donne chiesa mondo - n. 30 - dicembre 2014

L donne chiesa mondo dicembre 2014 Per una profonda teologia della donna UCETTA S CARAFFIA Nella prima delle nostre pagine teologiche Pierangelo Sequeri ha usato un’espressione molto significativa, “snodo epocale”, per significare che, in questo momento, la società impone alla Chiesa di ripensarsi totalmente, e di riflettere su se stessa ricordandosi che le donne esistono, che non solo sono numericamente la maggior parte dei religiosi e dei fedeli, ma sono parte costitutiva e specifica della tradizione cristiana fin dalle origini. In proposito la teologa svizzera Barbara Hallensleben ha scritto: «La scarsa attenzione per il significato soteriologico dello Spirito sembra andare di pari passo con la mancanza di una teologia della donna». E questo riecheggia parole scritte molti anni fa da Yves Congar: «Una certa dimenticanza dello Spirito Santo e della pneumatologia hanno provocato l’instaurarsi di un tipo patriarcale e una prevalenza del maschile». Emerge con molta chiarezza che, a questo punto, è indispensabile una riflessione più profonda. Anche perché, scrive sempre Hallensleben, «la differenza fra uomo e donna ha a che fare con l’immagine che Dio ci rivela di se stesso». La parità della donna è iscritta nei vangeli, e il cristianesimo ha offerto questo seme allo sviluppo storico delle società cristiane. Adesso la società restituisce alla Chiesa quello che aveva ricevuto dal cristianesimo, ponendole profondi interrogativi. Nei testi che abbiamo pubblicato sono state individuate due direzioni di ricerca: una, che molti di voi hanno percorso, è quella di riflettere sia sulle donne importanti che ci sono state nella storia della Chiesa sia, più in generale, sul rapporto fra Gesù e le donne. L’altra è il problema della complementarità. Voi ben sapete che l’unica elaborazione teorica che c’è stata nella Chiesa sul problema delle donne, l’unica risposta alla sfida che veniva dalla società laica, è stata la Mulieris dignitatem . Testo molto importante, un grande riconoscimento alle donne e un grande stimolo intellettuale per pensare un femminismo cristiano. Però il tema della complementarità della Mulieris dignitatem ha lasciato due questioni aperte: una, che la Chiesa si è comportata come se non fosse mai stata scritta, cioè non ne è seguito nessun riconoscimento concreto. E non stiamo parlando di potere, noi stiamo parlando di un’altra cosa: di ascolto. Il problema fondamentale è che le donne non vengono ascoltate nelle riunioni ecclesiali in cui si parla della vita della Chiesa, del suo futuro, dei suoi problemi. L’altra questione che la Mulieris dignitatem ha lasciato aperta è che, se uno parla di complementarità, non si capisce quale dovrebbe essere il compito maschile. È una domanda che pone Sara Butler: «Qual è il genio maschile?». La complementarità rimane un’ipotesi affascinante e importante che, oggi, vediamo riscoperta anche in campo femminista: per esempio Claude Habib, femminista francese studiosa di letteratura, ha scritto che la molla della complementarità non è l’oppressione ma il bene comune. Apriamo allora la discussione, ricordando che il nostro obiettivo è quello di creare delle relazioni redente tra i sessi. M AURIZIO G RONCHI Dal punto di vista teologico ho riscontrato, nelle teologie femminili, un’impostazione ancora fortemente ideologica, rivendicazionista, molto caratterizzata dalla teologia della liberazione, intesa come liberazione delle donne da tutti i sistemi patriarcali. Insomma un discorso antico. La cosa invece che mi ha fatto riflettere è stata la pubblicazione del volume Papa Francesco e le donne di Giulia Galeotti e Lucetta Scaraffia (2014), perché da lì ho visto la distanza da un approccio ideologico, l’assunzione di una prospettiva storica molto equilibrata, appunto non ideologica. Credo si tratti di riprendere lo sguardo di Gesù sugli uomini e le donne, come si vede dai vangeli, per attingere al criterio da cui lasciarsi guidare verso