donne chiesa mondo - n. 22 - aprile 2014

women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women L’OSSERVATORE ROMANO aprile 2014 numero 22 Inserto mensile a cura di R ITANNA A RMENI e L UCETTA S CARAFFIA , in redazione G IULIA G ALEOTTI www.osservatoreromano.va donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne chiesa mondo Un terreno occupato troppo e troppo poco Il ruolo di uomini e donne nella Chiesa di oggi di D OROTHÉE B AUSCHKE P er una biblista come me, dire e fare sono diventati inseparabili. Nel rac- conto biblico Dio è il primo a non permettersi di dire senza fare: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu» ( Genesi , 1, 3). Noi, lettrici e lettori, a volte un po’ distratti, nella nostra vita di uomini e di donne riconosciamo tuttavia che la Parola — che è luce — si è fatta carne, e questo è pro- prio un “fare” che non esclude nulla di quel che noi chiamiamo essere umano. Come altri, anch’io sono un’appassionata lettrice della Bibbia. Questa lettura mi ha con- vinto che, parlando soltanto dell’essere uma- no, la Bibbia può anche parlarmi di Dio. Tale convinzione ha messo insieme da una parte la mia esperienza di vita di donna, di moglie e di madre, illuminata dalle scienze umane, e dall’altra una lettura sempre rinnovata dei te- sti. E ciò nel solco tracciato da quell’eminente lettore che fu il gesuita Paul Beauchamp. Concittadina e contemporanea di Elisabeth Schüssler-Fiorenza, ho preso da lei l’idea della Chiesa come una «comunità di discepoli uguali», basandomi allo stesso tempo sulla tradizione di Matteo che Papa Francesco ha ricordato nel suo messaggio per la celebrazio- ne della Giornata mondiale della Pace del 1 o gennaio 2014: «Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo» ( Matteo , 23, 8-9). Ammiriamo qui le due diverse forme del verbo “chiamare”, al passivo e all’attivo! Mi sembra sempre più evidente che solo l’abban- dono di qualsiasi gerarchizzazione può con- durre alla fraternità voluta dal nostro Maestro. Penso anche che il femminismo abbia contri- buito all’avvento di questa fraternità indican- do un ostacolo inevitabile lungo il cammino: il sessismo, che vive della paura di accogliere la differenza sessuale e i costanti interrogativi che essa ci pone. Ebbene, questa paura si è re- sa quasi indipendente al punto da condiziona- re ogni minimo distacco da schemi di potere saldamente stabiliti. Ma, diciamolo chiaramen- te: essere donna non protegge neppure dalla voglia di vedere altri più in basso nella scala! Vedendo ciò che il nostro Papa sta facendo, non ho dubbi che si avvicinerà il più possibile al dire e al fare nel tempo del suo ministero. Prendo a testimonianza la sua esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 11) dove spie- ga questa sfida: «Nella sua venuta, ha portato con sé ogni novità. Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. Gesù Cristo può anche rompere gli schemi noiosi nei quali pretendia- mo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina. Ogni volta che cer- chiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cari- che di rinnovato significato per il mondo at- tuale. In realtà, ogni autentica azione evange- lizzatrice è sempre «nuova”». Da quando ero giovane, una profonda ami- cizia mi lega a una donna italiana, Luisa Mu- raro, che ha dedicato la sua vita di filosofa a ni nella Chiesa. Molte donne (e anche alcuni uomini) provano grande diffidenza verso una comunità di fede — la loro — che non le ascol- ta. Resto però convinta che la posta in gioco non consiste nelle rivendicazioni, ma che di- pende piuttosto da quanto la fraternità batte- di T ERESA B ELLO C osa avrà colto del mio Dio? Me lo sto chiedendo ancora dopo quattro mesi dalla conversazione con l’autista di un mezzo pubblico. In quel periodo andavo spesso, per lavo- ro, da un punto all’altro della cit- tà di Chiang Mai, in Thailandia, e mi sedevo volentieri davanti, in- sieme con l’autista, per conversa- re, perché gli autisti sanno tante cose della città e dell’aria che tira. Quel giorno si