donne chiesa mondo - n. 8 - gennaio 2013

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne La vita monastica secondo mère Geneviève Acquarelli dal chiostro di P AOLA M ARTINI M arcelle Gallois nasce a Parigi nel 1888 da una famiglia di scarse simpatie religiose; dopo aver frequentato l’Eco- le de Beaux-Arts di Montpellier e, successivamente, di Parigi, è notata dall’illustratore e caricaturista francese Adolphe Willette che la spinge a cimentarsi nel disegno satirico, bloccan- do, con un tratto ironico, ma non distaccato, passanti e scene di strada. A seguito di una profonda crisi esistenziale nel settembre 1917, Marcelle entra nel monastero benedettino di Saint Louis du Temple, a Parigi, prendendo il nome di mère Geneviève. Per di- versi anni, all’interno della clausura, la sua creatività viene forte- mente limitata: la giovane monaca, fedele al voto di obbedienza, è destinata ad altre attività. Nel 1931, alcuni suoi schizzi realizzati per una vendita benefica vengono in mano a Paul Alexan- dre, già amico e scoprito- re del talento di Modi- gliani, che rimane colpito dall’emotività e dalla fre- schezza dei disegni. A lui va il merito di averne in- tuito e valorizzato le grandi possibilità artisti- che, sostenendo e inco- raggiando il suo difficile cammino di artista all’in- terno della clausura mo- nastica. Artista prolifica, mère Geneviève si è espressa attraverso mezzi differen- ti, passando dalla pittura a olio al ricamo, all’inci- sione, alla realizzazione di vetrate. Il suo contri- buto più originale è sicu- ramente costituito dai nu- merosi fogli ad acquerello con cui ferma — grazie a un tratto originale e a una singolare immedia- tezza — la quotidianità immutabile della vita mo- nastica. Prima ancora della sua morte nel 1967, per il tramite di Paul Alexandre, l’opera di mère Geneviève già suscita l’interesse dei critici contemporanei tra cui André Malraux. Adolphe Willette paragona il suo stile a Toulou- se-Lautrec nella capacità di cogliere, con un tratto veloce, il pro- filo grottesco e talvolta caricaturale dei soggetti ritratti. Nel 1951 prende avvio, grazie a François Mauriac, un grande dibattito sull’attualità e il significato dell’arte sacra, e l’opera di mère Ge- neviève viene paragonata a Georges Rouault nel suo ruolo di rin- novamento dell’arte sacra. Durante gli ultimi anni della sua vita, a partire dal 1950, mère Geneviève si dedica alla realizzazione di due grandi cicli di inci- sioni, aventi come tema la Passione di Cristo e La vie du petit saint Placide , tratto dall’illustrazione del vangelo di Luca. Infine, il ciclo di vetrate per la chiesa abbaziale di Limon-Vauhallan e per la chiesa di Petit-Appeville, a cui si dedicò dal 1955 al 1962, anno della sua morte. Malgrado la vita monastica le impedì il contatto diretto con gli artisti contemporanei, mère Geneviève rimase sempre al passo con le nascenti correnti artistiche e sebbene trattasse tematiche differenti, nello stile aderì appieno alla nascita di quella che di lì a poco verrà definita grafica pubblicitaria. Uso di colori primari, tratto secco, partizione geometrica dell’area di lavoro, riduzione dell’anatomia a simbolo puro del gesto e utilizzo delle scritte con caratteri privi di grazie, queste le grandi innovazioni che l’artista apporta alla sua produzione. Ma contestualizzandola nel suo tempo vediamo che sono gli stessi linguaggi assunti dall’espres- sionismo scandinavo, dal De stile, dalla Bauhaus e dalla produ- zione pittorica degli artisti aderenti alla Secessione viennese. Al centro dell’attenzione di mère Geneviève c’è la vita mona- stica in tutti i suoi aspetti, presentata in circa 150 acquarelli che costituiscono la parte più cospicua e caratterizzante della sua produzione artistica dove l’artista sofferma il suo sguardo sulla scansione del tempo per bloccare, dal mattutino a compieta, tutti i momenti della vita monastica. Successivamente il suo sguardo abbandona gli spazi della dimensione religiosa per concentrarsi su les bisognes basses et abjectes della cucina, della lavanderia, e su ogni attività umile e manuale. Su semplici fogli (generalmente 