Critica Sociale - Anno XXI - n. 21 - 1 novembre 1911

324 CRITICA SOCIALE del giorno da noi formulato e proposto; e i fatti lo illustreranno, chiaramente, inevitabilmente, prima e più dei lunghi discorsi. Menti lucide, animi leali, come quelli di Bissolati e di Bonomi, lo hanno certo, da gran tempo, avvertito. Il ricordo della comune battaglia, da noi alacre- mente condotta contro le impronlitudini e i semplici- smi del rivoluzionarismo verbale e dell'intransigenza ad oltranza, non solo non potrebbe cancellare, o in- durci a dissimulare, il nuovo, radicale dissenso: pensiamo che quella battaglia, nella quale la solida- rietà fu tanto piena e cordiale, abbia cooperato, an- zi, a fatalmente generarlo. Infatti, finché il pericolo maggiore della fortuna del Partito socialista e del movimento proletario italiano era in cotesto imper- versare di retorica e di impulsività pseudo-rivoluzio- naria, la necessità della difesa stringeva gomito a gomito quanti, nell'interesse dell'evoluzione sociale nella direttiva socialista, e in omaggio a un comune concetto evoluzionista e di educazione delle masse, stimavano loro compito precipuo resistere alla op- posta deleteria corrente. Ma ormai — checchè paia a taluni dei nostri in- transigenti, nella miglior buona fede — quella, per noi, é battaglia vinta, almeno nella cerchia del no- stro partito. Un provvido aiuto ci venne dall'affer- marsi del sindacalismo, che attrasse ed assorbì nu- merosi elementi, che, nel Partito socialista, vivevano comò parassiti; altro aiuto, anche maggiore, ci ven- ne dall'esperienza, che insegnò a noi ed a tutti. L'i- nutilità ed il danno delle agitazioni sterili, l'erroneità e l'inconcludenza delle formule troppo semplici, del linguaggio inutilmente aggressivo, fu chiaro, per ef- fetto di stanchezza e di insistente propaganda, a gran parte dei lavoratori e degli stessi militanti del socialismo. Dov'è più l'idolatria e il furore degli scioperi generali o anche dell'abuso degli scioperi parziali economici? Chi ode più parlare, nei giornali del Partito e nelle conferenze, del famoso sasso da lanciarsi nella macchina sociale? Dov'è più — fra i sedicenti rivoluzionarii — il disdegno delle riforme, considerate un tempo come trappola diretta a in- gannare il proletariato e a consolidare semprepiù gli ordini esistenti? Di nulla, anzi, più si offendono costoro, che del denunziarli, che altri faccia, spre- giatori e poco curanti delle riforme serie e sincere e del graduale elevamento proletario. E le furie re- pubblicane? E l'herveismo arcigno e minaccioso di un tempo? Tutti ricordi del passato, dei quali ap- pena rimane, in taluno dei più anziani, qualche strascico verbale. Tutto ciò non da oggi rileviamo; già lo notammo, a chiara voce, al Congresso di Milano. Ne è confer- ma il fatto che le antiche aspre,polemiche taciono da un pezzo: quasi ovunque — nella stessa Milano -- dove la lotta di tendenze arse più fiera — da assai tempo il lavoro in comune fu ripreso, e i vecchi con- trasti si ridussero a dissidenze accidentali, quasi a semplici nuanees di linguaggio, più che di azione. E chi non ne fosse convinto, legga, lo preghiamo, il numero dell'in soffitta, uscito dopo il Congresso : è ben questo l'organo ufficiale della « frazione rivo- luzionaria ». Legga la « Dichiarazione », tra l'altro, — due lunghe colonne — di Giovanni Lerda, ora- tore della frazione al Congresso, confermato dalla frazione direttore del periodico. E dica poi se non v'è in essa la sconfessione aperta di tutti i dogma- tismi, dell'assenza di misura, dello spirito di violen- za, che caratterizzò, così a lungo, la tendenza da noi combattuta. Appena se, in quello scritto, e in altri dello stesso foglio, vi è qualche punto seconda- rio, che potrebbe formare, per noi, oggetto di dis- senso e di discussione. E si riduce, in sostanza, a questione di un po' più