trattava di un si- gnore particolarmente loquace. Saputo che ero una missionaria, cominciò a farmi mille domande. Mi arresi alla sua curiosità e ri- sposi cercando di essere breve ma anche precisa, visti gli argomenti: la consacrazione, la vita eterna, Dio. Tutte categorie ben diverse tra il buddismo e il cristianesimo; dovevo perciò fare attenzione per non dare risposte vaghe o comu- nicare concetti sbagliati. Nel mondo buddista dire mo- naco o monaca non significa ne- cessariamente riferirsi a una scelta di vita per sempre. Anzi, nella maggioranza dei casi si è monaci per un tempo che può variare da qualche giorno a vari anni. Il mio interlocutore mi aveva chiesto perciò da quanto tempo ero reli- giosa e per quanto tempo ancora lo sarei stata. Gli risposi che nella nostra religione si tratta di una scelta definitiva, che più impor- tante di tutto era il rapporto con Dio e che, per essere uniti a Lui più intimamente, alcuni accoglie- vano questo stile di vita come un dono da parte di Dio. La domanda successiva non ar- rivò a raffica come le precedenti. Ci fu uno stacco. Pensavo che or- mai l’autista si acquietasse, che avesse esaurito il suo repertorio. E invece si preparava a farmi una domanda speciale, capace di rivo- luzionare il mio cuore e la mia mente e spingermi a un esame di vita velocissimo. Ancora oggi la sua domanda mi risuona nelle orecchie e nel cuore: «Tocchi Dio tutti i giorni?». Mi ritrovai anch’io a far pausa, alla ricerca di una risposta possi- bile, necessariamente breve, com- prensibile e, soprattutto, credibile. Già, soprattutto credibile, perché mentre la risposta stava per diven- tare parola, prendevo coscienza della responsabilità che avrei as- sunto con quella affermazione. Avevo coscienza del mio limite, e le parole pesavano come maci- gni. Non volevano uscire. Il fatto è che il tocco di Dio, tutti i giorni possibile, doveva trovare corri- spondenza in una vera trasforma- zione di me stessa, doveva essere percepibile nella mia concretezza relazionale. Me ne sentivo lonta- na, allora come rispondere? Quell’uomo stava aspettando e la corsa stava per finire. «Sì — osai — tutti i giorni», cer- cando poi di spiegare. Quel con- tatto impossibile è stato reso possi- bile da Gesù. In lui, Dio si è fatto uno di noi. E noi abbiamo accesso alla relazione con lui tutti i giorni. È un avvenimento ogni volta altis- simo e inimmaginabile che il quo- tidiano mai deve banalizzare. Lo stavo dicendo a lui come a me, che sì, è proprio vero, posso toccare Dio. E lo posso fare tutti i giorni. Dio è così grande da poter- si abbassare fino a noi — tutti i giorni — per amore, perché lui de- sidera farci ogni giorno di più per- sone capaci d’amare gratuitamente, proprio come Gesù. Ero arrivata a destinazione. Altra gente doveva essere condotta altrove. «Arrive- derci, grazie». «Arrivederci, è stata una bella conversazione». Ero accaldata, e non solo per la temperatura esterna. Cosa avrà ca- pito lui, il mio interlocutore bud- dista? Non so. Non so davvero. Ma so che io non ho più dimenti- cato la domanda. È lì come un dono e un impegno anche per la mia vita cristiana. Mi accompagna ormai da quattro mesi, ravvivando in me la gratitudine per il dono dell’incredibile prossimità di Dio e riconducendomi all’impegno quotidiano di conversione. La missione di ogni cristiano è bellissima: è rendere visibile la possibilità che ci è data di poter toccare Dio tutti i giorni. È farci prossimo sullo stile di Gesù, per essere anche noi, come lui, luogo di incontro, spazio di relazione possibile tra Dio e gli uomini. Che meraviglia la nostra fede: la relazione che noi viviamo con Dio non si esaurisce tra noi e lui, ma diventa spazio che permette a Dio di raggiungere i nostri fratel- li. E anche permette ai nostri fra- telli di incontrare e toccare Dio che ci abita. Credo che sia da intendere in questa linea l’espressione di Pao- lo: il marito non credente viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente ( I Corin- zi 7, 14). Ogni battezzato è perciò abilitato a essere missionario