una conversione relazionale. Il Papa nella Evangelii gaudium parla di tutte le conversioni possibili e qui c’è la possibilità di una conversione relazionale, io credo. Il libro di Damiano Marzotto Pietro e Maddalena. Il Vangelo corre a due voci (2010) mi ha fatto pensare: la sua tesi centrale riconosce questa compartecipazione originale alla missione di Gesù, si assiste a una collaborazione di carattere asimmetrico in cui i due attori, scrive, offrono «un apporto differenziato e complementare». Ecco, credo che questa sia una buona idea: reperita sui testi. Quindi il primo approccio è una lettura dei testi che non sia telecomandata. Un’altra affermazione era questa: «Il punto non è il sacerdozio, il punto è tutto il resto» scrive Giulia Galeotti, e tutto il resto è la relazione. Mi ha colpito, nel sinodo, il messaggio finale, dove si diceva: l’incontro è un dono, una grazia che si esprime, quando i due volti sono uno di fronte all’altro. Ora questa mi sembra essere la sfida odierna: non riuscire più a guardarsi in faccia, stare l’uno di fronte all’altro. Il mio è un discorso fenomenologico, il primo punto è questione di sguardi (il secondo punto, questione di relazione; il terzo punto, questione di prospettive). Allora, questione di sguardi, non riuscire più a guardarsi in faccia: sguardi laterali, obliqui, inclinati, contrassegnati da diffidenza, dalla paura, dal conflitto, questo è un orizzonte antropologico più ampio, che poi nella Chiesa si caratterizza come paura della differenza, ansia per il riconoscimento di sé, e sospingono verso un diffuso e crescente narcisismo. Mentre abbiamo bisogno di essere riconosciuti, al tempo stesso proviamo diffidenza verso chi ci guarda e ci riconosce. Secondo punto: questione di relazione. Credo che la relazione si giochi tra potere ed empatia. La prima istanza in gioco nelle relazioni tra uomo e donna è quella del potere, inteso come possibilità di essere riconosciuti e accettati per ciò che si è e non si riesce comunque a essere se non grazie all’altro, all’altra, al suo permesso, alla sua accoglienza, al suo rifiuto. Questa esigenza di riconoscimento, questo è il potere. Una via praticabile per la maturazione della relazione credo che sia quella dell’orientamento all’empatia. Empatia è il sentire con l’altro, non il sentire come l’altro. Questo è impossibile, assurdo, sentire come l’altro: immedesimarsi non è possibile. Sentire con l’altro, cosa che risulta nell’esperienza per esempio dell’amicizia, che succede a quella dimensione fusiva, embrionale, anche infantile che molto spesso si protrae, quel dover essere due, quel discorso della coppia. Il problema è rimanere se stessi accanto all’altro, ma lungi dal misurare le qualità in termini di competizione o rivalità. Questo è un dato: la difficoltà della relazione si gioca tra potere ed empatia. S CARAFFIA Nella relazione fra donne e sacerdoti, quale ruolo giocano potere ed empatia? G RONCHI Vedo due criticità nel rapporto tra donne e ministri ordinati, intendendo religiosi, vescovi, cardinali e via dicendo. In primo luogo la mamma dei sacerdoti: questo è un punto critico perché esemplato sul modello mariano spiritualista. Generalmente ha un peso determinante, dal momento che sembra essere l’unica donna in grado di amarli in modo adeguato alla loro vocazione. Conseguentemente ogni altra donna incontrata nella vita deve assumere il profilo della madre o della sorella, più raramente della figlia, dato che la generazione è difficilmente comprensibile se non in senso simbolico. Questa radice relazionale, direi esclusiva, molto spesso genera diffidenza, timore di attentato alla propria integrità sessuale, se non vera e propria minaccia alla promessa di castità e all’impegno di celibato. Probabilmente nasce anche da qui la tendenza a configurare come servitù la funzione della donna incontrata dal sacerdote. Allora direi icasticamente: tenere vicino a sé la donna e, al tempo stesso, tenerla distante. Questa sembra essere la sfida