donne chiesa mondo - n. 34 - aprile 2015

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne A colloquio con la nutrizionista Charlotte Dufour I paradossi della fame di C ATHERINE A UBIN «E ssere nutrizionista alla Fao — spiega Charlotte Dufour — significa innanzitutto chiedersi perché nel mondo da un lato ci sono ancora ottocento milioni di perso- ne che soffrono la fame e un bambino su quattro che soffre di malnutrizione cronica, mentre dall’altro ci sono problemi di so- vrappeso e di obesità, con malattie cardio-vascolari e tumori col- legati. Interrogarsi su questi problemi, interpellando i sistemi ali- mentari, le politiche e i programmi agricoli per cercare di conce- pirli in modo che le persone si nutrano meglio: nel farlo, lavoro insieme con agronomi, esperti di pesca, di gestione delle risorse forestali e di allevamento». Dufour si occupa soprattutto di Africa subsahariana: «Lavoro in sede, a Roma: il mio compito è sostenere i colleghi che opera- no sul campo nei diversi Paesi. Fanno un lavoro di consulenza politica, stanno in contatto con i ministeri dell’agricoltura e dell’allevamento locali per vedere come la loro politica agricola risponde ai bisogni della gente. Poi c’è un lavoro su un piano più concreto, spesso in collaborazione con associazioni non-go- vernative e società civile, che include, ad esempio, la promozione di piccoli allevamenti e giardini-orti in case e scuole. Serve un’educazione anche in campo nutrizionale: ci siamo accorti che anche quando una famiglia produce a sufficienza, accade che, per mancanza di conoscenze, donne e bambini non abbiano co- munque gli alimenti di cui necessitano». La donna svolge un ruolo fondamentale nella nutrizione? «Sì perché spesso ha un posto importante nella produzione familia- re. Per esempio, quando ha un’entrata, è lei quella più in grado di spenderla per la salute, l’educazione e l’alimentazione dei figli. È dunque importante che abbia le conoscenze necessarie per uti- lizzare al meglio le risorse. Lavoriamo con altre organizzazioni: come Fao promuoviamo ricette adatte ai bisogni dei bimbi, guar- dando quali sono gli alimenti di cui la famiglia dispone e come può preparare una ricetta adeguata per il bene del bambino». Ciò significa che nei diversi Paesi esiste già in loco una rete di formazione? «Esatto. La Fao è prima di tutto un’organizzazione di assistenza tecnica: il nostro valore aggiunto nei programmi di sviluppo è la competenza negli ambiti legati all’alimentazione, per questo lavoriamo in partenariato. Spesso si tratta delle reti più vicine alla realtà locale, come ad esempio gruppi di alfabetiz- zazione femminile, cooperative gestite da donne, gruppi di soste- gno alle madri istituiti dall’Unicef. Sosteniamo questa formazio- ne con manuali e altri strumenti. In alcuni contesti di crisi, dove la presenza sul posto è molto debole, come in Ciad, Somalia, nelle regioni povere del Sahel o del Corno d’Africa, incremente- remo la nostra presenza per andare in aiuto delle popolazioni». Qual è l’ultimo Paese in cui è stata? «Ero al Cairo con i rap- presentanti della Fao che lavorano nei Paesi colpiti dalla crisi si- riana: sono regioni i cui i problemi sono legati al sovrappeso o alle malattie croniche ma che, di colpo, si sono trovati coinvolti in questo conflitto con tutti gli squilibri che comporta. È triste vedere Paesi che godevano di un certo sviluppo economico com- pletamente destabilizzati dalla guerra. La crisi umanitaria siriana è la crisi più grande della storia». Lei è stata per molti anni anche in un altro Paese in difficoltà, l’Afghanistan. «È stato all’inizio della mia vita professionale, ave- vo fatto domanda all’organizzazione Action contre la faim e pen- savo che mi avrebbero proposto di andare in Burundi o Sierra Leone, i Paesi in crisi all’epoca, invece mi proposero l’Afghani- stan. Giunsi lì senza idee preconcette: sapevo solo che i talebani controllavano il Paese e che la regione era tagliata fuori dal mon- do. Sono subito rimasta affascinata dal sorriso, l’umorismo, l’in- telligenza e la capacità di andare avanti degli afghani, malgrado ciò che vivono. È un Paese ricco spiritualmente: la loro fede mi ha commosso. Ci sono voluta tornare il più spesso possibile. Nel 2001 il regime talebano cadde e l’anno dopo, quando