sem- pre perché è abitato da Dio. Il credente che accoglie nel suo cuo- re il prossimo non credente, dona a lui — insieme con l’amicizia — la possibilità di incontrare Dio che lo inabita e quindi di essere reso santo da lui. Voglia il Signore renderci sempre più casa abitata da lui dove altri possono entrare perché avvenga l’incontro. di A GNESE C AMILLI P apa Francesco è stato chia- ro: nel suo discorso ai giu- dici rotali, ha ricordato che a loro è richiesto un profilo umano, in modo da prati- care «una giustizia non legalistica e astratta, ma adatta alle esigenze della realtà concreta». Ricordando, poi, che la carità «costituisce l’anima anche della funzione del giudice ecclesiastico». E que- sto atteggiamento è richiesto particolar- mente oggi che la questione della nullità del vincolo matrimoniale è al centro del proble- ma della famiglia, a sua volta al cuore della riflessione della Chiesa. Papa Francesco, in- fatti, ha deciso di affrontare quello che è il punto più caldo del rapporto fra Chiesa e modernità, e le donne vengono coinvolte an- che nella sfera giuridica. Da più di trent’anni — per la precisione, dal 1982 — nei tribunali ecclesiastici sono en- trate anche le donne, mentre le prime avvo- catesse rotali sono state ammesse a patrocina- re dal 1975. Dopo un primo periodo di am- bientamento, le donne sono stabilmente inse- rite in questa realtà, in cui l’applicazione fe- dele dei principi della legge canonica non può prescindere dalla vicinanza caritatevole con persone che soffrono per avere visto di- strutta la loro famiglia. Abbiamo svolto un’inchiesta sulla presenza femminile nei tribunali della Chiesa a partire dal Vicariato di Roma, ove hanno tra l’altro sede i tribunali di prima istanza e di appello per le cause di nullità matrimoniale del La- zio. Per ottenere la dichiarazione di nullità del celebrato matrimonio occorrono due gradi di giudizio. Nel corso del primo grado si intro- ducono i capi di nullità che vengono posti a base della richiesta, si raccolgono le prove sia documentali che testimoniali, si espletano se necessario le perizie del caso, dopo di che i giudici sono chiamati a pronunciarsi. Ove venga riconosciuta la nullità del matrimonio per i capi di nullità introdotti, la causa viene trasmessa, dallo stesso tribunale di prima istanza, al tribunale di appello. Laddove, in- vece, la nullità non venga riconosciuta, il tri- bunale di appello viene consultato su istanza di parte, qualora questa intenda proseguire. In questa sede il collegio giudicante è chia- mato a rivedere, sia sotto il profilo della le- gittimità che del merito, la sentenza di primo grado. Ove approvi l’operato del collegio giudicante che si è pronunciato in prima istanza, viene emesso un decreto di ratifica che conferma i capi di nullità che sono stati riconosciuti dal tribunale di primo grado. Il procedimento che indaga sulla nullità o meno del vincolo matrimoniale non può che valutare i presupposti che hanno condotto al- la celebrazione del matrimonio e sul fil rouge che lega tali presupposti con l’avvenuto falli- mento dello stesso. Ove il tribunale riscontri tale diretto rapporto, anche laddove siano in- tercorsi un certo numero di anni tra l’inizio della vita coniugale e la sua conclusione, non può che pronunciarsi accogliendo tale richie- sta sebbene la normativa canonica vigente muova da un postulato di validità del vinco- lo matrimoniale. Le ragioni per cui può essere considerato nullo un matrimonio sono per lo più i vizi del consenso. Per poterli dimostrare occorre, dunque, indagare approfonditamente nella sfera più profonda della volontà dei nubendi, e in questo contesto si muovono gli operatori del diritto che sono chiamati a collaborare all’interno del tribunale. I ruoli di coloro che operano all’interno del tribunale sono essenzialmente tre: il ruolo di giudice e uditore, di difensore del vincolo e di notaio. Nell’ambito della prima funzione, nel tri- bunale di prima istanza le donne sono pre- senti quali uditrici: conducono, cioè, l’attività istruttoria secondo