213 x 278 mm) preparati a col- la e gesso, l’artista lavora con un tratto incisivo e forte, senza ri- pensamenti. Pochi tratti per delineare, con acutezza psicologica, le consorelle, utilizzando una gamma sorvegliatissima di tonalità, dai bruni ai blu intensi. Se la scena occupa una parte importante del foglio, è il testo, che la accompagna, a chiarirne il significato più intimo, prendendo spunto dai Salmi e dalle opere di Paul Claudel o Charles Péguy con un rapporto tra immagine e scrittu- ra estremamente innovativo e graficamente moderno. Senso del colore e del gesto artistico, humour e profondo spi- rito religioso promanano da queste opere, alle quali sono già sta- te dedicate diverse iniziative espositive, tra cui, più recenti, le mostre tenutesi presso il Musée des Beaux-Arts de Rouen (14 maggio - 23 agosto 2004) e il Musée National de Port Royal des Champs (10 aprile - 7 luglio 2008). Martina, testimone nell’accoglienza La santa del mese raccontata da Francesca Romana de’ Angelis «V oglio un gennaio col sole d’aprile» cantava nella Filastrocca di Ca- podanno Gianni Rodari, straordinario narratore di storie per i «grandi di domani». E in- vece neve, ghiaccio, luce corta e notti lun- ghe, perché a gennaio siamo nel pieno dell’inverno. Una leggenda gentile accom- pagna gli ultimi tre giorni di questo mese che la tradizione vuole i più freddi dell’anno. Per sfuggire il gelo una merla con i suoi piccoli trovò riparo in un comi- gnolo e quando a febbraio ne uscì, spe- rando che il peggio fosse passato, le sue piume bianche si erano fatte scure per la fuliggine. Da allora i merli divennero di un nero lucente, anche se conservarono l’arancio del becco e il canto melodioso e flautato. A riscaldare il cuore nei “giorni della merla” è santa Martina, celebrata il 30 gennaio. Di lei, come del resto della gran parte dei martiri della cristianità delle ori- gini, sappiamo pochissimo perché spesso le uniche fonti che restano sono le Passio- nes , scritti agiografici che avvolgendo que- ste figure nella leggenda sfumano la verità storica. A differenza di altre martiri più celebri Martina non ha avuto il dono di una devozione costante, capace di conser- varne il ricordo nel tempo. La sua è una storia affascinante fatta di oblio e ritorni di memoria finché l’entusiasmo di un Pontefice e l’emozione di un grande arti- sta le restituirono voce, gesti e sentimenti. Siamo nella prima metà del III secolo quando la giovanissima Martina, nata in una nobile famiglia romana, rimane orfana di entrambi i genitori. Sola, donna e cri- stiana: una condizione di fragilità estrema che Martina sa trasformare in una forza inesauribile. Il suo primo atto, rinunciare a tutte le sue ricchezze per donarle ai bi- sognosi, precede di secoli la povertà in le- tizia di Francesco. Martina si fa testimone dell’accoglienza dedicando la vita ai pove- ri e ai malati e interpretando così il ruolo attivo che le donne avevano nelle prime comunità cristiane, un modello femminile che attingeva direttamente alla parola evangelica, dove le donne sanno accoglie- re e comprendere Gesù. Regnava allora Alessandro Severo ma la tolleranza di que- sto imperatore venuto dalla lontana Feni- cia, che aveva incluso Cristo nel suo lara- rio, non basta a proteggere Martina dalla persecuzione di Ulpiano, celebre giure- consulto e potente prefetto del Pretorio. Arrestata e sottoposta a crudeli torture viene decapitata nell’anno 228. Da questo momento su Martina scende il silenzio. Dopo quattro secoli dal suo martirio Onorio I le dedica una piccola chiesa ai piedi del Campidoglio. Nei secoli succes- sivi, mentre la chiesa viene adibita a usi civili, si perde nuovamente la memoria di questa martire delle origini. Nel 1256, sot- to il pontificato di Alessandro IV , nel corso dei lavori di ripristino della chiesa, vengo- no alla luce le reliquie di Martina e di al- tri tre martiri, Concordio, Epifanio e un terzo rimasto senza nome. Restaurata e ri- consacrata, la chiesa va incontro a un nuo- vo destino di abbandono e di Martina si perde un’altra volta il ricordo. Nel 1588 Papa Sisto V concede la chiesa di Santa