Critica Sociale - anno XL - n. 22 - 15 novembre 1948

CRITICA SOCIALE 511 Confindustria, la Confida, l'I.R.I. e così via, non sono che diversi strumenti. Questa politica non ha neppure, a· loro giudizio, per soggetto il capitalismo italiano, ma è subordina– ta, «asservita» nientemeno che ai « trusts » dell'imperialismo americano. * * * Non staremo qui a illustrare le gravi consegL1enzeimplicite in una simile impostazione: essendo chiaro il fondo verso il quale tutti· coloro che, per ignoranza o dabbenaggine, fo·s– sero indotti ad accettarla, finirebbero fatalmente per pre– cipitare. Ciò che occorre anzitutto è di porre un argine ini– ziale alla minaccia ideologica che si nasconde dietro· il mas– simalismo di certi schematismi. La realtà è che le forze eco– nomiche nella realtà italiana sono tutt'altro che semplicisti– camente-organizzate in due blocchi (internazionali per giunta) opposti. Esse invece costituiscono un insieme complicatissimo, in stadio di continua laboriosa evoluzione. E' vero ancora che interni profondi contrasti le dividono, come è vero infine che, piaccia o non piaccia, la democrazia cristiana rappresenta un serio tentativo di comporre in un tutto organico, severa– mente dominato, qL1esteforze così disparate. Il Governo ha bensì dovuto cedere a certe esigenze della classe imprenditoria!~ industriale. Ma tre anni di politica tri– partitica hanno dimo91:rato anche ai ciechi che - fal.Jito il tentativo Morandi clidirigere l'industria dagli uffici di un Mi– nistero senza l'ausilio dei sindacati e con la direzione dei Consigli di Gestione, situata in Via delle Botteghe Oscure, - a guariti non intendes-sero fare come il predetto Ministro, e cioè trasferirsi definitivamente in Via delle Botteghe O– scure, non restava altra via aperta che restituire ancora una volta una certa libertà d'azione alla classe capitalistica. Ma purtroppo, o per fortuna, la politica economica di questo Governo non può essere che una politica di- rico– struzione. E' lo stesso tema che si è presentato ai Governi triparti ti. E una politica di ricostruzione non può essere che una politica produttivistica. Orbene, se per attuare una politica produttivistica la classe lavoratrice, ,quand'anche (come tu da noi all'indomani della Jiberaziorie~ abbia la ini– ziativa nelle sue mani, ha bisogno di obbligare o di indurre la classe imprenditoriale ad una qualche collaborazione, è certo che anche la ·classe imprenditoriale - e a maggior ragione - ha bisogno dell~ collaborazione della classe lavo– ratrice per attuare la stessa politica. Noi sappiamo che i comunisti hanno negato ·questa collaborazione e che essi accusano di capitolazione, di opportunismo e di tradimento coloro i quali sono invece disposti a concederla. Orbene, il compito dei sociafo;tì nei sindacati è quello di organizzare l'attuale necessaria collaborazione con l'iniziativa borghese, imponendo un prezzo degno del contributo che la classe lavoratrice reca all'opera di ricostruzione e salvaguardando le premesse, '1e condizioni, di un futuro rovesciamento della situazione. ,Ciò che conta è che questa collaborazione sia una collaborazione « discriminata»: capace cioè di distingue– re gli atti politici ed economici ispirati e indirizzati all'inte– resse collettivo, alla ricostruzione, da quelli intesi a offrire profitto e giovamento alla classe capitalistica. Il problema, il compito della ricostruzione non è, in sè, nè borghese nè proletario~ è un compito che appartiene alla collettività dei cittadini. Oggi esso si svolge su di un piano supernazionale: e per questo, a maggior ragione, sfugge, come compito « in sè » alla classificazione cla-ssista. Indubbiamente la classe capitalistica punta ad impostare la ricostruzione nel suo interesse e per la conservazione del– le su~ posizioni per un più largo avvenire: fucca ai socia– listi, dopo il follimento comunista, porre la candidatura della classe lavoratrice alla direzione dell'opera di ricostru– zione nazionale. A loro tale compito spetta in misura tanto maggiore in quanto dev~ essere assolto· su un terreno che supera gli angusti limiti nazionali per abbracciare la visione internazionale propria del socialismo e di tutta la sua tra– dizione migliore. Qual'è dunque il prezzo della collaborazione della classe lavoratrice alla ricostruzione che si svolge oggi sotto la prevalente direttiva della borghesia? Questo prezzo è costi– tuito dagli stessi obiettivi che la classe lavoratrice aveva davanti a sè nel 1945. Il compito dei sindacati è ancora quello: cooperare (ieri era quello di dirigere) alla realizza– zione di