il mandato del giudice presidente del collegio e sono approvate dal vescovo. La presenza femminile è maggiorita- ria: tre donne su cinque uditori. Tra queste vi è Alessandra D’Arienzo, co- niugata con due figli, che ha conseguito il dottorato in diritto canonico presso la Ponti- ficia Università Lateranense, dopo aver otte- nuto la laurea in giurisprudenza in Italia. «Quando ho cominciato a collaborare con il tribunale — ci dice — avevo una figlia molto piccola; prima di me erano state assunte due colleghe. Oggi, come uditrice, svolgo con or- goglio e profondo senso di responsabilità la mia attività, collaborando fattivamente con l’istituzione ecclesiastica e mettendo a servi- zio della stessa la mia qualifica professionale e la mia sensibilità di donna. Nell’ambito dell’istruttoria che conduco quotidianamente, cerco di accogliere le persone che incontro con rispetto, delicatezza e professionalità». I difensori del vincolo debbono, invece, valutare attentamente tutte le motivazioni per le quali deve essere considerato valido il vin- colo coniugale impugnato. Questa figura non sempre viene compresa, ma è indispensabile affinché — nell’ambito della dinamica proces- suale — risultino ben chiari tutti gli aspetti a favore e contro le tesi proposte e il giudice possa disporre, prima della decisione, di tutti gli elementi necessari per decidere la causa secondo giustizia. In questo settore la pre- senza femminile è pari al sessantasette per cento. Chiara Gabellini — coniugata, due figli, un bambino di otto anni e una bambina di sei, laurea in giurisprudenza presso l’università di Roma La Sapienza e dottorato in diritto ca- nonico — svolge da anni questo ruolo con passione e serietà. E così lo spiega: «Nell’ambito del mio ruolo di difensore del vincolo, portatore di un interesse pubblico che appartiene alla Chiesa, sono chiamata a proporre tutti gli elementi a favore della vali- dità del matrimonio. Nello svolgere seria- mente questo compito, necessario per la ri- cerca della verità, cui tende il processo cano- nico, mi confronto sempre con la sofferenza e le difficoltà che vivono i fedeli che purtrop- po hanno visto fallire la loro unione matri- moniale e che si rivolgono al tribunale eccle- siastico per ottenere delle risposte in ordine al sacramento che hanno celebrato». I notai svolgono un ruolo altrettanto im- portante perché la loro presenza è indispen- sabile in quanto sono chiamati ad attestare la veridicità di quanto accade nel processo. Di fatto sono i garanti della correttezza dell’ope- rato che si svolge nella quotidianità della vita dei tribunali ecclesiastici. Le donne sono il settantacinque per cento degli operatori in questo ambito. Il loro compito è tanto delicato quanto fondamentale. Solo dalla piena correttezza dell’iter processuale deriva il rispetto dell’uguaglianza dei diritti per tutte le parti in causa, necessario a garantire una sentenza giusta. Stefania Giombini — laureata anche lei in giurisprudenza, in procinto di conse- guire il dottorato in diritto canonico, sposata e madre di un bambino di sedici mesi — svolge da otto anni il ruolo di notaio e sulla sua esperienza professionale evidenzia: «An- che per lo svolgimento della funzione di no- taio la preparazione e la serietà del proprio operato rappresentano una collaborazione al- la ricerca della verità. Per tale ragione ho de- ciso di completare la mia formazione giuridi- ca in ambito canonico. Ho la convinzione che non è un lavoro come un altro in quanto ogni giorno sono chiamata ad accogliere con sensibilità le persone e a contribuire con il mio operato alla celerità del processo, ren- dendo un servizio alla Chiesa». Nell’ambito del tribunale di prima istanza del Vicariato di Roma, su una presenza fem- minile pari al quarantacinque per cento degli assunti, il quindici per cento delle presenze femminili ha oltre quindici anni di anzianità di servizio e il quaranta per cento ha circa dieci anni di servizio. I tribunali ecclesiastici competenti per le cause di nullità matrimo- niale sono presenti in