cominciò il processo di ricostruzione, ci tornai per brevi missioni di valuta- zione. Poi ci sono andata con la Fao: ho potuto così essere testi- mone della ricostruzione e parteciparvi. Anzi direi che io stessa mi sono ricostruita». In che senso? «Ero giovane quando iniziai questo lavoro: dinanzi a situazioni difficili, ci si sentiva impoten- ti. Non c’era soluzione, non c’era speranza: tutto era distrutto, eravamo lì con programmi di aiuto d’urgenza, ma erano gocce in un oceano di bisogni. Ci chiedevamo: a cosa serviamo? Poi ab- biamo capito che a contare non era tanto l’aiuto alimentare, ma la nostra presenza. Se oggi lavoro alla Fao è perché mi considero un vettore: l’importante nell’azione è l’incontro, quello che s’im- para l’uno dall’altro, ciò che si può costruire insieme. Quando si rimane a lungo in un Paese, ci si chiede: cosa rimane? Rimango- no le relazioni umane che è stato possibile costruire, rimane quello che ognuno ha potuto trarre da quella esperienza, e che continua a dare nella propria vita. Ho stretto amicizia con i col- leghi afghani: resta il rapporto con l’altro, il rapporto con se stes- si e ciò che si può imparare sul senso della vita. In effetti, si può essere vettori o traghettatori della volontà di Dio. I miei amici afghani mi hanno insegnato a rimettere nelle mani di Dio ciò che si deve fare. Se possiamo contribuire a questo, se possiamo esserne i traghettatori, allora è bene». Il rischio, conclude Dufour, «è di sbagliarsi sulle costruzioni visibili: spesso si misurano le sfide umanitarie in base ai risultati, mentre di fatto ciò che importa sono la presenza e l’incontro umano, che faranno poi nascere realizzazioni concrete». Volha e l’eremita del deserto Maria Egiziaca, la santa del mese, raccontata da Dario Fertilio «S anta Maria Egiziaca nac- que nel quinto secolo — leggeva la vecchia signora alla bambina — e presto fu attratta dalla grande città, Alessandria. Per diciassette anni visse da pubblica meretrice. Non per fame, la sua era una specie di passione, tanto che ripeteva di non essersi mai negata a un uomo». Qui Vo- lha, la badante bielorussa della signora, ebbe un moto di fastidio e fu tentata di interrom- perla. Non le andava che a Natalya, sua fi- glia, mettesse in testa certi pensieri: la stava ascoltando fin troppo rapita. Aveva soltanto otto anni e avrebbe avuto tutto il tempo d’imparare il significato della parola “mere- trice”. Aprì bocca per intervenire, ma poi non lo fece. Provò un palpito di rimorso, e pensò che la donna da lei accudita, in fondo, non era poi molto diversa dalla sua Natalya. An- cora più ingenua della bambina, e con un debole per le storie. Ma quest’ultima la tro- vava davvero irritante, lei stessa non ne com- prendeva bene il motivo. «Un giorno — proseguì intanto la vecchia, con Natalya accoccolata ai suoi piedi — Ma- ria Egiziaca vide una folla dirigersi al gran porto di Alessandria. S’imbarcava per Geru- salemme, era la festa dell’Esaltazione della Croce. Provò l’impulso di seguirla e parlò ai marinai. Il costo del viaggio era alto, non poteva permetterselo. Ma con la ciurma con- cordò di pagare con il suo corpo. Salì a bor- do. Giunta a Gerusalemme andò subito alla basilica della Risurrezione, insieme agli altri pellegrini, però una forza misteriosa la re- spinse. Gli altri entravano tranquillamente, lei no. Ci provò per giorni, con lo stesso ri- sultato. Infine cominciò a capire. Gesù non si accontentava che lei andasse a baciare una reliquia. Voleva incontrarla, parlare a lei, alla sua anima. Fu un colpo. “Ma io chi sono? Perché faccio questa vita?” cominciò a chie- dersi, e pianse. Le lacrime le inondarono il viso, poi i capelli, senza fermarsi, e infine la liberarono. Vedeva il cielo pieno di colori e lei era di nuovo una bambina, nel suo villag- gio, camminava a piedi scalzi sulla sabbia e gettava sassi nel pozzo. Sorrideva, piangen- do. S’incamminò verso la basilica e nessuna forza la respingeva più. Si accostò alla Santa Croce, la venerò e uscendo sentì una voce dentro che le diceva “Maria, attraversa il Giordano e troverai la pace”». A quel punto la badante entrò nella stanza dove la signora stava ancora leggendo e acce- se di proposito il televisore. Ma non ci fu verso. La vecchia continuava (Volha la accu- diva da mesi, giorno