aiutato a entrare nel mondo della notte e della strada. Dopo ho conosciuto molte donne come lei: schiave, distrutte, oggetti di- sprezzati, usa e getta. Sfruttate dai miei connazionali che si dicono al novanta per cento cattolici. Ho capito che dovevo star loro vicina. E loro, come Maria, attraverso di noi suore hanno capito la diversità fra chi le sfruttava e chi le aiutava senza pre- tendere niente in cambio. È stato quindi l’incontro con una donna che ha dato inizio alla sua missione? Si è aperto un mondo nuovo. A contat- to con queste donne ho cominciato a capi- re che non avevamo a che fare con la pro- stituzione, ma con una nuova schiavitù. In quegli anni neppure la polizia sapeva del- la esistenza della tratta. Solo noi, alcune religiose, abbiamo capito. C’erano in que- gli anni a Torino tremila donne sulle stra- de che “servivano” cinque regioni diverse. Ci siamo avvicinate e abbiamo fatto pro- poste concrete: lo studio della lingua, l’as- sistenza sanitaria, il lavoro. Ho fatto da collegamento fra il nostro mondo e il loro, la conoscenza della loro lingua e dei loro Paesi mi ha facilitato. Quale era in quegli anni il vostro problema più grande? Potevamo aiutarle, ma non potevamo dare loro una legalità. I passaporti erano in mano ai trafficanti. Loro si erano sotto- poste ai riti vudù ed erano convinte che quello che facevano era voluto dalle divi- nità, era per il bene delle loro famiglie. Se non lo avessero fatto il loro spirito sarebbe volato via. Dovevano pagare il loro debito ai trafficanti e alle “madame”. Allora era- no decine di milioni. Oggi sessanta o set- tantamila euro. Intanto si distruggevano nel corpo e nell’anima. Sono passati venti anni. Oggi lei lavora con 250 persone di 80 diverse congregazioni. Il lavoro contro la tratta ha fatto passi avanti. Sì. Abbiamo fatto richiesta al governo di riconoscere l’esistenza della schiavitù, abbiamo fatto conoscere la realtà alle don- ne parlamentari, abbiamo ottenuto nel 1998 una legge che interviene sulla tratta. La legge ha aperto una grande porta. Una volta riconosciuta la tratta abbiamo potu- to aprire case di accoglienza per le donne che tentavano di liberarsi dalla schiavitù. Nel 2000 mi sono trasferita a Roma per coordinare il lavoro delle congregazioni religiose che aprivano le case di accoglien- za. Era l’anno del giubileo, volevamo la- sciare un segno positivo, volevamo rompe- re davvero le catene, liberare le schiave. E farlo subito proprio quell’anno. Per questo 13 congregazioni hanno aperto le porte dei loro conventi a queste donne. E 250 reli- mente. Abbiamo fatto ottenere loro docu- menti, permessi di soggiorno, passaporti. Qual è oggi la situazione della tratta? Ri- spetto al 2000 sono stati fatti passi avanti o c’è stato un arretramento? C’è un dato negativo: la crisi economica ha pesato sulle donne che sono riuscite a tirarsi fuori dalla schiavitù. Sono le prime a perdere il lavoro. Ed ecco che è entrata in funzione la fantasia della carità. Per ve- nire incontro a chi non ce la fa e non rie- sce più a vivere in Italia abbiamo fatto un progetto di rimpatrio assistito e finanziato. Abbiamo preso contatto con le suore del Paese di origine. Abbiamo chiamato le so- relle nigeriane, abbiamo fatto conoscere la situazione, i pericoli che le donne correva- no. Dal 2013 abbiamo chiesto alla Caritas fondi per un progetto. Alle ragazze nige- riane che tornano a casa, si pagano il viaggio, l’affitto della casa per due anni, si dà loro qualche risorsa per aprire un’atti- vità. Cerchiamo di resistere; il governo ha pochi fondi, molte onlus hanno chiuso, ma le nostre congregazioni con poco rie- scono a fare tanto. Ormai c’è una rete Ta- lita Kum che coordina le suore dei Paesi di origine, di transito e di destinazione delle donne per sottrarle alla schiavitù. Siete state sostenute nella vostra missione? Per esempio siete riuscite a coinvolgere le con- gregazioni religiose maschili? Per ora proprio no. Facciamo un’enor- me fatica a far loro capire. Le persone sensibili sono davvero