tutta Italia, come nel resto del mondo, e la presenza femminile è, ormai, importante. Come abbiamo anticipato, una vera e pro- pria rivoluzione al femminile si è verificata anche nel ruolo della difesa. Se si analizza l’albo degli avvocati rotali il dato che balza agli occhi è che la presenza femminile si è in- crementata, negli ultimi venti anni in modo notevole. Se, infatti, sino al 1980 le presenze femminili erano solo di tre unità su trentaset- te avvocati iscritti all’Albo, nel decennio im- mediatamente successivo il numero aumenta fino a contare altre ventiquattro iscritte su cento avvocati. A partire dal 2000, si inverte il rapporto: su 154 nuovi iscritti ben 96 sono donne, cioè la presenza femminile arriva al sessantatré per cento degli iscritti circa. Dal 2010 a oggi, su 24 nuovi iscritti, le avvocatesse sono 13. Nella Città del Vaticano hanno sede anche i tribunali interni, che operano in materia di giustizia civile e penale, e in questa sede so- no iscritti 82 avvocati, di cui 35 donne. Possiamo ormai esserne certi. Qualsiasi sia il cammino che il Papa riterrà di intraprende- re in materia di legislazione matrimoniale, le donne apporteranno un contributo fonda- mentale. Il romanzo Bella mia Sono in molti a essere feriti: una città, colpita da un terremoto devastante; una famiglia, percossa dalle incomprensioni e dai lutti; una giovane donna, la cui vita è stata fin dall’infanzia vissuta nel cono d’ombra di una gemella che l’ha costantemente protetta con la sua forza. Eppure il romanzo dell’abruzzese Donatella Di Pietrantonio, Bella mia (Elliot, 2014) ambientato a L’Aquila, riesce a sganciarsi dal cliché di una mera storia di riscatto e ricostruzione. Perché affrontando le difficoltà del presente (aggravate dalla consapevolezza che la politica è venuta meno al suo senso etico) e trovandosi costretta a fare i conti con il passato, la protagonista — di professione ceramista — scopre che in realtà il confine tra vincitori e vinti è estremamente labile. Una consapevolezza, questa, che forse le permetterà di sciogliere quel nodo di cupezza che marca, come un leggero sibilo represso, ogni suo respiro. ( @GiuliGaleotti ) Il film Monster’s Ball È un film duro. Molto duro. Soprattutto per la violenza psicologica che — specie nella prima parte — scava e travolge come implacabile bulldozer tutto quello che trova lungo la via. Eppure, la storia raccontata nel film Monster’s Ball (2002), del regista statunitense Marc Forster, dimostra come anche nella desolazione esistenziale, nella povertà emotiva che parrebbe senza speranza, una fiammella c’è. Scaturisce, con enorme fatica in una pellicola dominata da silenzi fragorosi, dall’incontro tra l’afroamericana Leticia, moglie di un condannato a morte e madre di un bambino obeso, e il razzista Hans, che lavora nel braccio della morte di una prigione della Georgia, come suo padre prima di lui e come suo figlio Sonny, assunto da poco. La donna e l’uomo si incontreranno sul precipizio dell’ennesimo dramma, dapprincipio ignari che le loro strade si sono già incrociate, quando Hans ha accompagnato il marito di Leticia alla sedia elettrica. La verità sarà sale ulteriore su vite già molto provate, ma Leticia — interpretata da Halle Barry, che per questa parte sarà la prima afroamericana a vincere il premio Oscar come migliore attrice protagonista — troverà la via per riconciliarsi con la vita. L’esecuzione capitale apre il film, il tentativo (riuscito) di superare la disperazione lo chiude. ( @GiuliGaleotti ) N OMINE FEMMINILI IN E GITTO «La situazione resta difficile in Egitto, ma i segni di speranza per la rinascita della società locale non vanno ignorati»: così Wael Farouq, docente di arabo al Cairo, intervenendo a Milano a un convegno dedicato alla valenza ecumenica della dottrina sociale della Chiesa. Come esempi, Farouq ha ricordato due recenti elezioni: quella della dottoressa cristiana Mona Mina, uno dei volti più noti di piazza Tahrir, alla guida del sindacato dei medici egiziani, e quella della copta ortodossa Hala Shukrallah alla