donne chiesa mondo - n. 15 - agosto-settembre 2013

L’OSSERVATORE ROMANO agosto-settembre 2013 numero 15 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa m ndo La violenza sulle donne Due quadri. Il primo è Aiace e Cassandra (1886) di Joseph Solomon: lui così scuro, forte, terreno, tutto muscolo e pugno; lei, di un candore abbagliante, caricata sulla spalla del predatore, colta in un movimento che sembra di danza. Aiace ha un volto, nel quadro; quello di Cassandra nemmeno si vede. La seconda opera, invece, è La ninfa Corisca e il satiro (1635- 1640) di Artemisia Gentileschi: qui il centro è lei, la vittima; sebbene molestata e rincorsa, la giovane viene ritratta in piedi mentre fugge, decisa e combattiva in ciò che non vuole. Ecco come cambia la violenza sulle donne — tema di questo numero — quando a raccontarla e commentarla sono le donne stesse. Abbiamo qui tentato di raccontare, con voce di donne, la violenza sulle donne nelle sue sfaccettature storiche, attuali, religiose, domestiche e belliche. Se c’è un colore per la violenza, questo è il rosso. Eppure nessuno come le donne e quanto le donne sa che il rosso non è solo sinonimo di violenza, ferita, minaccia, marchio o morte. Il rosso è anche l’allegria contagiosa, è il fuoco che scalda, seduce e cuoce, è la vita che si ripropone. Che dà, a noi donne, la forza travolgente dell’amore e della creazione. Che la vittima de La violenza di Isabella Ducrot si possa alzare; che non sia mai più costretta a ritrovarsi accucciata nel tentativo di difendersi. Che, soprattutto, possa portare il suo colore con gioia e fierezza. Proprio per questo vogliamo fare nostra la proposta presentata da William Hague, ministro degli Esteri britannico, che ha voluto tra le priorità della politica del suo Paese la lotta contro le violenze sessuali durante i conflitti. Un impegno che ha portato gli Stati membri del G 8 a votare, nell’aprile scorso, una dichiarazione. ( g.g. ) Uscire dal silenzio Intervista a Pauline Aweto che da anni studia e denuncia lo stupro usato come arma di guerra nel continente africano di A LICIA L OPES A RAUJO Quest’anno ricorre il cinquantenario della creazione dell’Unione africana — massima istituzione panafricana e unica piattaforma intergovernativa continentale — fondata il 25 maggio 1963 con il nome di Organizza- zione per l’unità africana. Notevoli pro- gressi sono stati conseguiti in Africa, ma quanto per la condizione femminile anco- ra molto resta da fare. Tutt’oggi le donne africane sono chiamate a combattere con- tro un destino apparentemente ineluttabi- le, che si ostina a considerarle come parti deboli di una società di cui, paradossal- mente, sono invece i pilastri fondanti. So- prattutto non si può parlare di un possibi- le rinascimento africano, senza affrontare il flagello della violenza contro le donne sia durante i conflitti sia in tempo di pace, che spesso equivale all’intermezzo fra una guerra e l’altra. La più ignobile tra le vio- lenze contro le donne africane è lo stupro come strumento di guerra a cui sempre più spesso si ricorre, poiché assicura l’im- punità dei responsabili. In effetti la vio- lenza sessuale si sta legittimando, accredi- tandosi come nuova arma, e nessuna mes- sa al bando potrà mai impedire di ricor- rervi, se non quella di una rivoluzione del- le coscienze. Questo è il tema studiato da una donna africana della diaspora, Pauline Aweto, nel libro Wartime Rape. African Va- lues at Crossroads (The Ambassador Publi- cations, 2010), la cui edizione italiana è stata pubblicata dall’Harmattan nel 2012 con il titolo Lo stupro come arma di guerra in Africa . Cosa ha motivato la sua ricerca, portandola a definire lo stupro in una prospettiva specifi- camente africana, come arma in tempo di pa- ce e di guerra? Due ragioni principali: la prima riguar- da la mia vicenda personale, in quanto in famiglia non ero prevista (attendevano un maschio). A questo si aggiunge l’esperien- za professionale che maturai presso