e notte: non c’era da stupirsi che fosse diventata irritabile). «Uscì dalla chiesa e con l’elemosina di un fedele comperò tre pani. Si fece indicare la via per il Giordano e si lavò nelle acque, poi entrò nella grande voragine del silenzio. Come vis- se? Che cosa fece? Non sappiamo nulla. In quel deserto visse quarantasette anni, nutren- dosi solo dei tre pani che aveva con sé. Non incontrò mai un uomo, sebbene a volte la tentazione fosse forte. Ma trovò la serenità e col tempo tutto sembrò svanire. Era in pace con se stessa e con Dio». Sospirando Volha passò in camera da letto e cominciò a rassettarla. Tolse dalle coperte briciole di pane e biscotto, i resti della cena. Tese l’orecchio ma non sentì più la voce nel soggiorno; rientrando, vide che la signora sonnecchiava adesso sul divano. Natalya da- vanti al televisore si godeva i cartoni animati. Tolse delicatamente il libro dalla mano della donna. Legenda aurea di Jacopo da Varagine lesse sulla copertina consumata. Andò a ri- porlo sullo scaffale in camera da letto. Si affacciò al cortile silenzioso e rimpianse i suoi gran giorni da escort. Anni dorati, re- gali e viaggi attraverso l’Europa. Allora era molto bella, o così in tanti le assicuravano. Poi come quando si fa sera il suo splendore si era velocemente offuscato. Allora si era ag- grappata a Natalya, la sua bambina, ed era stata lei a impedirle di affogare. Ma non riusciva più a dormire. Chiudeva occhio di solito dopo le cinque del mattino, e per poco tempo. Una condizione perfetta per una badante a tempo pieno, aveva sorri- so amaramente fra sé, quando aveva dovuto adattarsi a quel lavoro per sopravvivere. Co- minciò a pulire il bagno. Dal soggiorno giungevano soltanto il leggero russare della vecchia e le voci della televisione. D’improv- viso le sembrò di ricordare — fotografia sfo- cata del suo album d’infanzia — un calenda- rio bielorusso che riportava la festa di quella santa. Era proprio Maria Egiziaca, anche per gli ortodossi. Lei non era religiosa né era mai andata in chiesa, naturalmente, aveva sempre avuto ben altro di cui preoccuparsi, e tutta- via avrebbe giurato che quella festa si cele- brasse il primo di aprile. E stranamente in quella certezza le si disegnò sulle labbra un sorriso. Giornalista e scrittore italiano di origine dalmata, Dario Fertilio (1949) lavora nella redazione culturale del «Corriere della Sera». Con lo scrittore russo Vladimir Bukovskij, ha fondato i Comitati per le Libertà ed è stato l’ideatore dell’iniziativa Memento Gulag, ossia la celebrazione, ogni 7 novembre, della giornata in memoria delle vittime del terrorismo. Tra le sue pubblicazioni, La morte rossa. Storie di italiani vittime del comunismo (2004), La via del Che (2007), Musica per lupi (2010), L’ultima notte dei fratelli Cervi (2012). Per noi ha già scritto sant’Agnese (gennaio 2014) Uscì dalla chiesa e comprò tre pani Si fece indicare la via per il Giordano e si lavò nelle acque Poi entrò nella grande voragine del silenzio Le venne la curiosità di riprendere il libro. Circospetta, chissà perché, rientrò in camera da letto e si avvicinò allo scaffale. Ritrovò la pagina che la vecchia aveva letto a Natalya. «In pace con se stessa e con Dio. Un giorno un monaco, Zosima, si spinse nel deserto. Vi- de una donna magrissima, anziana, coperta da lunghi capelli grigi, nuda e abbrustolita dal sole. Si spaventò. Maria lo chiamò per nome e gli chiese il mantello per coprire la sua nudità: spiegò che il sole aveva consuma- to le sue vesti decine d’anni prima. I due si confessarono a vicenda, attorno a loro il si- lenzio era immenso. Alla fine Maria pregò Zosima di portarle l’anno dopo la comunio- ne. Ma quando lui tornò, trovò solo il suo corpo. Volle seppellirla, ma ormai era vec- chio e troppo debole. Fu un leone a scavarle con le unghie la tomba». Volha sorrise a quel finale incongruo, ma poi sentì ogni traccia di condiscendenza sva- nirle dalle labbra. Si accorse invece di trema- re leggermente. La notte dormì come non le succedeva da anni, e fece uno strano sogno. Era di nuovo a casa, bambina, a piedi scalzi fra i sassi. Ma la grande pianura bielorussa sembrava in tutto e per tutto un deserto di Palestina. Giuseppe Sirni, «Bambina afgana» (2004)

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