presidenza del Partito della Costituzione. Cinquantanove anni, sociologa, Shukrallah — che nel 2006 prese parte alla fondazione del Movimento degli egiziani contro la discriminazione — succede al premio Nobel Mohamed ElBaradei che, nell’aprile 2012, aveva fondato il Partito della Costituzione nel tentativo di superare la contrapposizione tra formazioni politiche religiose e laiche. Interessante che nelle sue prime dichiarazioni, Shukrallah abbia detto di non apprezzare l’insistenza con cui i media richiamano il suo essere la prima donna e la prima copta alla guida di un partito in Egitto. A suo avviso, infatti, questo tipo di presentazione induce a fermarsi alle etichette, invece di confrontarsi davvero «con i contenuti di ciò che si dice». L E SCHIAVE DI IERI Delle poche parole che l’attrice Lupita Nyong’ o ha pronunciato ritirando l’Oscar 2014 come migliore attrice non protagonista, la stampa ha per lo più ricordato il passaggio finale: «Questa statuetta significa che non importa da dove tu venga, i tuoi sogni possono comunque realizzarsi». Eppure erano state molto più interessanti le parole iniziali della trentunenne attrice kenyota, premiata per aver interpretato la schiava Patsey nella pellicola 12 years a slave di Steve McQueen. Tratto dalla autobiografia (1853) di Solomon Northup, il film racconta la storia del violinista di colore, uomo libero nello Stato di New York che, con l’inganno, viene rapito e portato in Louisiana dove rimarrà in schiavitù per 12 anni. Dopo aver ringraziato per l’Oscar, Nyong’o ha aggiunto: «Nemmeno per un secondo posso però dimenticare che la gioia di questo momento è stata resa possibile dall’enorme sofferenza di qualcun altro. Proprio per questo voglio ringraziare lo spirito di Patsey, che mi ha guidata. E ringraziare Solomon, per aver raccontato la storia vera di questa ragazza, e la sua». E GLI SCHIAVI DI OGGI Un tipo di schiavitù minorile tenuta scarsamente in considerazione è quella presente in Paesi come India e Nepal, dove centinaia di bambini vengono sfruttati nei circhi. Per cercare di far fronte al fenomeno, è stata fondata la ong Esther Benjamin Trust che, oltre a denunciare queste situazioni, dà rifugio alle vittime. Le cifre esatte non si conoscono, ma la ong stima che ogni anno siano almeno 500 i piccoli sfruttati nelle attività circensi tra spettacoli di varietà, acrobazie e contorsionismi. Si tratta normalmente di minori nepalesi, rapiti da villaggi poverissimi ai piedi dell’Himalaya, dove i rapitori arrivano promettendo ai genitori che i loro figli diventeranno artisti del circo. In cambio di una trentina di dollari, chiedono una firma su un documento scritto totalmente in inglese, quindi incomprensibile per i genitori, e si portano via i piccoli. Una volta in India, i bambini sono ridotti in schiavitù, subendo abusi di ogni genere. Esther Benjamin Trust finora è riuscito a salvare 700 piccole vittime, ospitandone una sessantina in un rifugio segreto fuori Kathmandu. Più in generale, la piaga del lavoro minorile in queste zone è in aumento: ci sono 20 milioni di piccoli lavoratori nelle fabbriche indiane e duecentomila schiavi nepalesi che non guadagnano neanche un centesimo pur lavorando quindici ore al giorno. A SILO NIDO IN FACOLTÀ In Messico — dove dal 2000 è in aumento il numero di gravidanze tra le ragazze di età tra 12 e 19 anni — sta diventando un problema serio l’abbandono degli studi delle giovani per maternità. I dati oscillano intorno al 40 per cento per gli studi medio-superiori e al 20 per quelli superiori. Secondo la ricerca nazionale sull’abbandono, sono la vergogna e i pregiudizi le cause che inducono le adolescenti al ritiro. Le borse di studio disponibili per le giovani madri sono insufficienti. Per questo gli studenti della facoltà di giurisprudenza dell’università Juárez (Stato di Durango) hanno aperto un asilo nido unico nel suo genere. Creato dagli studenti per gli studenti, con il supporto di Governo e università, ha una retta che dipende dalle possibilità del singolo. Aperto dalle 7 alle 20, ospita 