poche. Eppure sa- rebbe importante: se non riusciamo a farle lavorare con noi, non cambia la cultura di fondo. E nelle parrocchie, nelle prediche dei sacerdoti non c’è mai un accenno alla realtà che noi cerchiamo di combattere. Dicono che è un affare di donne. No, ri- spondo, è un affare di uomini. Se ci sono nove milioni di richieste di prostituzione ogni mese è una questione di uomini. E, visto che siamo in Italia, di uomini cattoli- ci. Il nostro lavoro futuro è diretto a coin- volgere le parrocchie, le diocesi, le confe- renze episcopali. Ci auguriamo che l’8 febbraio, nella seconda giornata mondiale contro la tratta, intervenga la concretezza di Papa Francesco. Dal 2013 vi recate al centro di accoglienza di Ponte Galeria, a Roma: cosa riuscite a fare per queste donne? Vi andiamo tutti i sabati: lì incontriamo la disperazione assoluta. Queste donne non hanno niente, solo il letto nel quale tratta e la schiavitù, racconta iniziative e progetti con la freschezza e l’entusiasmo di una giovane donna. Eppure ha alle spalle decenni di lavoro, fatica e missione. Da vent’anni si occupa della tratta delle donne, di quella che Francesco ha definito la schiavitù del ventunesimo secolo. Perché? Non è una mia scelta, qualcuno l’ha fat- ta per me. Ho lavorato per molti anni in Africa e le donne sono state le mie mae- stre. Da loro ho imparato l’accoglienza, la gioia, la condivisione. Le donne africane nella loro povertà materiale sono straordi- narie. Quando sono tornata in Italia, sono dono subito il rosario e la Bibbia. Si nu- trono della parola di Dio, sono più reli- giose di noi. Vivono una terribile dicoto- mia. Maria mi diceva: ogni mattina prima di lasciare il marciapiede chiedevo perdo- no al Signore. Sapevo che quel che facevo era male ma sapevo anche che la sera sarei tornata. Tolstoj una volta ha detto: la prostituzione c’era prima di Mosè e c’è stata dopo. Ci sarà sempre. Non si può non constatare la verità delle due prime affermazioni: che cosa rispon- de alla terza? Davvero ci sarà sempre la prostituzione? C’è la prostituzione volontaria e quella forzata. Sono due cose diverse. Nella pri- ma la donna usa il proprio corpo, ma la seconda è schiavitù. Una donna nelle ma- ni dei trafficanti arriva a quattromila pre- stazioni per pagare il suo debito. Alla fine non è più lei. L’Africa non può permetter- si di distruggere una generazione di don- ne. Se lo fa, muore un intero continente. giose hanno cominciato il lo- ro lavoro nelle case famiglia, nei centri ascolto, nelle unità di strada. Abbiamo capito che dovevamo unire le nostre forze. Tutti dovevano fare la loro parte: il governo, la Chiesa, le scuole, le famiglie, i mass media. Quello della prostituzione e del- la tratta è un mondo duro da scalfire: molti sforzi e scarsi ri- sultati. È stato così anche per voi? Nel 2000 abbiamo dato al- le congregazioni la possibilità di vivere l’anno santo in mo- do concreto, abbiamo aperto i nostri conventi. Da allora sono state salvate più di sei- mila donne. Accolte e aiutate psicologicamente e social- dormono, e non fanno niente dal matti- no alla sera. Non hanno neppure una stanza in cui stare insieme. Non san- no nulla del loro futuro. Facciamo quello che possiamo: le mettiamo in contatto con i Paesi d’origine, cerchiamo di accoglierle nelle nostre case. A volte ci sembra di non combinare niente. Qualcuno ce lo ha anche det- to. Che andate a fare lì? Sa che cosa ha risposto una sorella? «Facciamo quello che la Madonna ha fat- to sotto la croce». Non è riuscita a cambiare niente ma è morta con suo figlio. Di fronte al grande esodo di chi fugge da guerra e fame, in molti oggi parlano della necessità di accoglienza: per lei che cosa è? Per me accoglie- re significa dare il futuro a una don- na, dirle che non è sola, farle capire che nella sua vita possono esserci amore e gioia. Quale è il rapporto con la fede delle donne che incontrate sulla strada? Le nigeriane, in particolare, ci chie- Una donna nigeriana

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