donne chiesa mondo - n. 22 - aprile 2014

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne La scrittrice americana Flannery O’Connor Il limite come punto di forza di E LENA B UIA R UTT F lannery O’Connor, nata nel 1925 a Savannah, in Geor- gia, da genitori di origine irlandese, aveva poco tempo a disposizione e lo sapeva: un lupus eritematoso (grave insufficienza del sistema immunitario), ereditato dal padre, se la sarebbe portata via alle prime ore del mattino del 3 agosto 1964, a soli trentanove anni, lasciando un allevamento di pa- voni e una produzione letteraria ristretta, ma di inequivocabile e raro talento. La sua vita è povera di elementi biografici rilevanti, a parte un soggiorno di due mesi, nel 1948, nello Stato di New York e un viaggio in Europa dove, già gravemente malata, partecipò a un’udienza papale in Vaticano e a un pellegrinaggio a Lour- des. Quando nel 1951 lasciò l’ospedale di Atlanta, troppo de- bole per salire le scale, Flannery O’Connor si trasferì con la madre ad Andalusia, l’antica casa di famiglia poco distante dalla città di Milledgeville, piccolo centro agricolo della Geor- gia. Al piano terra della fattoria, scrisse il suo primo romanzo La saggezza nel sangue (Wise Blood, 1952). Seppure in preda a profonde sofferenze, Flannery O’Con- nor considerò l’isolamento procuratole dalla malattia una be- nedizione — «Signore, sono contenta di essere una scrittrice eremita», scriveva a un’amica — per il fatto di trovarsi in pie- no di fronte a quella che riteneva essere l’esperienza essenziale con cui ognuno di noi in qualche modo dovrebbe fare i conti: «l’esperienza della limitatezza». Considerava inoltre il suo sta- to fisico con profondo senso dell’umorismo, definendosi per via delle stampelle «una struttura ad archi rampanti» e per lettera si congedava sdrammatizzando: «Devo andarmene sul- le mie due gambe d’alluminio». Nonostante la malattia e la produzione limitata, il successo arrise a Flannery O’Connor. I ventisette racconti e i due ro- manzi le fruttarono in vita due lauree ad honorem e tre volte la vittoria dell’O. Henry Award. Nel 1988 la sua opera fu in- clusa nella prestigiosa collana Library of America, onore fino ad allora riservato, tra i contemporanei, solo a William Faulkner. Per quel che riguarda le edizioni italiane arrivano subito le dolenti note: se i romanzi e i racconti sono stati pubblicati per intero, lo stesso non è avvenuto per i saggi e soprattutto per le lettere, tradotte fino a ora solo in parte. Volendo azzardare una lettura della, se non scarsa, quanto meno faticosa fortuna di quest’autrice in Italia, si può convenire sul fatto che la nar- rativa di Flannery O’Connor affonda le sue radici in un catto- licesimo talmente ustionante, personale e radicale, che non stupisce il fatto che possa scatenare pregiudizi e atteggiamenti censori. Ma questa scrittura non prende di mira solamente quel buon senso vagamente laico, razionale e illuministico dell’ateo e dell’agnostico. Intende provocare — con ironia e sarcasmo — anche, e soprattutto, il lettore benpensante e ri- spettabile, espressione di un cattolicesimo convenzionale, spesse volte ipocrita e bigotto. Uno stile chiaro, veloce, traccia i confini di un territorio estremo dove muovono personaggi eccentrici e strampalati, ma inflessibili cercatori di assoluto. Anime pervicacemente chiuse in se stesse, fino a quando un fatto violento e imprevi- sto sopravviene a scardinarne convinzioni e chiusure. L’aper- tura raggiunta costa loro lacrime e sangue, ma è questa l’unica via possibile per raggiungere la prossimità con il mistero. Un mistero che, secondo Flannery O’Connor, è il riconoscimento intuitivo di un Dio che trascende e salva l’uomo, sanando la sua incompiutezza e fragilità, sinonimo di umanità. Leggere questa narrativa vuol dire quindi frequentare una zona spirituale faticosa. Vuol dire guardare la realtà alla luce di un realismo cristiano a volte sconcertante, che fa del limite dell’uomo il suo punto di forza. Uno sguardo tanto più im- pietoso, quanto più rimandante a una pietà più grande e in- condizionata. Maddalena, manager spirituale La santa del mese raccontata da Gianpaolo Romanato L a Rivoluzione francese compor- tò un mutamento radicale nel ruolo della donna all’interno della Chiesa. Nel mondo preri- voluzionario esisteva una sola figura di donna consacrata: la monaca, che rinunciava al mondo e si isolava tra le mura del monastero. Pensiamo alla mona- ca di Monza di Alessandro Manzoni, che non è soltanto una grande creazione lette- raria, ma un esempio concreto della con- dizione giuridica femminile del tempo. In- vece, il mondo postrivoluzionario, cancel- lando molti monasteri, sopprimendo il va- lore pubblico dei voti e riportando le reli- giose dentro il diritto comune, pose le re- ligiose stesse davanti alla necessità di ri- pensare la loro funzione in termini non di isolamento bensì di utilità sociale. Nacque da tale ripensamento quella fi- gura nuova, prima inesistente, che è la suora, cioè la donna