160 bimbi. Ma le domande sono molte di più. N UMERI SULLE DONNE NEL MONDO Su un miliardo e 300 milioni di persone che vivono in condizioni di povertà estrema in tutto il mondo, 910 milioni sono donne. Cioè 7 su 10. Lo ha rivelato la ong spagnola Ayuda en Acción che, dal 1981, si dedica alla cooperazione internazionale per cercare di combattere la povertà mediante programmi di sviluppo autosostenibili e campagne di sensibilizzazione tra le fasce più vulnerabili. Le donne che vivono nei Paesi più poveri del mondo, nonostante producano il 70 per cento dei generi alimentari, non possiedono neanche il 2 per cento dei terreni coltivabili. A completare il quadro, le scarse possibilità di accedere all’istruzione e la piaga dei matrimoni e delle gravidanze precoci (secondo la ong, sono oltre 60 milioni le forzate spose bambine). Intanto una donna ogni minuto muore durante la gravidanza o il parto per complicazioni evitabili. Contestualmente l’Agenzia dei diritti fondamentali della Ue ha pubblicato un’indagine da cui emerge che i Paesi dove si registrano più violenze sulle donne sono quelli scandinavi. L’Italia si trova al diciottesimo posto, penultima prima della Polonia. Colpisce che a guidare la classifica siano proprio i Paesi in cui le donne sono più presenti in politica e nel mondo del lavoro, come Danimarca, Finlandia e Svezia. U N FILO PER LE DONNE R OM DI M ILANO Taivè è una parola in lingua romanì che significa filo. Ed è proprio grazie a quel filo che otto donne rom stanno riuscendo a riscattarsi nelle baraccopoli di Milano, conquistando fiducia in se stesse e autonomia. Il progetto Taivè è il ramo femminile di sartoria e stireria della più ampia cooperativa sociale Ies (impresa etica sociale), ed è nato grazie alla collaborazione con la Caritas ambrosiana e al rapporto che l’organizzazione, lavorando nei campi rom cittadini, ha instaurato da tempo con molte donne rom e con le famiglie. A oggi sono in otto a tagliare, cucire e stirare con un orario part time nel laboratorio. Dal 2008, quando il progetto ha preso il via, alle macchine da cucire di Taivè si sono sedute 19 donne, di età tra 20 e 50 anni, provenienti da Romania, Macedonia e Kosovo. Di queste, due hanno trovato autonomamente lavoro una volta finito il periodo di formazione e altre sei, dopo essere state per un periodo con Taivè, sono passate ad altre occupazioni temporanee. L E DONNE DELLO S WAZILAND La trentenne Wezi Kunene ha avverato il suo sogno: a Manzini, principale città dello Swaziland, suo Paese natale, gestisce un negozio specializzato in rivestimenti e riparazioni di mobili. La giovane ha costruito il suo successo a poco a poco, partendo dal corso di formazione frequentato nel 2006 presso il Centro professionale don Bosco. Il suo è solo uno dei tanti casi: i salesiani, infatti, sono attivi nel piccolo e problematico Paese africano, dove seguono molti progetti rivolti, in particolare, a donne vedove e ragazze madri. S E I GIORNALI FANNO CAMBIARE NOME ALLA PEDOFILIA Da qualche tempo, la magistratura italiana sta indagando su un traffico sessuale avvenuto a Roma dove uomini adulti hanno abusato, in cambio di denaro, di due minorenni di 14 e 15 anni. I fatti sono già gravi nella loro sostanza, ma quello che colpisce è il modo in cui, quasi all’unanimità, la stampa italiana li racconta, aggiungendo costantemente nuovi dettagli. Nonostante le due abbiano un’età che le fa rientrare a pieno diritto nella Convenzione di Lanzarote sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, i giornali continuano a parlare di «baby squillo». Eppure gli adulti che hanno rapporti sessuali con bambini e ragazzini sono, senza ombra di dubbio, pedofili. Il saggio Héroines de Dieu L’Ottocento è stato il secolo in cui la vitalità e il coraggio delle religiose sono esplosi offrendo al mondo numerosi esempi di dedizione straordinaria al messaggio cristiano. Ma queste vite, in gran parte, sono oggi dimenticate: meritorio quindi il bel libro di Agnes Brot e Guillemette de La Borie, Héroines de Dieu. L’epopée des réligieuses