che i ministri debbono sostenere con le donne, piuttosto che insieme a esse. Accanto a questa, una seconda criticità potrei definirla un’attitudine alla sostituzione, per la quale le funzioni tradizionalmente femminili — generare, nutrire, accogliere, proteggere, perdonare — vengono assunte liturgicamente dal sacerdote: battezzare, celebrare l’eucarestia, amministrare la riconciliazione, mentre esprimono il volto materno della Chiesa, talvolta rischiano però di configurare anche l’atteggiamento relazionale del prete verso le donne. Quindi è come se si producesse uno slittamento di quelle che sono funzioni materne della Chiesa — queste che ho detto — che diventano quasi un modello di relazione. Mi spiego meglio: vestire abiti lunghi, colorati, addobbare l’altare con fiori e candele, atteggiarsi con formalità e ostentata gentilezza, corrispondono a comportamenti femminilizzati, che relegano ancora di più le donne al margine della relazione. Direi allora che un’ipotesi interpretativa di questo fenomeno potrebbe consistere nel tentativo, da parte dei ministri ordinati, di trasformare la diffidenza in alleanza, al prezzo però della sostituzione. Lì non c’è misoginia, ma sostituzione: non ce l’abbiamo con le donne, ma semplicemente le sostituiamo. È una tesi un po’ forte, ma per la discussione credo che sia funzionale. Quindi si evita la conflittualità o la misoginia semplicemente assumendo l’imitazione dello stile, o almeno di quello che si considera tale. S CARAFFIA Ma allora come orientare le relazioni uomo-donna, nello specifico tra ministri ordinati e donne? Come passare dalla paura dello spodestamento del ruolo all’empatia, che permette di stare accanto con serenità e favorisce l’integrazione? G RONCHI Userei queste tre espressioni: guardare negli occhi, senza abbassarli, né per sedurre o sfidare; ascoltare le parole senza sapere già cosa l’altro o l’altra dirà; percepire i silenzi lungi dall’attribuirgli i significati previsti. Ecco alcune esperienze da intraprendere con coraggio, lottando con le proprie paure, con il timore dell’apertura alla relazione. Questo modo di stabilire contatto non si improvvisa, specie quando si viene — parlo sempre per i ministri ordinati — da una formazione che ha per obiettivo la guida pastorale. Questo cosa vuol dire? Che la responsabilità di condurre, insegnare, consigliare, quindi un’asimmetria pattuita, stabilita da protocollo, raramente si sa trasformare in capacità di ricevere, imparare, lasciare che qualcuno si prenda cura di noi. Capite che qui il modello è l’atteggiamento di Gesù con le donne nei vangeli. Probabilmente la difficoltà ad ascoltare le donne non riguarda solo le donne che parlano, perché i ministri ordinati rischiano di non ascoltare nemmeno gli uomini, i bambini, gli anziani, gli ammalati... Il problema non sta nell’identificazione del ruolo, peraltro malinteso, che spesso chiude il sacerdote nel perimetro della propria funzione di guida: il rischioso esito è quello di pretendere di condurre gli altri e poi non riuscire a guidare se stessi nell’equilibrio maturo delle relazioni. Condivido la vostra proposta di concedere maggiore spazio alle donne nella formazione, nei seminari; io direi non solo come docenti ma anche come counselor psicologiche, come riferimento della pastorale familiare, per esempio: che ne sanno i seminaristi della vita di famiglia, al di là della loro, modello da rifiutare o da replicare? Che un giovane in cammino verso il presbiterato abbia l’occasione di incontrare donne diverse dalla propria madre è un’opportunità di fatto equilibrante, un’esperienza di pluralità che libera da stereotipi interiorizzati. Apprendere la differenza senza paura, stabilire rapporti quotidiani senza doversi proteggere, acquisire fiducia in chi si prende cura della propria vocazione senza minacciarla, può costituire un’autentica sorgente di umanità, alla quale poi continuamente e serenamente attingere. Credo ci sia un criterio cristologico fondamentale in tutto