una politica produttivistica. Controllo della pro<lu- BibliotecaGino Bianco zione, controllo dei prezzi, controllo dei costi, controllo dei profitti. Questa è oggi ancora la funzione dei sindacati sul piano della politica economica. La politica economica del sindacato è oggi ancora, dun– que, non una mera politica di aumenti salariali: cioè una politica di classe giustificabile, ed anzi naturale, nei periodi di prosperità economica; ma una politica di aumento della produzione, di riduzione dei costi, di equilibrio dei prezzi e cli costrizione dei profitti. La politica del controllo - che è poi una politica di collaborazione « discriminata :o>, ma nel– lo stesso tempo cli opposizione «discriminata» (e qui- si potrebbe dimostrare che tutta la sostanziale differenza fra i punti di vista delle varie frazioni socialiste sta nel diverso .grado di simpatia o di indulgenza verso l'una o verso l'altra espressione), è la politica permanente che un sindacato di classe deve attuare sia che esso voglia - come è avvenuto in Inghilterra in questi ultimi anni - allinearsi col governo nello sforzo comune, sia che esso intenda sbarrare la via alla concentrazione del capitale, all'accumulazione dei pro– fitti e all'approfondimento delle divisioni di classe. Ma, accanto a questo. aspetto permanente della politica economica dei sindacati, un altro ve n'è che varia, non a seconda delle ideologie ma a seconda della condizione obiet– tiva delle economie in cui if sindacato opera. Questo secondo aspetto si compendia, in generale, nella politica salariale. Premesso che da un punto di vista so– cialista una politica salariale ha senso solo se si pone da un punto di vista di classe e quindi pone in sottordine l'in– teresse corporativo di questa o quella singola categoria, il sindacato che vuol aumentare il volume del fondo sa– lariale, che vuol cioè provocare un permanente sposta– mento nel rapporto fra redditi di lavoro e redditi di altra origine, non può non tenere conto del rapporto esistente fra investimento e risparmio. . In una economia caratterizzata da crisi di superprodu– zione e di sottoçonsumo, il sindacato deve articolare la su~ politica sulla hase di un programma di aumenti salariali comples-sivi, i quali, aumentando il potere d'acquisto dei più vasti strati di consumatori, traduca in elevazione del -te– nore di vita dei ceti !l)Opolari l'involuzione capitalistica che si sviluppa in senso superproduttivo. Ma in una economia che' sia, come la nostra, caratteriz– zata da una profonda carenza di disponibilità finanziarie, quindi da un deficit di investimenti; in una economia che per reggersi ha bisogno di ricorrere all'aiuto di altri paesi, una sola legge s'impone: la legge del risparmio e con– seguentemente della limitazione qualitativa e quantitativa dei consumi. Questa legge si traduce sul piano sindacale in una po– litica di stabilizzazione salariale. Ritengo che tre anni di esperienza abbiano fatto acquisire con estrema facilità da· parte di tutti i lavoratori il concetto di « salario reale :o>. La classe lavoratrice non è più oggi disposta ad agitarsi per ottenere un più alto salario nominale. In questo senso essa ha già condannato la politica degli alti salari, ancora una volta propugnata dalla maggioranza della C.G.I.L. al re– cente Consiglio nazionale. Su questa piattaforma, però, le correi:iti di minoranza devono svi·luppare un'azione più energica e consapevole. In Inghilterra si è potuto raggiun– gere il pareggio nel bilancio dello Stato e il superamento del livello produttivo prebellico grazie a questa politica sin- - dacale, 'pressochè unanimemente praticata dalle Trade– Unions. Solo una politica di stabilità salariale può ·assicurare la realizzazione di un programma di riduzione dei costi e quin– di di espansione della produzione e delle esportazioni. E a quanti propugnano la radicale trasformàzione del nostro apparato industriale che si vorrebbe giustamente ammoder– nare e razionalizzare, bisognerà ricordare sempre che un compito così gravoso e di così lunga portata è ancora una volta subordinato ad una politica di stabilità salariale. Questa politica, del resto, non è, nelle attuali condizioni dell'economia italiana, solo legata all'incremento della pro– duzione, ma è legata anche al problema della occupazione. ta conquista di alti salari in un paese dove si consuma più di quanto non si produca vuol dire restringere le di– sponibilità del fondò salariale collettivo ad un numero sem– pre più limitato di lavoratori: cioè aumentare la disoccupa-

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