l’Or- ganizzazione internazionale per le migra- zioni (Oim), che mi ha segnata profonda- mente, spingendomi a riflettere sulla con- dizione femminile nei Paesi in via di svi- luppo e a impegnarmi per la causa delle donne nelle aree di crisi. Fu però il dram- matico episodio dello stupro di massa contro tante donne guineane dello stadio di Conakry — manifestazione dell’irrazio- nalità e malvagità della mente umana — cui ha fatto seguito la richiesta dell’Onu di lanciare un’inchiesta sullo stupro come arma di guerra in Africa, che mi ha porta- ta ad affrontare il discorso più ampio del- lo stupro come arma anche in tempo di pace. [Il 28 settembre 2009 nello stadio di Conakry la giunta militare golpista gui- neana si rese responsabile della morte di centocinquanta oppositori; delle dozzine di donne che furono ferocemente violenta- te in maniera premeditata, molte morirono per le infezioni provocate dalle ferite, a causa dell’estrema brutalità loro inferta]. Pertanto lo stupro quale arma in tempo di pace è un termine che adopero per indica- re qualsiasi forma di violenza perpetrata ai danni delle donne nella vita quotidiana spesso attraverso la strumentalizzazione della cultura, determinando dunque l’alie- nazione e l’allontanamento delle donne dai processi di autorealizzazione. Le don- ne subiscono infatti varie forme di discri- minazione anche in ambito educativo, nonché violenza psicologica, violenza do- mestica in tutte le sue forme e lo stupro, incluso quello coniugale, cui di norma se- gue lo stigma e la colpevolizzazione delle vittime. Ed è chiaro che là dove la vita è particolarmente difficile per le donne, co- me spesso accade in Africa, le violenze si acuiscono in tempo di guerra. Pur essendo la violenza contro le donne un fenomeno universale, in cosa si differenzia la realtà africana? Per me sono specifici dell’esperienza africana sei elementi chiave: la natura pubblica dello stupro, il livello di brutali- tà, il simbolo del machete come forma di primitivismo moderno, la trasmissione in- tenzionale dell’Aids, lo stupro delle donne in gravidanza e l’omicidio che segue alla violenza carnale. Quali sono i casi in cui la violenza è tollera- ta e quando vi è impunità per questi crimini in Africa? La violenza domestica contro le donne è tollerata e resta impunita, perché tali atti vengono giustificati facendo ricorso al proprio retaggio storico e culturale. Un esempio eclatante è costituito dal cosid- detto stupro coniugale, cioè quello che av- viene nel matrimonio. In alcuni Paesi dell’Africa occidentale questo non viene riconosciuto come crimine, perché il con- senso della donna è considerato irrilevan- te. Né si può tralasciare l’istituzione della dote, obbligatoria in alcune società, il cui pagamento legittima il concetto di pro- prietà del maschio sulla femmina e i suoi soprusi. Gli sforzi per arginare l’impunità dei colpevoli finora sembrano essersi con- centrati su noti criminali, come alcuni capi di Stato africani, dimenticando il nemico che alberga dentro le mura domestiche. Allora mi domando: come mai il crimine è punito esclusivamente quando avviene in tempo di guerra, mentre è tollerato nella normalità di tutti i giorni? Quali sono le sue considerazioni in merito al- la pratica mortificante delle mutilazioni geni- tali femminili (mgf)? A ben vedere, nonostante le apparenti ragioni religiose, sociali e soprattutto cul- turali che favoriscono tale pratica, alla ba- se c’è una forte contraddizione, perché si pretende di dare identità, ma al costo di togliere dignità. Malgrado le mgf siano in- ternazionalmente riconosciute come viola- zioni dei diritti umani a mio parere non sono ancora state debellate, anche a causa del coinvolgimento di quei medici che, lu- crandovi, modernizzano questa pratica, ri- ducendo il rischio d’infezioni e di compli- cazioni. Secondo l’Organizzazione mon- diale della sanità la sua rapida eliminazio- ne dipenderebbe dalle comunità praticanti nella clandestinità, che, per