Martina all’Università delle Arti della pit- tura, della scultura e del disegno (l’attuale Accademia Nazionale di San Luca) in so- stituzione della chiesa all’Esquilino dedi- cata a Luca, il santo evangelista protettore dei pittori, che era stata demolita. I lavori di ricostruzione della chiesa, adesso dedi- cata ai due santi, vengono avviati solo nel 1634 per iniziativa di Pietro da Cortona, il pittore architetto allora protagonista della scena artistica romana. La riscoperta delle reliquie di Martina durante gli scavi preli- minari suscita l’entusiasmo di Urbano VIII che, recatosi subito a rendere omaggio alla martire, decide di finanziare l’opera insie- me a suo nipote il cardinale Francesco Barberini, fissa al 30 gennaio la celebra- zione di Martina e la eleva a compatrona di Roma. Quanto a Pietro da Cortona, l’emozio- ne intensa che prova al ritrovamento delle reliquie modifica le sue prospettive e il progetto architettonico diventa una testi- monianza di commossa devozione. Nella realizzazione della chiesa mette tutto: ta- lento, passione, impegno, denari e il risul- tato è un gioiello del barocco romano. Nel cuore del Foro romano, accanto ai marmi istoriati dell’arco di Settimio Severo e all’ umbilicus urbis , cioè il centro ideale del- la città di Roma, la chiesa dei Santi Luca e Martina che si innalza tra tanto cielo è un capolavoro di armonia, di morbidezza e di luce, con la curvatura dolce della fac- ciata, la preziosità della cupola, la sapien- te successione di rientranze e di aggetti, la candidezza degli stucchi ornatissimi e del- la statua di Martina giacente. Nella cripta, dove sono conservate le reliquie della san- ta e dei suoi compagni di martirio, bron- zo, marmi policromi, alabastro e il buio, alleggerito dal filo di luce che filtra da una grata circolare posta sul soffitto in corrispondenza della cupola. Forse se volessimo dare un volto a Mar- tina dovremmo immaginarla come una delle sante vergini nel corteo di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, figuri- ne immateriali e fluttuanti che con le co- rone del martirio e il velo bianco simbolo di verginità avanzano guardando verso l’infinito e il divino. Martina invece ha no la morte violenta della fanciulla cristia- na da quella del moderno apostolo della non violenza. Il mondo è migliorato, ma non abbastanza. E allora nel giorno dedi- cato a Martina, in questo scorcio del mese che apre le porte al nuovo anno, forse il modo migliore di ricordarla è ripetersi le parole di sant’Agostino: «La speranza ha due figli bellissimi: lo sdegno e il corag- gio; il primo di fronte a come vanno le co- se, il secondo per cambiarle». Francesca Romana de’ Angelis è nata a Roma dove vive e lavora. Dopo la laurea in Lettere ha insegnato in un liceo classico. Studiosa di Letteratura italiana del Cinquecento, ha pubblicato saggi ed edizioni di testi. Per molti anni ha collaborato a programmi culturali e scritto sceneggiature per la Rai. Tra le sue opere La divina Isabella (Sansoni, 1991), Solo per vedere il mare (Edizioni Studium, 2005, Premio Massarosa), Storie del Premio Viareggio insieme a Gabriella Sobrino (Pagliai Editore, 2008), Con amorosa voce (Polistampa, 2008). El Greco, «Santa Martina» (1597-1599, particolare) per sempre le forme piene, i colori lucenti, la bellezza tersa e mite che Pietro da Cortona, il pittore che aveva «il fuoco nel pennello», le donò nelle sue tele. Davanti al Matrimonio mistico di Santa Marti- na, un piccolo prezioso olio su rame che il cor- tonese realizzò come ex voto dedicato a Fi- lippo Neri, l’altro san- to di cui era devoto, proviamo la stessa av- volgente sensazione di serenità di quando en- triamo nella chiesa da lui realizzata. La dram- maticità degli uncini che la santa tiene nella mano sinistra, simbolo del suo martirio, cede di fronte allo splendo- re del giglio che occu- pa il centro della tela. Perché l’immagine rac- conta, più che come è uscita dal mondo, co- me Martina è stata nel mondo. Il 30 gennaio 1948 cadeva colpito a morte Mahatma Gandhi. Di- ciassette secoli separa-

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