missionaires au XIX e siècle (Presses de la Renaissance, 2011) che ricostruisce i profili di otto missionarie francesi andate sino “ai confini del mondo” per evangelizzare, correndo pericoli e affrontando grandi difficoltà, ma anche facendo esperienze interessanti e usufruendo di una libertà d’azione che le donne laiche dell’epoca non si sognavano neppure di raggiungere. Fra gli indiani d’America, in Africa, in Oceania e Nuova Zelanda, in Terra santa e in Cina, in Brasile: niente poteva fermare il loro ardore missionario e il loro coraggio. Esse costituiscono senza dubbio un tassello dimenticato della storia dell’emancipazione femminile. ( @lucescaraffia ) Serve una vera rivoluzione culturale Per togliere i rovi da terra e poggiare i piedi senza pestare quelli altrui Su un autobus in Thailandia Una missionaria cattolica racconta l’incontro quotidiano con Gesù al conducente buddista Mentre la risposta stava per diventare parola prendevo coscienza della grande responsabilità che avrei assunto con quella affermazione Orgoglio e responsabilità Inchiesta sulla presenza femminile nei tribunali ecclesiastici È dal 1975 che le avvocatesse possono patrocinare nei processi per nullità matrimoniale Papa Francesco lo ha ripetuto di recente La carità deve costituire l’anima della funzione del giudice ecclesiastico società è cambiata, al di là del ripiego delle quote nella rappresentanza politica e sociale. Ma la Chiesa — che fa riferimento a Cristo, Parola e Luce — dovrebbe giusta- mente con il suo “fare” precedere e illuminare il cammino così ar- duo verso la fraternità. Come donna e come biblista, spero che lo Spirito Santo ispiri un giorno alla Chiesa il desiderio di ascoltare e di dibattere il tema della vita e del posto delle donne al suo interno. In ogni tempo i movi- menti dello Spirito hanno incontrato esitazio- riflettere sulla differenza sessua- le, accompagnando la lotta delle donne per diventare liberamente ciò che sono. Lei mi ha insegna- to che non c’è nulla di scontato in questa presa di coscienza di sé da parte di noi donne, prigio- niere quali noi siamo di rappre- sentazioni del mondo e della fe- de che, nella misura in cui falsa- no il “due” umano, sono radical- mente in disaccordo con il pro- getto di Dio, il solo “Uno”. An- cor più delle donne camerunen- si, la cui vita ho condiviso per alcuni anni, noi donne europee abbiamo bisogno di una vera ri- voluzione culturale, per ripulire dai rovi il terreno su cui poggia- re il piede senza pestare quello altrui. Nella Chiesa, come nella società, questa rivoluzione cultu- rale esige dagli uomini e dalle donne l’umile riconoscimento del terreno troppo occupato da- gli uni o lasciato inoccupato dalle altre. Per anni sono stata membro di una comunità di ba- se; era il prete che doveva solle- citare le donne a prendere la pa- rola, perché spesso queste erano troppo poco convinte di essere portatrici di una parola libera e attendibile. Ora noi tutte sap- piamo che in questo campo la simale sappia rilanciare la sfida ancora più lontano, ossia: la rot- tura con ogni forma di domina- zione e di privilegio, istituiti in nome delle differenze, siano esse religiose, sociali o sessuali (cfr. Galati , 3, 26-28). Finché uomini e donne ter- ranno più alla condizione clericale che al servizio fraterno, la Chiesa rischierà di non realizzare la conversione di tutto il popolo di Dio in vista della sua responsabilità pastorale. Troppo rari sono gli uomini ordinati che le rivolgono questo appello, troppo rare sono ancora le donne che accettano i segni della vicinanza di Dio da parte di un’altra donna. Un passo nel senso giusto sarebbe quello di notificare loro la qualità di di- scepoli uguali nel servizio della Parola. Una rivoluzione cul- turale (e cultuale) richiede tem- po; bisogna cominciare a conce- derglielo. Una cosa è certa, già da lungo tempo: il rifiuto di an- dare nel senso di un popolo fra- terno non può fondarsi su ragio- ni teologiche. Bernardo Carvalho, «Andirivieni» (2013)

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