o un po' meno nel valutare l'importanza di certe azioni, di certi metodi: a un più o a un meno di transigenza o di intransigenza elettorale, piuttosto amministrativa o politica (il Lerda, per es., è bloccardo nella politica comunale, più che noi non lo siamo mai stati); divergenze, que- ste, veramente di solo metodo, anzi meno ancora che di metodo: di contingente applicazione. Quel rivoluzionarismo che, anch'esso — benchè sulla sponda sinistra, anzichè sulla destra — viveva all'infuori della positiva concezione socialista e co- me parassita di essa, non ci riesce quasi più di tro- varlo. Dovremo dunque rimanere schiavi delle no- menclature vuotate di ogni contenuto, o di precon- cette e tenaci prevenzioni e ostilità personali? A preoccupazioni così vanitose e così misere sacrifi- cheremmo la fortuna del nostro Partito? Certo, giova alla stampa borghese — può sembrare che giovi anche, come effimero artificio polemico, alle schiere più destre del Partito, e alle schiere più si- nistre — far le viste di non vedere tutto questo; o, ossessionati tuttora dalle differenze e dai diverbii di un tempo, possono, taluni, realmente non vederlo ancora. Per gli uni e per gli altri, siamo noi che corriamo sul terreno rivoluzionario; non si avvedo- no che il terreno é mutato, •che gli stessi sedicenti rivoluzionarii mutarono animo e pelle; e che, da- vanti a tutti, molto mutarono le cose. Da un lato, la lotta che durammo così a lungo ha perduto — non ancora osiamo dir tutte — ma gran parte delle sue ragioni di essere; dall'altro, lo sviluppo stesso del Partito, e la lentezza e insufficienza del suo svi- luppo; le cagioni, che l'esperienza ci additò di co- testa insufficienza e lentezza; e i nuovi eventi poli- tici — dei quali fu questione al Congresso — e coi quali si dee pure contare, chi faccia, per l'appunto, della politica e non della astratta filosofia, uguale in tutti i tempi e in tutti i luoghi —; tutto questo sforzò la parte riformista a temere, oggi più di ieri, certi speciali atteggiamenti, che poterono esser buo- ni in dati momenti, che si spiegavano allora come necessaria reazione ad eccessi contrarii, ma il cui prolungarsi e perpetuarsi non potrebbe non riuscire nocivo — non diciamo nocivo in se stesso, in vi- sta di determinati fini immediati, sulla cui valuta- zione è sempre possibile discutere — ma nocivo alla fisionomia e alle intime energie di un Partito, che vuol conservarsi proletario e di classe, di fronte a fini più remoti, ma più essenziali. O quando mai fu canone del nostro riformismo il ministeriabili- smo attuale, la cui possibilità fu accennata solo di recente? E quante volte — pur combattendo certe rigidezze di intransigenze inopportune — non ci accadde d'avvertire che la transigenza e collabora- zione erano pur sempre episodii della lotta di clas- se, e che, probabilmente, a dispetto del misoneismo che è di tutti i partiti, ci sarebbe domani toccato di capovolgere il discorso, propugnando intransigenza quando altri — troppo tardi convertito e convinto — si abbandonerebbe senza freno a mescolanze fu- neste? *** Noi pensiamo dunque — coerenti a quello che fu sempre il nostro « riformismo » (e questo nome non a torto ripudiavamo da principio, quando era improprio alla cosa che voleva significare, e più ora vorremmo ripudiarlo, dacchè comincia, per ta- luni, ad esserle appropriato)— noi pensiamo che — l'evoluzione interna del partito procedendo sulle di- rettive che ha preso così visibilmente e decisamente, e continuando la frazione che, con vocabolo almeno anfibologico, fa dirsi rivoluzionaria, mentre è sol- tanto intransigente, a sceverare da sè i vecchi dog- matismi e semplicismi, di dottrina, di parola, d'azio- ne —una nuova unità centrale del Partito venga di necessità a comporsi fra le zone più vicine dei due

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