ironia della sorte, sono gestite in gran parte proprio da donne. Chi è il vero nemico delle donne africane? Paradossalmente pro- prio le donne, in quanto custodi delle tradizioni, di cui sono le prime vit- time inconsapevoli. Ad esempio la pratica delle mgf è completamente gestita dalle donne, e anche nel mondo della tratta non man- cano figure femminili, che ricoprono ruoli purtroppo di rilievo nell’umiliare le altre donne. È una guerra delle donne contro se stesse. Non si rischia forse di colpevolizzare per l’en- nesima volta le donne? La mia è un’autocritica in quanto don- na africana. Senz’altro il problema all’ori- gine resta il forte maschilismo, troppo dif- fuso in Africa come altrove. Lo sviluppo economico del continente africano andreb- be accompagnato dall’emancipazione da una lunga catena di tradizioni antifemmi- nili. L’educazione è l’unico strumento effi- cace e indispensabile per l’emancipazione, l’autodeterminazione e l’ empowerment delle donne. Non basta che le donne sappiano leggere, scrivere e far di conto: occorre puntare sulla formazione superiore, apren- do le porte delle università. Si tratta di ri- scoprire le potenzialità finora soffocate, ri- conquistando con dignità un ruolo nella società. Lei sottolinea il carattere di violenza perma- nente sulle donne, tollerato da molte tradizio- ni: esiste un legame tra cultura e violenza? A mio avviso non c’è differenza tra l’usanza delle mgf e le mutilazioni vere e proprie che hanno luogo in situazioni di guerra. Solo in casi circostanziati si può parlare di violenza culturalmente fondata, ossia quando la cultura costituisce la base sulla quale si costruisce la sovrastruttura della violenza contro le donne, fornendo alibi, giustificazioni e legittimazioni. Quale contributo può venire dai media? I media internazionali non sono mai stati leali nei confronti dell’Africa, perché sono mossi solo dal sensazionalismo, trala- sciando l’approfondimento che richiede continuità. Purtroppo le guerre di tutti i giorni che le donne affrontano ormai non fanno più notizia. I media potrebbero svolgere un lavoro responsabile se tenesse- ro puntati i riflettori permanentemente su questa realtà, quella del grido del silenzio degli innocenti. «A Maria, Madre di Dio, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime»: perché questa dedica nel suo libro? L’ho iniziato a scrivere il I ° gennaio, proprio nel giorno della festa che la Chie- sa dedica alla Madre di Dio e un anno dopo ho presentato il mio libro a Warri, in Nigeria, proprio in una chiesa dedicata alla Madre del Redentore. Con mia gran- de soddisfazione ho potuto constatare che quell’iniziativa ha portato la parrocchia lo- cale a organizzare un gruppo di sostegno a favore delle donne vittime di violenza così da incoraggiarle a uscire dal silenzio e a non sentirsi più sole. Tra i caratteri specifici della violenza in Africa la sua natura pubblica la trasmissione intenzionale dell’Aids lo stupro delle donne incinte e l’omicidio che segue la violenza carnale Malgrado le mutilazioni genitali femminili siano ritenute una violazione dei diritti umani non sono state ancora debellate Anche a causa dei medici che lucrano su di esse Pauline Aweto, di origine nigeriana, si è laureata in filosofia presso la Pontificia università salesiana a Roma. Ha compiuto ricerche in ambito filosofico sulle politiche dello sviluppo. Ha lavorato come consulente presso l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Si è occupata dei rimpatri volontari delle vittime della tratta a fini sessuali. In Italia, ha collaborato con l’università di Roma Tre, svolgendo attività didattica e di ricerca su temi legati alle culture e alle religioni africane. Insegna al Bexley College di Londra. donne chiesa mondo Mural nel quartiere romano di San Lorenzo a ricordo delle donne italiane assassinate nel 2012 (foto Serena Sillitto) Isabella Ducrot «La violenza» (2013)

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