consacrata che non si astrae dal mondo ma vi si immerge, so- prattutto dove il bisogno è più acuto: asi- li, scuole, ospedali, carceri, disabilità, mar- ginalità, missioni nei Paesi lontani. La Chiesa cessò di essere una comoda nicchia sociale e divenne strumento di elevazione interiore al servizio dei più umili. All’origine di questo cambiamento tro- viamo un’aristocratica di ceppo antico, di- scendente di una delle più gloriose casate nobiliari italiane: Maddalena di Canossa. Era nata nel 1774 a Verona, una città inve- stita in pieno dagli eventi rivoluzionari, per qualche tempo divisa in due: a destra dell’Adige si insediarono i francesi, a sini- stra gli austriaci. Verona divenne così, per riprendere un’acuta osservazione di Cor- nelio Fabro, il punto geografico di mag- gior frizione fra il vecchio e il nuovo. Forse è per questo motivo che proprio Verona vide nascere in gran copia, nel cor- so dell’Ottocento, in particolare nella pri- ma metà del secolo, nuove congregazioni religiose di vita attiva e non contemplati- va: dagli stimmatini (ai quali apparteneva Fabro) ai mazziani, dai comboniani alle sorelle della Misericordia di Carlo Steeb, fino all’istituto di Antonio Provolo, dedito al recupero dei sordomuti. Fra bisogni so- ciali sempre più impellenti e trapassi di ricchezze molto più rapidi che nel passato, a Verona furono probabilmente più fre- quenti che altrove le crisi di coscienza che sconvolsero la vita delle persone e il loro modo di rapportarsi con Dio. La marchesa Maddalena di Canossa fu una di queste. Tentò la strada della vita claustrale fra le carmelitane, ma la sua vo- cazione era di cercare Dio nel prossimo, non nella solitudine. Come tutti i creatori di grandi iniziative caritative, non ebbe vi- ta facile né in famiglia né nella Chiesa ve- ronese. Tuttavia la sua tenacia fu più forte delle resistenze e tra il 1808 e la sua mor- te, che avvenne nel 1835, nacquero e fiori- rono le sue case, a partire dalla prima, av- viata nel quartiere di San Zeno, il più po- vero e derelitto della città. In meno di trent’anni le Figlie della Ca- rità Serve dei Poveri — questa la denomi- nazione canonica delle suore canossiane — conobbero una rapida diffusione che le portò in varie città del Veneto e della Lombardia, avendo ottenuto in pochi anni le approvazioni civili e religiose, fino al ri- conoscimento pontificio, che giunse nel 1828. Poi, dalla metà del secolo in poi, la diffusione anche all’estero, che le ha rese, oggi, una sorta di multinazionale della ca- rità presente in tutti i cinque continenti. All’origine di questa crescita straordina- ria, che coinvolse umili ragazze del popo- lo ma anche donne della migliore società del tempo — la sorella di Antonio Rosmi- ni, Margherita, entrò nell'Istituto canossia- no e fondò nel 1828 la casa di Trento — ci fu sicuramente l’ascendente spirituale di Maddalena, ma ci fu anche un’attitudine al comando, una managerialità, diremmo oggi, che doveva far parte da sempre del genio della famiglia. Questa era giunta in riva all’Adige nel Quattrocento e nel secolo seguente si sta- bilì nella dimora — appunto Palazzo Ca- nossa, progettato da Sanmicheli e affresca- to da Tiepolo (oggi questi dipinti sono andati perduti) — che divenne l’edificio di maggior pregio della città. Nel 1822 fu questo palazzo che ospitò i rappresentanti delle grandi Potenze riuniti nel Congresso di Verona, convocato per rimettere ordine nel continente. E due nipoti di Maddale- na dominarono la città per buona parte dell’Ottocento: il cardinale Luigi ne fu ve- scovo per quarant’anni, mentre il marche- se Ottavio fu a capo del Comune sotto gli austriaci, rimanendo poi uno dei maggio- renti cittadini. Da questa famiglia potente, abituata a primeggiare, con influenze e relazioni estese dovunque, Maddalena — sua mam- ma era una nobildonna ungherese — rice- vette non solo un’educazione raffinata, ma anche la capacità di concepire e gestire imprese di successo. A tutto questo lei ag- giunse il suo personale carisma: piegare una grande fortuna terrena, ponendola al servizio non della gloria mondana ma di una gigantesca opera di carità. Gianpaolo Romanato (1947) insegna storia contemporanea e storia della Chiesa moderna e contemporanea all’università di Padova. Membro del Pontificio Comitato di Studi Storici, ha scritto tra l’altro: Pio X . La vita di Papa Sarto (1992); L’Africa nera fra Cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele Comboni (2002); L’Italia della vergogna nelle cronache di Adolfo Rossi (2010); Giacomo Matteotti. Un italiano diverso (2011); Pio X . Alle origini del cattolicesimo contemporaneo , di uscita imminente. Prima della Rivoluzione francese esisteva una sola figura di donna consacrata, cioè la monaca Poi cambia tutto e nasce la suora Acutissima e autoironica, per via delle stampelle si definiva «una struttura ad archi rampanti» Lascia pochi ma folgoranti scritti che affondano le radici in un cattolicesimo ustionante e radicale

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