questo discorso: in Avvento si legge l’antifona «piova dalle nubi il giusto, germogli dalla terra il salvatore». Il principio è questo: quello che Dio dona dall’alto, sorge dalla terra. Il figlio eterno di Dio è nato nel tempo da Maria. A NTONELLA L UMINI Il momento che stiamo vivendo segna, senz’altro, un passaggio. Il punto è come viverlo. Sono d’accordo con padre Gianpaolo Salvini quando afferma che non si tratta di clericalizzare le donne, ma di permettere ai loro carismi di germinare. Le donne non valorizzano se stesse cercando di assumere il potere e le funzioni degli uomini, questo però non significa che nella Chiesa vengano escluse da posizioni autorevoli e decisionali. Come giustamente ha detto Scaraffia, il problema centrale è che le donne vengano ascoltate. L’emersione del femminile, all’interno della Chiesa, come del resto nella società, può avvenire solo se le donne conoscono di più se stesse, assumono coscienza della loro realtà profonda, riescono a fare udire la loro voce. Non si tratta quindi di limitarsi a chiedere più spazio, è necessario che il femminile emerga sullo scenario di questo mondo, che sorga in tutta la sua dignità e nobiltà. È vero che certe volte le donne sono portate ad assumere ruoli maschili, quelli vincenti, ma così tradiscono se stesse. La questione va quindi rovesciata. Le donne, quasi per un moto naturale, a un certo punto sono state chiamate a risvegliarsi, a divenire soggetto attivo di liberazione. Dopo secoli di subalternità, il mondo femminile ha cominciato a prendere consapevolezza delle proprie immense potenzialità provocando quello sbilanciamento che oggi stiamo attraversando. L’esplosione di un’aggressività maschile fuori controllo è sotto gli occhi di tutti. L’assetto precedente, una volta messo in discussione, non è più riproponibile, non si può tornare indietro. C’è un passaggio da fare che investe tutti. Le donne devono imparare a conoscersi, a portare alla luce gli aspetti essenziali del femminile, per rendersi conto di operare per una crescita umana. Anche per quanto riguarda la Chiesa non può essere diversamente e credo che solo in questo senso si può cercare di intendere la complementarità. Ho apprezzato molto quanto ha affermato Gronchi sull’importanza di trasformare le relazioni dei sacerdoti con le donne, per lo più poggiate sul potere o sulla paura, in relazioni fondate sull’empatia. La Mulieris dignitatem pone al centro dell’attenzione della cristianità il genio femminile, i cui tratti essenziali sono riconosciuti in Maria. Lo stesso Papa Francesco, affermando la necessità di una più profonda teologia della donna, si inserisce ampiamente in questa linea. Nella Chiesa però si pone in parallelo la necessità di dare configurazione al genio maschile, in particolare rispetto alla vicarietà di Cristo, come osserva Sequeri. Mi sembra che tocchi il cuore del problema Butler quando afferma che Gesù svuota ogni potere nell’obbedienza, sovvertendo così tutti gli schemi del dominio patriarcale, e porta alla luce un principio maschile positivo. In effetti Gesù non si contrappone al potere, lo oltrepassa completamente con la sua testimonianza di vita. Inoltre fa convergere insieme, nella sua umanità, principio maschile e tratti specifici del femminile quali tenerezza e misericordia. Complementarità, da un punto di vista evangelico, viene quindi a significare armoniosa integrazione dei due principi innanzitutto all’interno della persona umana e di conseguenza nella dinamica fra donne e uomini. Solo in questa prospettiva si può intravedere la possibilità di vivere relazioni redente, come ancora afferma Butler. Il problema va dunque inquadrato all’interno del piano universale di salvezza che richiede un costante lavoro spirituale. La spinta di trasformazione, senza dubbio, oggi si incarna Pasquale Cati, «Il Concilio di Trento» (1588, particolare) Lucetta Scaraffia Antonella Lumini C ONTINUA A PAGINA 14 Maurizio Gronchi

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